Il curatore nigeriano Okwui Enwezor dosa superstar e collettivi militanti in nome dell'impegno più verboso
Luca Beatrice - il Giornale Ven, 06/03/2015
Tra "Il Capitale" e
Piketty, letteratura e politica, Africa e global: il neocuratore di
Venezia racconta come sarà questa 56esima edizionedi DARIO PAPPALARDO Repubblica 23 10 2014
“Porto Marx alla Biennale
perché parla di noi oggi”
Okwui Enwezor, curatore della mostra veneziana: voglio riprendere il filo politico e sociale che fa parte della sua storia
Bonami La Stampa 1 3 2015
Okwui Enwezor è insieme ad Harald Szeeman l’unico curatore ad aver fatto
il grande slam dell’arte contemporanea dirigendo sia Documenta a
Kassel, nel 2002, che la Biennale di Venezia che aprirà il prossimo 9
Maggio. È l’unico africano, nato in Nigeria ad aver diretto le due
grandi kermesse dell’arte in Occidente oltre alla Biennale di
Johannesburg in Sud Africa e la Biennale di Gwanju in Corea. Vive fra
Monaco di Baviera dove è direttore del Haus der Kunst e New York. Questa
conversazione è avvenuta al bancone del ristorante Il Buco a Manhattan e
nel suo ufficio a Monaco prima dell’inaugurazione della mostra curata
da Enwezor di David Adjaye, l’architetto britannico che ha disegnato
l’installazione della prossima Biennale.
Mi ha chiesto di non parlare della lista degli artisti, parliamo allora
del ruolo dell’artista, di quello del curatore e di quello dello
spettatore.
«Con una mostra della scala, dell’importanza e dell’influenza della
Biennale di Venezia c’è sempre il rischio di trasformare la lista dei
partecipanti in un gioco frenetico di speculazioni. Capisco
perfettamente la logica di questa cosa ma alla fine una lista di artisti
ti racconta solo le scelte del curatore, i suoi limiti, i suoi
pregiudizi, le sue curiosità e i suoi interessi. Non fa altro che creare
un anticipazione sul tipo di arte che apparirà in mostra senza però
dirti molto sulla mostra stessa o sull’esperienza che offrirà. Una lista
di nomi non dice nulla delle relazioni che sono costruite all’interno
dell’esibizione, delle sue contraddizioni, dei rapporti fra l’intensità
visiva di certe opere e lo spiazzamento che altre potranno creare».
Come si ottiene questo risultato?
«Creando una coreografia e orchestrando i diversi punti di accesso alle
opere dei vari artisti, sperando di creare connessioni fra i vari pezzi
della mostra che possano aiutare lo spettatore ad afferrare sia il
significato che il piacere delle opere».
Questa edizione della Biennale sarà abbastanza speciale, ha focalizzato
l’attenzione sugli scritti di Karl Marx. Perché crede che siano cosi
contemporanei, in particolare il18 di Brumaio?
«Il 18 Brumaio che racconta e analizza la contro rivoluzione dell’alta
borghesia in Francia che porterà al colpo di stato del 1951 e alla
concentrazione di tutto il potere nelle mani di Luigi Bonaparte è un
testo strano da leggere oggi. Rileggendolo recentemente non ho potuto
fare a meno di notare quanto simile quel periodo sia al momento storico
che stiamo vivendo oggi in molte parti del mondo. Dall’atteggiamento
anti liberale di Putin in Russia a quella che potremmo definire la
contro rivoluzione del capitalismo finanziario, dove sempre più risorse
vengono concentrate non tanto nelle mani di coloro che hanno i mezzi di
produzione ma in quelle di chi è capace di maneggiare in modo magico e
sintetico i capitali. Chiaramente chi osa sottolineare questa situazione
viene tacciato di essere “marxista”, che in America è il bacio della
morte. Basta vedere gli attacchi della destra conservatrice contro il
libro di Thomas Piketty Il capitale nel XXI secolo».
Secondo lei, quindi, Marx oggi è più importante che mai?
«Sì, ma sia chiaro: ho scelto di mettere al centro della Biennale Il
Capitale non perché sia un esperto di Marx o di Marxismo, posso a
malapena comprendere solo alcune delle astruse teorie dell’opera, ma
perché non c’è un singolo pensatore oggi le cui idee ci perseguitino
ancora come quelle di Marx. Il capitale è una parte fondamentale del
nostro dramma contemporaneo perché allora non metterlo in scena? Cosi
tanti artisti hanno rivisitato Marx nel corso degli ultimi anni. Che uno
consideri o condivida l’idea che il marxismo sia la panacea per i mali
del capitalismo contemporaneo non è al centro delle mie preoccupazioni».
Allora perché questa audace provocazione in una mostra d’arte?
«Perché secondo me la natura di questo libro con la sua densità epica si
presta ad essere letto come un’oratorio ogni giorno, una cosa che
potrebbe aggiungere una dura ma maestosa dimensione alla natura di
mostra di un’istituzione come la Biennale».
Quale è la funzione di una mostra come la Biennale al mondo d’oggi. Può
veramente fare qualche differenza e provocare qualche cambiamento o si
riduce solo ad un esercizio intellettuale?
«Nel costruire la mia idea per la Biennale mi sono imbattuto negli
archivi della Biennale in un libro incredibile Annuario 1975-Eventi del
1974. È un libro pubblicato in occasione della mostra del 1975 e che
documenta tutti gli eventi di quella edizione, mostre, performance,
programmi paralleli etc. Sono rimasto stupefatto dalla nuda e cruda
natura politica della Biennale sotto la direzione di Carlo Ripa di Meana
e Wladimiro Dorigo. È incredibile che tutto il programma fosse dedicato
al Cile in solidarietà con il popolo Cileno oppresso dal colpo di stato
di Pinochet. Questo gesto mi ha veramente commosso e fatto capire
quanto l’archivio della Biennale sia una vera miniera».
Dopo quello che è accaduto a Parigi e in Danimarca troveremo nella mostra qualcosa che parla della libertà di espressione
«Non credo che avessimo bisogno di quello che è accaduto a Parigi o in
Danimarca per avere la scusa di parlare della libertà di espressione.
Siamo circondati da ogni genere di apparati repressive e censori, dalla
famiglia, alla Chiesa, ai media, alle agenzie governative. La lotta per
la libertà di espressione fa parte dell’aria che respiriamo. E’ un
problema molto complicato che non voglio introdurre opportunisticamente
dentro la Biennale».
