Abu Mazen Nella casa natale dove giocava con l’amico ebreo
di Gad Lerner Repubblica 26.3.15
ZFAT
(ALTA GALILEA)NEL giorno del suo ottantesimo compleanno forse
interesserà sapere a Mahmud Abbas, detto Abu Mazen, presidente
dell’Autorità Nazionale Palestinese, residente nel palazzo della
Muqata’a a Ramallah, che la casa di Zfat dov’è nato e da cui è fuggito
come profugo nel 1948, quando aveva 13 anni, è ritornata disponibile.
«Sì,
metto in vendita la casa che fu di Abu Mazen perché io e mia moglie
siamo pure noi ottantenni, vecchi e malati. Ci siamo trasferiti da mio
figlio. Lei quanto offre?».
Chi mi propone la trattativa è Avraham
Pinko, immigrato dalla Romania con la signora Malka nel capoluogo
mistico dell’alta Galilea pochi anni dopo che la famiglia Abbas aveva
trovato ricovero di là dal confine, in Siria. Pinko ci tiene a precisare
che ha tutti i documenti in regola: la casa è sua perché l’ha
riscattata dal Fondo Immobiliare Nazionale incaricato di gestire le
proprietà arabe rimaste disabitate dopo la guerra d’Indipendenza. Nel
caso di Zfat, si trattò di ridistribuire fra gli immigrati e i
sopravvissuti della Shoah i nove decimi delle abitazioni. Nel 1948
vivevano a Zfat 1200 ebrei e 11 mila arabi. Nel corso di una sola
tragica notte piovosa, fra il 10 e l’11 maggio, la popolazione
palestinese si radunò in un wadi e lasciò completamente deserta la
città.
La palazzina che fu degli Abbas, con ciuffi di lavanda che
gettano dalla pietra chiara e un albero di melograno in mezzo al patio
sopraelevato, si trova al numero 100 di Jerusalem Street, in pieno
centro storico. Resta la strada più animata di Zfat, piena di negozi con
insegne ebraiche che vendono abbigliamento, smartphone, falafel.
Accanto, la mutua Rosenberg. Ma appena più in basso svetta ancora un
minareto solitario, senza più moschea.
Mi trovavo anch’io a Zfat da
alcune settimane per studiare il fenomeno del messianismo ebraico che, a
partire dal Sedicesimo secolo, ha visto riunirsi fra i cunicoli delle
antiche sinagoghe i più venerati maestri della Kabbalah, da Yitzhak
Luria detto l’Ari (“il Leone”) a Yosef Caro, da Chaim Vital a Moshé
Cordovero. Ignoravo naturalmente di aver preso alloggio a pochi passi
dalla casa natale del leader palestinese, come lo ignorano i chassidim
nerovestiti che le formicolano intorno, i mistici yemeniti col turbante e
la jiba di foggia orientale, i ragazzi all’apparenza hippie non fosse
per quei lunghi cernecchi intrecciati che gli pendono sulle spalle.
Quando
fotografo la casa, un automobilista si ferma a chiedere spiegazioni, e
subito protesta: «Ti sembra il caso di accendere ancor di più quel tipo?
Bada bene: era la casa di Abu Mazen. Non scrivere che è casa sua».
Non
c’è pericolo. Lo stesso presidente dell’Anp che, a quanto pare, fece
una visita in incognito a Zfat nel 1994, ha più volte ribadito la sua
rinuncia ad accampare diritti sul suo luogo natale. Vuole costruire uno
Stato palestinese accanto a Israele, non al suo interno. Nel 2014 ha
inviato un messaggio agli israeliani il giorno della Shoah riconoscendo
che lo sterminio degli ebrei è stato il crimine più efferato del secolo
scorso (anche per rettificare certe affermazioni al limite del
negazionismo scritte nella sua tesi di laurea a Mosca).
Vado in cerca
di qualcuno che abbia fatto in tempo a conoscere Mahmud Abbas
nell’ultimo tratto della secolare convivenza fra arabi ed ebrei a Zfat.
La città, com’è inevitabile, è costellata di lapidi e monumenti di una
memoria tutta a senso unico. All’ingresso del quartiere delle sinagoghe,
sovrastante il cimitero in cui tuttora sono venerati i maestri
cabalisti, hanno lasciato così com’era, perforato dalle pallottole e dai
colpi di mortaio, l’edificio in cui resistettero asserragliati i
combattenti del Palmach. Da lì cominciava l’antico insediamento arabo,
con le sue moschee e le palazzine dagli archi orientali. Oggi viene
chiamato Quartiere degli Artisti, sede di atelier e congregazioni
religiose. Al museo HaMeiri finalmente mi indirizzano da un anziano
membro della omonima famiglia persiana immigrata a piedi da Shiraz sette
generazioni orsono.