L’arte ha una responsabilità nel definire i propri limiti?
«Ogni azione umana è una costruzione, non importa quanto intelligente o
trascendente essa sia. Viene naturalmente con i propri limiti. Gli
artisti non sono dei, né le opere d’arte hanno responsabilità o doveri».
Mi disse una volta che una mostra dovrebbe ogni volta creare una differenza. Quale differenza creerà la sua Biennale?
«Prendere in mano un progetto come la Biennale in questo momento storico
richiede una serietà che consenta di metterla in contatto con il
contesto sociale e politico del momento. Non è detto che così facendo
creerà anche una differenza. Una mostra è un palcoscenico dove ci
esibiamo. Se gli artisti sono dalla tua parte e credono in te e nelle
tue idee, cose sorprendenti ed eccitanti possono accadere. Ma questo non
è possibile programmarlo».
Dopo questa edizione sarebbe disposto a curare anche quella del 2017?
«La prima frase di Marx nel 18 di Brumaio di Luigi Bonaparte è questa:
“Hegel dice da qualche parte che i grandi eventi storici e i personaggi
ritornano sempre due volte. Si è dimenticato di dire: una volta come
tragedia e la seconda come farsa”».
Una Biennale hard rock. L’inner song di Okwui EnwezorBiennale Arte. Presentato ieri il programma dell'iniziativa artistica venezianaTiziana Migliore, il Manifesto Non sarà una Biennale mordi e fuggi quella che apre a Venezia
il prossimo 9 maggio, in anticipo sulle date consuete, per
solidarietà nazionale con Expo. 89 Partecipazioni nazionali, 5 i
paesi presenti per la prima volta alla Mostra giunta ai suoi 120 anni
di vita: Grenada, Mauritius, Mongolia, Repubblica del Mozambico,
Repubblica delle Seychelles. Il curatore, Okwui Enwezor,
nigeriano, direttore della Haus der Kunst di Monaco di Baviera
e studioso di migrazioni e diaspore, ha in mente una Mostra «live»,
non preconfezionata, ma che si attiva e si compie in tempo reale:
scenografie mobili, recital, proiezioni, canti, declamazioni,
dibattiti. Un «parlamento di forme». È la Biennale performance.
Enwezor ne ha dato un assaggio ieri in conferenza stampa: nel bel
mezzo del suo discorso ha mandato in onda la registrazione della
lettura ad alta voce pasoliniana di La Guinea (1962), con un
pubblico esterrefatto per la presa di coscienza della distanza
scavata fra il presente e la pratica della declamazione, fra il
presente e la poesia. Mettersi in ascolto dell’arte chiede tempo. I
«futuri del mondo» – il titolo della mostra è All the World’s Futures –
stanno nel prendersi cura del tempo?
Venezia non ha una tradizione forte sull’arte performativa, se
si eccettuano le due edizioni organizzate da Harald Szeemann – DAPERTutto, 1999; Platea dell’umanità,
2001 – e presiedute da Paolo Baratta al suo primo mandato. Due anni
fa il Leone d’Oro come miglior artista a Tino Sehgal, «per
l’eccellenza e la portata innovativa del suo lavoro che apre
i confini delle discipline artistiche», deve aver lasciato il segno.
Intanto Enwezor, scegliendo di accogliere espressioni artistiche
inusitate, potrebbe favorire una federazione fra i settori della
Biennale: oltre a Cinema, Arte e Architettura, ci sono infatti Danza,
Teatro e Musica, ma spesso viaggiano tutti su binari separati, sono
incomunicanti. Il suo profilo, poi, sembrerebbe rispondere a una
diffusa esigenza di cambiamento. Oggi ci si interroga sul ruolo del
curatore, contestando l’abitudine del fiancheggiamento
all’artista e reclamando politiche della «militanza», del dissenso
(Michele Dantini). D’altra parte si va in cerca di nuove formule
espositive, fondate sull’impollinazione fra culture e ispirate a un
impresario teatrale come Sergej Djagilev (Hans Ulrich Obrist).
Dopo le Illuminazioni di Bice Curiger (2011), le forze interiori
tese alla creazione enciclopedica di Massimiliano Gioni (2013),
Enwezor potrebbe essere la figura giusta di drammatizzazione dello
spazio artistico, intendendo l’opera come un evento dal vivo.
Ma per esprimere cosa? Per reagire come? Il curatore nigeriano prende a modello, da un lato, Il Capitale di Karl Marx, cioè la struttura e la natura del capitale, colte attraverso varie forme di manifestazione artistica e un programma di letture dal vivo dei quattro libri, recitals di canti di lavoro, letture di copioni, assemblee e proiezioni di film. Li ospiterà Arena, uno spazio al Padiglione Centrale dei Giardini concepito da David Adjaye in memoria di uno dei capitoli più significativi della storia della Biennale: il programma di eventi dedicato al Cile nel 1974 dopo il colpo di stato di Pinochet. Gruppi teatrali, attori, intellettuali fungeranno da mediatori culturali per favorire l’intervento del pubblico.
Gli artisti scelti da Enwezor, fra gli altri Abounaddara, Emily Kngwereye, Fabio Mauri, Hans Haacke, Walker Evans, Adel Abdessemed, Dora Garcia, Walker Evans, Tania Bruguera, Alexander Kluge, Steve McQueen, Rirkrit Tiravanija, Robert Smithson, Inji Aflatoun, Mathieu Kleyebe Abonnenc, Chris Marker, Olaf Nicolai (Un volto, e del mare/Non consumiamo Marx, dalla composizione di Luigi Nono), accomunati da un’impronta politica del mestiere, daranno voce a una visione «fresca» del capitale, dalle predazioni dell’economia politica alla rapacità dell’industria finanziaria, dal crescente sistema di disparità all’indebolimento del contratto sociale. Di fatto 159 lavori su 400 saranno nuovi. Nel pluralismo si esprimeranno anche le forze e le tensioni artistiche nei continenti meno rappresentati da padiglioni nazionali e meno noti. Emergerà il loro inner song, la particolare sensibilità al tema proposto.
Se Il Capitale è il filo conduttore per gli artisti, l’Angelus Novus (1920) di Paul Klee nella descrizione di Walter Benjamin lo è per gli spettatori. Enwezor istruisce il pubblico a una lettura incredula dell’incredibile: «vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove a noi appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta» (Benjamin). L’allegoria del filosofo è una sorta di dispositivo di pensiero del panorama mondiale attuale, che appare in frantumi e nel caos, terrorizzato e perciò instabile. Spunto poco originale, Benjamin, tanto di moda da risultare scontato. Ma forse Enwezor, a differenza del filosofo, avrà notato che nel quadro di Klee quel futuro che attrae l’angelo è la profondità dell’immagine. I «futuri del mondo» stanno nella profondità dell’immagine.
La Biennale contro Voci ribelli, da Marx fino a oggi: ecco il «Parlamento delle forme»
di Pierluigi Panza Corriere 6.3.15
VENEZIA La troika vi respinge? Il vostro Parlamento è esautorato? La finanza mondiale schiaccia ogni vostra aspirazione di libertà? Nessun problema, l’arte vi viene incontro e la vostra casa, dal 9 maggio al 22 novembre, sarà la Biennale d’arte di Venezia. Se non sapessimo che il curatore della 56ª edizione è il 52enne nigeriano Okwui Enwezor (balzato alla ribalta nel 2002 per aver curato una delle più politicizzate edizioni della politicizzata Documenta di Kassel) penseremmo che Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis ci abbiano messo lo zampino. L’evento, che cade a 120 anni dalla nascita della Biennale, appare infatti come un «Parlamento delle forme», un collettivo aperto, assembleare, ex terzomondista, ex periferico dove artisti diversissimi sembrano chiamati a rispondere alle nuove forme di dominio mondiale, «dall’atteggiamento antiliberale di alcune nazioni alla controrivoluzione del capitalismo finanziario in Occidente» confessa Enwezor. «Le fratture che ci circondano abbondano in ogni angolo del pianeta e la risposta per gli artisti è tornare nell’Arena».
Già, l’Arena sarà il cuore di questa Biennale, l’area pulsante del Padiglione centrale ai Giardini dove ogni giorno, per sette mesi, verrà letto, ininterrottamente, Il Capitale di Marx accompagnando la lettura con «recital, canti di lavoro, discussioni, assemblee plenarie e proiezioni di film dedicati a esplorazioni dell’opera di Marx». Sarà come «un oratorio» popolare, l’ha definito il curatore, come ipnotici canti religiosi, che coinvolgerà il pensiero di Engels, Lenin, Rosa Luxemburg, Trotsky, Stalin, Gramsci fino a Pier Paolo Pasolini, con la sua poesia La Guinea declamata in un recital che sarà sempre ripetuto. A corredo di queste letture, opere d’arte appese alle pareti, installazioni, proiezioni di film di Eisenstein, la musica di Luigi Nono ( Non consumiamo Marx ), i tam-tam di Janson Moran e altro di contorno.
«Espropriare gli espropriatori», insomma, come dal Libro I del Capitale , sembra un po’ il messaggio collettivo che dovrebbe uscire, se non dall’intera Biennale, certamente dalla mostra principale, All the World’s Futures curata appunto da Enwezor, che qui tutti chiamano amichevolmente con il nome proprio Okwui. Okwui ha radunato 136 artisti, dei quali 89 presenti per la prima volta, da 53 Paesi (molti africani) in una mostra con tante opere, sia filmiche che grafiche, di cui ben 159 nuove produzioni. Artisti che avranno anche modo di presentarsi, confrontarsi e, alla fine, dar vita a un progetto speciale: la raccolta dei curriculum di tutti gli artisti operanti nel mondo, da consegnarsi agli archivi della Biennale.
Per Enwezor, che tende a saldare storia e proiezione contemporanea, si è arrivati a questa mostra globale perché la Biennale deve riscoprire quella vocazione espressa nel 1974: «L’anno successivo al golpe di Pinochet, la Biennale sostenne il Cile e si impegnò con una serie di programmi con attivisti, sindacati e studenti dimostrando che l’arte può servire alla trasformazione sociale». Anche se nella rassegna odierna il riferimento è più simbolico che di impegno militante (ma ci sarà anche una mappa dei conflitti in corso in Siria), a questa prospettiva si ispira la selezione delle opere dei vari Christian Boltansky, Robert Smithson, Chris Marker, Abdel Abdessemed, Allora & Calzadilla, Philippe Parreno e moltissimi nomi poco noti con lavori che mitizzano quasi un’intera storia del mondo come sforzo di libertà. Le loro opere saranno accompagnate da lavori più engagé come quelli di Inji Aflatoun (attivista egiziano incarcerato) o quelli sulla Borsa valori e sulle fabbriche di Andreas Gursky. Gli italiani sono quattro: Fabio Mauri, Pino Pascali e, viventi, Monica Bonvicini e Rosa Barba, più uno spazio per la rivista «the Tomorrow» con sede a Milano. Il tutto esposto in quelli che Enwezor chiama i tre filtri della rassegna: il primo dedicato ai residui ( Giardino del disordine ai Giardini), il secondo al Capitale ( Arena nel Padiglione principale), il terzo alla Vitalità (diverse sedi).
Accanto alla mostra principale, ci saranno gli 89 padiglioni delle diverse nazioni tra le quali, new entry, Grenada, Mauritius, Mongolia, Mozambico, Seychelles. Il Padiglione Italia sarà curato da Vincenzo Trione; presente, per la seconda volta, il Vaticano. Più progetti speciali e 44 eventi collaterali.
Le esposizioni nazionali consentono al presidente della Biennale, Paolo Baratta, di rafforzare il senso della rassegna che si presenta: «A chi, nel 1998, chiedeva la chiusura dei padiglioni nazionali perché obsoleti, oggi possiamo dire che il loro mantenimento ha consentito di non dare ospitalità alla dittatura del mercato. Nonostante i progressi delle scienze, la nostra è una sorta di age of anxiety e per questo la Biennale torna a osservare il rapporto tra l’arte e lo sviluppo della realtà umana. E lo fa coinvolgendo artisti e discipline diverse in una sorta di Parlamento delle forme. Siamo come l’ Angelus novus del quadro di Klee descritto da Benjamin: guardiamo le rovine della nostra storia consapevoli che dobbiamo andare avanti». Avanti verso una terra promessa, con Il Capitale ma senza il capitalismo andando oltre «l’arte non arte» degli ultimi decenni. Sebbene — o forse proprio per questo — gran parte dell’arte contemporanea sia proprio una specie di future , di edge-fund nelle mani del capitalismo finanziario internazionale.