Si chiama Gabi Hameiri, i suoi occhi luccicano
ricordando l’amicizia fra suo padre Schlomo e Mohammed Abbas, il padre
del presidente palestinese: «Erano grossisti di generi alimentari. Gli
Abbas avevano anche della terra e un po’ di vacche. Diventarono soci,
fra loro bastava guardarsi negli occhi e stringersi la mano. Per anni
hanno gestito insieme un caseificio in cui si producevano i migliori
formaggi di Zfat. Mai uno screzio, fra l’arabo e l’ebreo, nonostante che
dal 1929, e poi di nuovo nel 1936, la situazione fosse precipitata. Vi
furono pogrom nel quartiere ebraico, omicidi barbari come quelli del
Daesh».
Sarà Gabi Hameiri a guidarmi verso la casa di Abu Mazen,
proprio come fece con lui, tenendolo per mano, suo padre nel 1947, prima
che tutto precipitasse: «Dovevano verificare insieme la contabilità, e
io gli chiesi di accompagnarlo. Mamma non voleva perché la tensione era
già alta. Abitavamo a pochi metri dalla sinagoga dell’Ari. In una
cantina nascondevamo anche noi delle armi. Il mio fratello più grande,
Naim, era stato arrestato dagli inglesi perché militava
nell’organizzazione sionista clandestina Betar. Lo stesso ho fatto il
mio capriccio e sono riuscito a convincere mio padre a portarmi con sé
nel quartiere arabo».
Per la strada il piccolo Gabi era colpito dalla
deferenza con cui i palestinesi salutavano il grossista ebreo Schlomo
Hameiri, chiamandolo per onorarlo “Abu Naim”, cioè “padre di Naim”
(proprio come Mahmud Abbas vuole essere chiamato Abu Mazen, in ricordo
del defunto primogenito Mazen).
«Arrivati in Jerusalem street, ci
togliamo le scarpe e veniamo fatti accomodare nella sala degli ospiti,
contornata di giacigli, alle pareti foto incorniciate d’oro e versetti
del Corano. Ricordo la mia gioia per i baklawa e le bevande squisite
dispensate agli ospiti. Per curiosità di vedere gli ebrei in casa loro,
scesero anche i figli del signor Abbas. Proprio così, ho giocato con
Mahmud. In una palazzina che ricordo non sfarzosa ma rivelatrice di un
solido benessere».
Fu, quella, la prima e l’ultima volta di Gabi in casa Abbas. E il perché è presto detto.
Mohammed
Abbas, il palestinese: «Come ti vanno le cose, caro Abu Naim?». Schlomo
Hameiri, l’ebreo: «Non così bene. Mio figlio è stato arrestato dagli
inglesi ».
«Arrestato? Ma allora è un terrorista! ». «Non è un
terrorista. Vuole solo che non si ripeta mai più quel che ci avete fatto
nel ’29 e nel ‘36».
Seguirono minuti di silenzio da tagliare con il
coltello. «Poiché i conti economici erano stati saldati, mio padre mi
prese per mano, disse ‘ alekum salam’ e ce ne andammo pieni di
spavento».
Era il 1947, l’anno della frattura definitiva. Il 16
aprile 1948 il comando britannico sollecitò Rabbi Moshé Podhorzer, capo
della comunità ebraica di Zfat, a evacuare per lo meno le donne e i
bambini, essendo soverchiante la forza di quattro eserciti arabi
concentrati nella difesa della città. Ma il quartier generale
dell’Haganà decise al contrario che bisognava restare, e non ci furono
defezioni.
Nei combattimenti successivi il Palmach coadiuvato da
azioni clandestine dell’Irgun espugnò la Cittadella di Zfat e circondò i
quartieri arabi. Un monumento ricorda i 42 soldati ebrei caduti in
quella battaglia. Molte case arabe furono saccheggiate (c’è chi dice dai
militari siriani, libanesi, iracheni e giordani in fuga; chi dai
combattenti sionisti).
Quel giorno le donne della famiglia Abbas,
insieme al tredicenne Mahmud, erano già state fatte allontanare, mentre
gli uomini si fermarono a combattere. Invano. L’evacuazione totale della
Zfat araba si completò in poche ore, prima dell’alba dell’11 maggio. Il
14 maggio 1948 David Ben Gurion proclamava a Tel Aviv la nascita dello
Stato d’Israele.
Chiedo a Gabi Hameiri se se la sente di inviare a
mezzo stampa auguri di buon compleanno al suo coetaneo Mahmud Abbas,
nato come lui a Zfat il 26 marzo 1935. Ci pensa un po’, deglutisce,
esita: «Per potergli fare gli auguri, io ebreo che ho giocato con lui,
ospite in casa sua, ma ne sono uscito pieno di paura, ho bisogno che
prima Abu Mazen dica al suo popolo la verità». Quale verità? «Da 120
anni versiamo il sangue dei nostri due popoli. Basta. Abu Mazen, dì alla
tua gente che questa terra non è estranea agli ebrei, che lo stesso
Maometto è arrivato dopo, i nostri diritti non possono essere negati.
Dopo che lo avrai detto, sarò felice di augurarti mazal tov per i tuoi
ottant’anni, e invitarti a rivedere la casa della tua lontana infanzia».
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