La memoria ha il suo stileBiennale . Codice Italia sarà la mostra curata da Vincenzo Trione: un itinerario che, con quindici artisti, va alla ricerca di segmenti da rintracciare, connessioni perdute, dialoghi interrotti. Da Kounellis a Paladino fino a Migliora e Beecroft, passando per giovanissimi come Luca MonterastelliArianna Di Genova, il Manifesto Se la Biennale d’arte di Venezia numero 56, guidata dal nigeriano Okwui Enwezor, si lancerà verso mondi futuri, senza chiudere gli occhi di fronte alle macerie ai piedi dell’Angelus Novus di Benjamin, affidandosi al fantasma di Marx e alla presenza in Laguna (oltre, naturalmente, agli artisti), di un economista come Thomas Piketty, il padiglione Italia, invece, ripartierà da sé, dalla sua mappatura genetica, un dna che mescola insieme parole che oggi suonano desuete: stile, avanguardia, memoria.Non teme di pronunciarle, una dopo l’altra, Vincenzo Trione, presentando alla stampa la sua mostra: Codice Italia - che vedremo all’Arsenale di Venezia a partire dal 9 maggio per il pubblico — fa ricorso ad alcuni grimaldelli critici per ribadire che l’arte non ha nulla di fenomenologico, ma nasce e si raddrizza sui binari di linee guida ben precise. La descrizione del presente non interessa Trione che, oltretutto, non esita a prendere le distanze dalla figura di «independent curator», rischiando l’isolamento e un atteggiamento di controtendenza, quasi da docente che impartisce la sua severa lezione.
Casomai, a dettare le regole, c’è l’ermeneutica tout court. Il compito di chi è al timone del padiglione Italia diventa, allora, rintracciare segmenti specifici, consonanze, indizi.
Fin qui, niente di nuovo. L’arte è da sempre una ragnatela che intrappola i più disparati segnali. Poi, però, Trione tira fuori dal cappello quella parola perduta e irrintracciabile: lo stile, letto come «una postura, un gesto che differenzia un individuo da un altro». Qualcosa di non casuale, ma che va a pescare nelle profondità di un patrimonio genetico. C’è Walter Benjamin ancora una volta alle spalle, soprattutto l’idea e la possibilità di una fusione fra tempi diversi, ciò che è stato e il presente che scorre verso un destino sconosciuto. L’arte intesa come una costellazione temporale è quella che sembra intrigare maggiormente Trione. Per questo, il suo richiamo più forte è alla memoria, non quella del mero ricordo, ma una memoria attiva, che sappia risvegliare circuiti dimenticati, oscurati, contatti evaporati, dialoghi interrotti.
Se il presidente Baratta ha parlato di una Biennale che districherà la rete di tensioni che ci avvolge da ogni parte del mondo, il padiglione Italia si misurerà a modo suo con quell’«età dell’ansia», a partire dai quindici artisti scelti per rappresentare il paese. Saranno loro a disegnare le traiettorie da seguire per una interpretazione del mondo. Il punto di vista, invece, sarà unico e rispecchierà quello del curatore. Un cocktail di generazioni — da Kounellis a Paladino e Aquilanti, da Longobardi e Biasucci a Beecroft, Caccavale, Migliora, fino a giovanissimi come Francesco Barocco o il duo Alis/Filliol — sarà chiamato all’Arsenale con installazioni ad hoc, per oliare il dispositivo ambiguo della memoria. Obiettivo, la costruzione di un «Atlante», con riferimenti a Warburg e a quella speciale ricognizione dei confini — e degli sconfinamenti — attraverso le immagini. Per sbrigare al meglio questo compito critico, Trione ha invitato artisti schivi e dall’anima sperimentatrice come Paolo Gioli, provocatori (Nicola Samorì che infligge un martirio fisico ai capolavori con esiti kitsch), talenti delle nuovissime generazioni (Luca Monterastelli), filmmaker underground come Aldo Tambellini.
L’allestimento del padiglione — un milione di euro, fra soldi del Mibact, sponsor e fondi extra arrivati grazie alla circolarità con Expo — è stato affidato all’architetto, Giovanni Francesco Frascino, che ha creato uno spazio di celle autonome, quasi degli «orti conclusi» dalle pareti porose, immaginati in sequenza dentro una cattedrale. Codice Italia avrà poi dei tentacoli nelle Accademie, bandirà concorsi, si circonderà di un pullulare di iniziative che dilagheranno fino a Marghera. Ha pure una sua «sigla» video, girata da Mimmo Calopresti, con musiche dei Subsonica.
Intanto, il ministro Dario Franceschini, auspicando la sinergia fra Expo e Biennale, dovrà posare il suo sguardo anche altrove: per esempio sugli Uffizi, dove la minaccia della chiusura pasquale (nonostante sia stata dichiarata illegittima dall’Autorità di garanzia per gli scioperi) non gli deve far dormire sonni molto tranquilli.
Fame, guerre, Marx. Che noia il catalogo di Occupy VeneziaUn'edizione politica che vuole far sentire i "rumori del mondo" e "confrontarsi con la storia". Solo quella di ieri purtroppo...
Ma per esprimere cosa? Per reagire come? Il curatore nigeriano prende a modello, da un lato, Il Capitale di Karl Marx, cioè la struttura e la natura del capitale, colte attraverso varie forme di manifestazione artistica e un programma di letture dal vivo dei quattro libri, recitals di canti di lavoro, letture di copioni, assemblee e proiezioni di film. Li ospiterà Arena, uno spazio al Padiglione Centrale dei Giardini concepito da David Adjaye in memoria di uno dei capitoli più significativi della storia della Biennale: il programma di eventi dedicato al Cile nel 1974 dopo il colpo di stato di Pinochet. Gruppi teatrali, attori, intellettuali fungeranno da mediatori culturali per favorire l’intervento del pubblico.
Gli artisti scelti da Enwezor, fra gli altri Abounaddara, Emily Kngwereye, Fabio Mauri, Hans Haacke, Walker Evans, Adel Abdessemed, Dora Garcia, Walker Evans, Tania Bruguera, Alexander Kluge, Steve McQueen, Rirkrit Tiravanija, Robert Smithson, Inji Aflatoun, Mathieu Kleyebe Abonnenc, Chris Marker, Olaf Nicolai (Un volto, e del mare/Non consumiamo Marx, dalla composizione di Luigi Nono), accomunati da un’impronta politica del mestiere, daranno voce a una visione «fresca» del capitale, dalle predazioni dell’economia politica alla rapacità dell’industria finanziaria, dal crescente sistema di disparità all’indebolimento del contratto sociale. Di fatto 159 lavori su 400 saranno nuovi. Nel pluralismo si esprimeranno anche le forze e le tensioni artistiche nei continenti meno rappresentati da padiglioni nazionali e meno noti. Emergerà il loro inner song, la particolare sensibilità al tema proposto.
Se Il Capitale è il filo conduttore per gli artisti, l’Angelus Novus (1920) di Paul Klee nella descrizione di Walter Benjamin lo è per gli spettatori. Enwezor istruisce il pubblico a una lettura incredula dell’incredibile: «vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove a noi appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta» (Benjamin). L’allegoria del filosofo è una sorta di dispositivo di pensiero del panorama mondiale attuale, che appare in frantumi e nel caos, terrorizzato e perciò instabile. Spunto poco originale, Benjamin, tanto di moda da risultare scontato. Ma forse Enwezor, a differenza del filosofo, avrà notato che nel quadro di Klee quel futuro che attrae l’angelo è la profondità dell’immagine. I «futuri del mondo» stanno nella profondità dell’immagine.
La Biennale contro Voci ribelli, da Marx fino a oggi: ecco il «Parlamento delle forme»
di Pierluigi Panza Corriere 6.3.15
VENEZIA La troika vi respinge? Il vostro Parlamento è esautorato? La finanza mondiale schiaccia ogni vostra aspirazione di libertà? Nessun problema, l’arte vi viene incontro e la vostra casa, dal 9 maggio al 22 novembre, sarà la Biennale d’arte di Venezia. Se non sapessimo che il curatore della 56ª edizione è il 52enne nigeriano Okwui Enwezor (balzato alla ribalta nel 2002 per aver curato una delle più politicizzate edizioni della politicizzata Documenta di Kassel) penseremmo che Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis ci abbiano messo lo zampino. L’evento, che cade a 120 anni dalla nascita della Biennale, appare infatti come un «Parlamento delle forme», un collettivo aperto, assembleare, ex terzomondista, ex periferico dove artisti diversissimi sembrano chiamati a rispondere alle nuove forme di dominio mondiale, «dall’atteggiamento antiliberale di alcune nazioni alla controrivoluzione del capitalismo finanziario in Occidente» confessa Enwezor. «Le fratture che ci circondano abbondano in ogni angolo del pianeta e la risposta per gli artisti è tornare nell’Arena».
Già, l’Arena sarà il cuore di questa Biennale, l’area pulsante del Padiglione centrale ai Giardini dove ogni giorno, per sette mesi, verrà letto, ininterrottamente, Il Capitale di Marx accompagnando la lettura con «recital, canti di lavoro, discussioni, assemblee plenarie e proiezioni di film dedicati a esplorazioni dell’opera di Marx». Sarà come «un oratorio» popolare, l’ha definito il curatore, come ipnotici canti religiosi, che coinvolgerà il pensiero di Engels, Lenin, Rosa Luxemburg, Trotsky, Stalin, Gramsci fino a Pier Paolo Pasolini, con la sua poesia La Guinea declamata in un recital che sarà sempre ripetuto. A corredo di queste letture, opere d’arte appese alle pareti, installazioni, proiezioni di film di Eisenstein, la musica di Luigi Nono ( Non consumiamo Marx ), i tam-tam di Janson Moran e altro di contorno.
«Espropriare gli espropriatori», insomma, come dal Libro I del Capitale , sembra un po’ il messaggio collettivo che dovrebbe uscire, se non dall’intera Biennale, certamente dalla mostra principale, All the World’s Futures curata appunto da Enwezor, che qui tutti chiamano amichevolmente con il nome proprio Okwui. Okwui ha radunato 136 artisti, dei quali 89 presenti per la prima volta, da 53 Paesi (molti africani) in una mostra con tante opere, sia filmiche che grafiche, di cui ben 159 nuove produzioni. Artisti che avranno anche modo di presentarsi, confrontarsi e, alla fine, dar vita a un progetto speciale: la raccolta dei curriculum di tutti gli artisti operanti nel mondo, da consegnarsi agli archivi della Biennale.
Per Enwezor, che tende a saldare storia e proiezione contemporanea, si è arrivati a questa mostra globale perché la Biennale deve riscoprire quella vocazione espressa nel 1974: «L’anno successivo al golpe di Pinochet, la Biennale sostenne il Cile e si impegnò con una serie di programmi con attivisti, sindacati e studenti dimostrando che l’arte può servire alla trasformazione sociale». Anche se nella rassegna odierna il riferimento è più simbolico che di impegno militante (ma ci sarà anche una mappa dei conflitti in corso in Siria), a questa prospettiva si ispira la selezione delle opere dei vari Christian Boltansky, Robert Smithson, Chris Marker, Abdel Abdessemed, Allora & Calzadilla, Philippe Parreno e moltissimi nomi poco noti con lavori che mitizzano quasi un’intera storia del mondo come sforzo di libertà. Le loro opere saranno accompagnate da lavori più engagé come quelli di Inji Aflatoun (attivista egiziano incarcerato) o quelli sulla Borsa valori e sulle fabbriche di Andreas Gursky. Gli italiani sono quattro: Fabio Mauri, Pino Pascali e, viventi, Monica Bonvicini e Rosa Barba, più uno spazio per la rivista «the Tomorrow» con sede a Milano. Il tutto esposto in quelli che Enwezor chiama i tre filtri della rassegna: il primo dedicato ai residui ( Giardino del disordine ai Giardini), il secondo al Capitale ( Arena nel Padiglione principale), il terzo alla Vitalità (diverse sedi).
Accanto alla mostra principale, ci saranno gli 89 padiglioni delle diverse nazioni tra le quali, new entry, Grenada, Mauritius, Mongolia, Mozambico, Seychelles. Il Padiglione Italia sarà curato da Vincenzo Trione; presente, per la seconda volta, il Vaticano. Più progetti speciali e 44 eventi collaterali.
Le esposizioni nazionali consentono al presidente della Biennale, Paolo Baratta, di rafforzare il senso della rassegna che si presenta: «A chi, nel 1998, chiedeva la chiusura dei padiglioni nazionali perché obsoleti, oggi possiamo dire che il loro mantenimento ha consentito di non dare ospitalità alla dittatura del mercato. Nonostante i progressi delle scienze, la nostra è una sorta di age of anxiety e per questo la Biennale torna a osservare il rapporto tra l’arte e lo sviluppo della realtà umana. E lo fa coinvolgendo artisti e discipline diverse in una sorta di Parlamento delle forme. Siamo come l’ Angelus novus del quadro di Klee descritto da Benjamin: guardiamo le rovine della nostra storia consapevoli che dobbiamo andare avanti». Avanti verso una terra promessa, con Il Capitale ma senza il capitalismo andando oltre «l’arte non arte» degli ultimi decenni. Sebbene — o forse proprio per questo — gran parte dell’arte contemporanea sia proprio una specie di future , di edge-fund nelle mani del capitalismo finanziario internazionale.
La memoria ha il suo stileBiennale . Codice Italia sarà la mostra curata da Vincenzo Trione: un itinerario che, con quindici artisti, va alla ricerca di segmenti da rintracciare, connessioni perdute, dialoghi interrotti. Da Kounellis a Paladino fino a Migliora e Beecroft, passando per giovanissimi come Luca MonterastelliArianna Di Genova, il Manifesto Se la Biennale d’arte di Venezia numero 56, guidata dal nigeriano Okwui Enwezor, si lancerà verso mondi futuri, senza chiudere gli occhi di fronte alle macerie ai piedi dell’Angelus Novus di Benjamin, affidandosi al fantasma di Marx e alla presenza in Laguna (oltre, naturalmente, agli artisti), di un economista come Thomas Piketty, il padiglione Italia, invece, ripartierà da sé, dalla sua mappatura genetica, un dna che mescola insieme parole che oggi suonano desuete: stile, avanguardia, memoria.Non teme di pronunciarle, una dopo l’altra, Vincenzo Trione, presentando alla stampa la sua mostra: Codice Italia - che vedremo all’Arsenale di Venezia a partire dal 9 maggio per il pubblico — fa ricorso ad alcuni grimaldelli critici per ribadire che l’arte non ha nulla di fenomenologico, ma nasce e si raddrizza sui binari di linee guida ben precise. La descrizione del presente non interessa Trione che, oltretutto, non esita a prendere le distanze dalla figura di «independent curator», rischiando l’isolamento e un atteggiamento di controtendenza, quasi da docente che impartisce la sua severa lezione.
Casomai, a dettare le regole, c’è l’ermeneutica tout court. Il compito di chi è al timone del padiglione Italia diventa, allora, rintracciare segmenti specifici, consonanze, indizi.
Fin qui, niente di nuovo. L’arte è da sempre una ragnatela che intrappola i più disparati segnali. Poi, però, Trione tira fuori dal cappello quella parola perduta e irrintracciabile: lo stile, letto come «una postura, un gesto che differenzia un individuo da un altro». Qualcosa di non casuale, ma che va a pescare nelle profondità di un patrimonio genetico. C’è Walter Benjamin ancora una volta alle spalle, soprattutto l’idea e la possibilità di una fusione fra tempi diversi, ciò che è stato e il presente che scorre verso un destino sconosciuto. L’arte intesa come una costellazione temporale è quella che sembra intrigare maggiormente Trione. Per questo, il suo richiamo più forte è alla memoria, non quella del mero ricordo, ma una memoria attiva, che sappia risvegliare circuiti dimenticati, oscurati, contatti evaporati, dialoghi interrotti.
Se il presidente Baratta ha parlato di una Biennale che districherà la rete di tensioni che ci avvolge da ogni parte del mondo, il padiglione Italia si misurerà a modo suo con quell’«età dell’ansia», a partire dai quindici artisti scelti per rappresentare il paese. Saranno loro a disegnare le traiettorie da seguire per una interpretazione del mondo. Il punto di vista, invece, sarà unico e rispecchierà quello del curatore. Un cocktail di generazioni — da Kounellis a Paladino e Aquilanti, da Longobardi e Biasucci a Beecroft, Caccavale, Migliora, fino a giovanissimi come Francesco Barocco o il duo Alis/Filliol — sarà chiamato all’Arsenale con installazioni ad hoc, per oliare il dispositivo ambiguo della memoria. Obiettivo, la costruzione di un «Atlante», con riferimenti a Warburg e a quella speciale ricognizione dei confini — e degli sconfinamenti — attraverso le immagini. Per sbrigare al meglio questo compito critico, Trione ha invitato artisti schivi e dall’anima sperimentatrice come Paolo Gioli, provocatori (Nicola Samorì che infligge un martirio fisico ai capolavori con esiti kitsch), talenti delle nuovissime generazioni (Luca Monterastelli), filmmaker underground come Aldo Tambellini.
L’allestimento del padiglione — un milione di euro, fra soldi del Mibact, sponsor e fondi extra arrivati grazie alla circolarità con Expo — è stato affidato all’architetto, Giovanni Francesco Frascino, che ha creato uno spazio di celle autonome, quasi degli «orti conclusi» dalle pareti porose, immaginati in sequenza dentro una cattedrale. Codice Italia avrà poi dei tentacoli nelle Accademie, bandirà concorsi, si circonderà di un pullulare di iniziative che dilagheranno fino a Marghera. Ha pure una sua «sigla» video, girata da Mimmo Calopresti, con musiche dei Subsonica.
Intanto, il ministro Dario Franceschini, auspicando la sinergia fra Expo e Biennale, dovrà posare il suo sguardo anche altrove: per esempio sugli Uffizi, dove la minaccia della chiusura pasquale (nonostante sia stata dichiarata illegittima dall’Autorità di garanzia per gli scioperi) non gli deve far dormire sonni molto tranquilli.
Fame, guerre, Marx. Che noia il catalogo di Occupy VeneziaUn'edizione politica che vuole far sentire i "rumori del mondo" e "confrontarsi con la storia". Solo quella di ieri purtroppo...
Luigi Mascheroni
- il Giornale Mer, 06/05/2015
Molta teoria, pochi capolavori. È la mostra delle chiacchiereIl curatore Enwezor calca la mano sui temi d'attualità ma si scorda delle visioni. Il risultato non appassiona
Molta teoria, pochi capolavori. È la mostra delle chiacchiereIl curatore Enwezor calca la mano sui temi d'attualità ma si scorda delle visioni. Il risultato non appassiona
Luca Beatrice
- il Giornale Mer, 06/05/2015
A Venezia si torna all’ utopia (multietnica e anticapitalista) Comunismo, diritti umani, controcultura: l’estetica come azione politica Mercoledì 6 Maggio, 2015 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
VENEZIA Che nostalgia! Alla 56ª Biennale d’arte, che si apre domenica 9 a 120 anni dalla prima edizione, va in scena la rivisitazione 2.0 (anche se non c’è l’ombra di internet) della storia dell’utopismo comunista, dei diritti umani e dell’arte come controcultura. A cucinare questa ricetta intitolata All the World’s Futures — strappalacrime e retrospettiva per chi ha almeno cinquant’anni, forse educativa per i black bloc nichilisti —, è stato chiamato un Piketty dell’arte contemporanea, nato in Nigeria cinquant’anni fa ma ben forgiato nei salotti newyorkesi e già sperimentato a Documenta di Kassel: Okwui Enwezor.
Se negli anni Settanta l’arte era forma di liberazione dal giogo borghese (come insegnavano Sartre e Marcuse) oggi è diventata la sua rivisitazione etno-chic in una prospettiva le cui radici sono ben piantate nell’élite capitalistica internazionale e globalista. Una prospettiva talmente multiculturalista che, mentre da un lato la Biennale conta 89 padiglioni nazionali per offrire materiale identitario, nella mostra del curatore Enwezor difficilmente si può fissare la nazionalità degli artisti esposti, perché sono quasi tutti apolidi.
Sull’ingresso del padiglione centrale ai Giardini, dal quale è opportuno iniziare la visita, accoglie il visitatore la scritta Blues Blood Bruise (musica blues, sangue, ammaccatura): significato e connessione di queste tre parole sono «aperti e liberi» secondo il curatore, ma rimandano comunque a un episodio americano degli anni Sessanta in cui un ragazzino di colore fu ingiustamente accusato di omicidio e queste tre parole usate per la sua difesa. Pendono dalla grondaia di questo stesso padiglione lunghi drappi neri: «Non sono drappi, ma tele dipinte di Oscar Murillo e ci mettono in contatto con il resto della mostra — spiega Enwezor —, che è una mostra politica nel senso che tratta del nostro rapporto con la storia. Dal Seicento ci interroghiamo su cosa ci lacera e oggi sembriamo vivere queste lacerazioni senza cercare di dare una risposta unitaria». Ovviamente la rassegna — pure lei — mette in scena queste lacerazioni e non dà risposte. E così, superate le gramaglie eccoci di fronte The western wall , il muro realizzato nel 1993 da Fabio Mauri con le valigie dei migranti (oggi il brasiliano Vik Muniz varerà, invece, una barca dei migranti) , poi un video in cui Pierpaolo Pasolini spiega Cos’è il fascismo e infine — e qui ci scappa una lacrimuccia — l’inno sovietico a tutto volume che accompagna le immagini dello svedese Runo Lagomarsino sui successi dell’ingegneria falce e martello. A questo punto ci si potrebbe aspettare di veder spuntare nell’altra sala la salma di Lenin direttamente dalla Piazza Rossa; invece no.
Nell’Arena al centro del padiglione centrale ai Giardini si legge ininterrottamente Das Kapital di Marx, ma in inglese (e senza traduzioni o cuffie), accompagnato però, per alleggerire questo «oratorio» (cioè riflessione collettiva, come la definisce Enwezor), da alcune performance: ad esempio, la lettura degli appunti ingialliti su Claude Lévi-Strauss di Louis Althusser (il filosofo che strangolò la moglie, ma fu dichiarato incapace di intendere) oppure l’osservazione di opere di «migranti, ma non solo, influenzati da Marx». Sono opere come Theory of Justice (che è anche il titolo di un libro del filosofo politico John Rawls) dell’ex critico teatrale austriaco Peter Friedl, che ha preso ritagli di giornale e foto dagli anni 40 in poi sul contropotere: ci sono i partigiani, Fidel Castro, Feltrinelli con Pasternak, Nixon, i desaparecidos…, o come quelle dello scomparso registra cinematografico Chris Marker, che mostra i rifugiati politici in un’ambasciata nel 1973 o del «realista sociale» londinese Jeremy Deller, un juke box con rumori rivoluzionari e una raccolta di volantini di protesta.
Usciamo a prendere una boccata d’aria, magari davanti al padiglione israeliano curato da Hadas Maor costruito con pneumatici a simulare un bunker difensivo; e se l’aria è troppo pesante per la nostra riflessione, il padiglione russo offre un’opportunità: una gigantesca maschera antigas di Irina Nakhova.
All’Arsenale molte opere sono state realizzate apposta per questa Biennale e l’aria assume i colori dell’arcobaleno: i temi sono gli stessi (diritti umani, contropotere, femminismo…) ma non più rivisitati bensì interpretati in versione etnica 2.0. C’è la torre di tamburi alta sette metri di Terry Adkins (scomparso nel 2014 a Brooklyn), ci sono le performance lungo l’Arsenale trasformato da enormi muri bianchi, c’è il Cannone semovente di Pino Pascali del ’65, l’apocalisse di rottami della tedesca Katharina Grosse, le immagini dei movimenti femministi della svedese Petra Bauer, il Throne di Gonçalo Mabunda costruito con ordigni esplosi e poi maschere, stracci (chic), i vestiti tirati contro Putin esposti da Gluklya (Natalia Pershina-Yakimanskaya, fondatrice del collettivo Factory of Found Clothes ) e i grossi timbri di Barthélémy Toguo con la scritta ambigua Je suis Chalie Ebdo? .
Anche in altri padiglioni sparsi in città domina l’idea dell’arte come azione politica — proprio qui, dove la politica ha abdicato ed è quasi tutto commissariato. A Ca’ Dandolo il Padiglione dell’Iraq espone acquerelli contro l’Isis e disegni realizzati da rifugiati; il padiglione dell’Armenia all’Isola di San Lazzaro una memoria sul genocidio perpetrato dai Turchi proprio un secolo fa; l’Azerbaijan punta sugli artisti che si opposero «al repressivo regime sovietico» e pure nel padiglione dell’Albania, Armando Lulaj ironizza nei suoi video sugli occupanti sovietici che colpirono una balena credendola un sottomarino. Sì perché il socialismo reale non fu poi quell’esperienza di liberazione dal capitalismo che Marx si aspettava; e così nacque un’arte come contropotere del contropotere. E oggi finiscono tutte in quel «Parlamento delle forme» che è la Biennale di Venezia.
A Venezia si torna all’ utopia (multietnica e anticapitalista) Comunismo, diritti umani, controcultura: l’estetica come azione politica Mercoledì 6 Maggio, 2015 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
VENEZIA Che nostalgia! Alla 56ª Biennale d’arte, che si apre domenica 9 a 120 anni dalla prima edizione, va in scena la rivisitazione 2.0 (anche se non c’è l’ombra di internet) della storia dell’utopismo comunista, dei diritti umani e dell’arte come controcultura. A cucinare questa ricetta intitolata All the World’s Futures — strappalacrime e retrospettiva per chi ha almeno cinquant’anni, forse educativa per i black bloc nichilisti —, è stato chiamato un Piketty dell’arte contemporanea, nato in Nigeria cinquant’anni fa ma ben forgiato nei salotti newyorkesi e già sperimentato a Documenta di Kassel: Okwui Enwezor.
Se negli anni Settanta l’arte era forma di liberazione dal giogo borghese (come insegnavano Sartre e Marcuse) oggi è diventata la sua rivisitazione etno-chic in una prospettiva le cui radici sono ben piantate nell’élite capitalistica internazionale e globalista. Una prospettiva talmente multiculturalista che, mentre da un lato la Biennale conta 89 padiglioni nazionali per offrire materiale identitario, nella mostra del curatore Enwezor difficilmente si può fissare la nazionalità degli artisti esposti, perché sono quasi tutti apolidi.
Sull’ingresso del padiglione centrale ai Giardini, dal quale è opportuno iniziare la visita, accoglie il visitatore la scritta Blues Blood Bruise (musica blues, sangue, ammaccatura): significato e connessione di queste tre parole sono «aperti e liberi» secondo il curatore, ma rimandano comunque a un episodio americano degli anni Sessanta in cui un ragazzino di colore fu ingiustamente accusato di omicidio e queste tre parole usate per la sua difesa. Pendono dalla grondaia di questo stesso padiglione lunghi drappi neri: «Non sono drappi, ma tele dipinte di Oscar Murillo e ci mettono in contatto con il resto della mostra — spiega Enwezor —, che è una mostra politica nel senso che tratta del nostro rapporto con la storia. Dal Seicento ci interroghiamo su cosa ci lacera e oggi sembriamo vivere queste lacerazioni senza cercare di dare una risposta unitaria». Ovviamente la rassegna — pure lei — mette in scena queste lacerazioni e non dà risposte. E così, superate le gramaglie eccoci di fronte The western wall , il muro realizzato nel 1993 da Fabio Mauri con le valigie dei migranti (oggi il brasiliano Vik Muniz varerà, invece, una barca dei migranti) , poi un video in cui Pierpaolo Pasolini spiega Cos’è il fascismo e infine — e qui ci scappa una lacrimuccia — l’inno sovietico a tutto volume che accompagna le immagini dello svedese Runo Lagomarsino sui successi dell’ingegneria falce e martello. A questo punto ci si potrebbe aspettare di veder spuntare nell’altra sala la salma di Lenin direttamente dalla Piazza Rossa; invece no.
Nell’Arena al centro del padiglione centrale ai Giardini si legge ininterrottamente Das Kapital di Marx, ma in inglese (e senza traduzioni o cuffie), accompagnato però, per alleggerire questo «oratorio» (cioè riflessione collettiva, come la definisce Enwezor), da alcune performance: ad esempio, la lettura degli appunti ingialliti su Claude Lévi-Strauss di Louis Althusser (il filosofo che strangolò la moglie, ma fu dichiarato incapace di intendere) oppure l’osservazione di opere di «migranti, ma non solo, influenzati da Marx». Sono opere come Theory of Justice (che è anche il titolo di un libro del filosofo politico John Rawls) dell’ex critico teatrale austriaco Peter Friedl, che ha preso ritagli di giornale e foto dagli anni 40 in poi sul contropotere: ci sono i partigiani, Fidel Castro, Feltrinelli con Pasternak, Nixon, i desaparecidos…, o come quelle dello scomparso registra cinematografico Chris Marker, che mostra i rifugiati politici in un’ambasciata nel 1973 o del «realista sociale» londinese Jeremy Deller, un juke box con rumori rivoluzionari e una raccolta di volantini di protesta.
Usciamo a prendere una boccata d’aria, magari davanti al padiglione israeliano curato da Hadas Maor costruito con pneumatici a simulare un bunker difensivo; e se l’aria è troppo pesante per la nostra riflessione, il padiglione russo offre un’opportunità: una gigantesca maschera antigas di Irina Nakhova.
All’Arsenale molte opere sono state realizzate apposta per questa Biennale e l’aria assume i colori dell’arcobaleno: i temi sono gli stessi (diritti umani, contropotere, femminismo…) ma non più rivisitati bensì interpretati in versione etnica 2.0. C’è la torre di tamburi alta sette metri di Terry Adkins (scomparso nel 2014 a Brooklyn), ci sono le performance lungo l’Arsenale trasformato da enormi muri bianchi, c’è il Cannone semovente di Pino Pascali del ’65, l’apocalisse di rottami della tedesca Katharina Grosse, le immagini dei movimenti femministi della svedese Petra Bauer, il Throne di Gonçalo Mabunda costruito con ordigni esplosi e poi maschere, stracci (chic), i vestiti tirati contro Putin esposti da Gluklya (Natalia Pershina-Yakimanskaya, fondatrice del collettivo Factory of Found Clothes ) e i grossi timbri di Barthélémy Toguo con la scritta ambigua Je suis Chalie Ebdo? .
Anche in altri padiglioni sparsi in città domina l’idea dell’arte come azione politica — proprio qui, dove la politica ha abdicato ed è quasi tutto commissariato. A Ca’ Dandolo il Padiglione dell’Iraq espone acquerelli contro l’Isis e disegni realizzati da rifugiati; il padiglione dell’Armenia all’Isola di San Lazzaro una memoria sul genocidio perpetrato dai Turchi proprio un secolo fa; l’Azerbaijan punta sugli artisti che si opposero «al repressivo regime sovietico» e pure nel padiglione dell’Albania, Armando Lulaj ironizza nei suoi video sugli occupanti sovietici che colpirono una balena credendola un sottomarino. Sì perché il socialismo reale non fu poi quell’esperienza di liberazione dal capitalismo che Marx si aspettava; e così nacque un’arte come contropotere del contropotere. E oggi finiscono tutte in quel «Parlamento delle forme» che è la Biennale di Venezia.
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