sabato 14 marzo 2015

Continua la ridicola guerra di Galli della Loggia contro l'Islam


Cosa sarebbe accaduto se qualcuno avesse usato questo linguaggio parlando di un'altra religione? [SGA].

La parola Islam un po’ rimossa Le scorciatoie della pavidità 
Venerdì 13 Marzo, 2015 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
di Ernesto Galli della Loggia
Chiunque provasse a sintetizzare in cento parole l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione , troverebbe molto complicato evitare i termini Islam, islamico o musulmano. L’impresa, per quanto ardua, non è però impossibile: a riuscirci sono stati i redattori degli editori francese e italiano del libro, Flammarion e Bompiani, nei testi rispettivamente della quarta e del risvolto di copertina. Quella che inizia con la paura di chiamare le cose con il loro nome, per timore di dispiacere a chi è meglio non dispiacere, è però una deriva che porta alla viltà intellettuale.
S fido qualunque lettore di Sottomissione , l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, al quale venisse chiesto di illustrare il contenuto del libro in cento parole, a farlo senza mai nominare i termini Islam, islamico o musulmano. Sembra un’impresa impossibile dal momento che, come si sa, il cuore del romanzo sta precisamente nella vittoria elettorale in Francia di una coalizione costituita dal Partito socialista e da una Fraternità musulmana, nella quale quest’ultima assume però rapidamente la leadership, finendo per instaurare un regime islamico «dolce» al quale anche il protagonista, un incerto e abulico docente universitario, non troverà di meglio che, per l’ appunto, sottomettersi. 
E invece l’impresa sembra impossibile, ma non lo è. Ci sono riusciti, infatti, non so se all’insaputa gli uni degli altri (ma penso di no: gli italiani sembrano proprio essersi accodati), sia i redattori di Flammarion, la casa editrice che ha pubblicato l’originale francese del libro, sia quelli di Bompiani, cui si deve l’edizione italiana, quando hanno scritto il testo rispettivamente della quarta di copertina i primi, e del risvolto di copertina i secondi. 
Sono due piccoli capolavori della viltà intellettuale europea dei nostri tempi. Quella che oggi come sempre comincia con la paura di chiamare le cose con il loro nome per la paura di dispiacere a chi è meglio non dispiacere. Ecco dunque, allora, i redattori di Flammarion descrivere la Fraternità musulmana e la sua conquista di fatto del potere come delle non meglio precisate «forze all’opera nel Paese (che) hanno corroso il sistema politico fino a provocarne il crollo» (in Francia? E chi potranno essere mai queste forze, uno si domanda: gli epigoni dell’Oas, il gruppo terroristico francese nemico mortale di De Gaulle? Una setta in sonno di seguaci dell’ex segretario del Partito comunista francese Georges Marchais, buonanima? Chi?). Si viene solo a sapere che comincia in questo modo una specie di «brutto sogno» (in effetti…), che ci porta «su un terreno ambiguo e scivoloso» sul cui sfondo si staglia «la nostra civiltà senescente» (evidentemente da Flammarion sono convinti che ormai tutto l’Occidente senta e pensi come loro). La redazione di Bompiani si è limitata sostanzialmente a tradurre e ad allungare la minestrina: «le forze all’opera» sono diventate «nuove forze», il «brutto sogno» un «incubo», e tanto per non aver fastidi con nessuno è stato cancellato la «nostra civiltà senescente». 
Tutto questo accadeva prima degli attentati di Parigi, e si può immaginare che dietro ci fosse soprattutto il timore di attirarsi l’accusa infamante di islamofobia. Figuriamoci che cosa sarebbero quei testi adesso, che alla paura del politicamente scorretto si è aggiunta quella di una sventagliata di mitra. Forse oggi a Houellebecq verrebbe direttamente consigliato di cambiare titolo, e sostituire Sottomissione con un più esplicito e perentorio: «Sottomettetevi!» 
Ernesto Galli della Loggia


La croce simbolo di libertà Noi, assediati e troppo timidi
di Ernesto Galli della Loggia Corriere 20.3.15
Destabilizzare tutti gli assetti politico-statali del mondo arabo; impadronirsi di quell’immenso spazio geopolitico instaurandovi un potere ispirato all’islamismo radicale; da lì muovere a uno scontro con l’Occidente, preliminarmente messo sulla difensiva e impaurito dall’azione di nuclei terroristici reclutati nelle comunità musulmane al suo interno. Davvero si corre troppo con la fantasia attribuendo un disegno del genere alla galassia della jihad che mercoledì a Tunisi ha compiuto la sua ennesima impresa sanguinaria? Davvero significa dare corpo a dei fantasmi? Bisogna vedere: chi l’avrebbe detto nel gennaio del 1933 che quel tizio esagitato appena nominato cancelliere della Germania avrebbe effettivamente cercato di realizzare i suoi fantastici propositi di sterminio, mettendo a ferro e a fuoco il mondo? Eppure allo scoppio della Seconda Guerra mondiale mancavano neppure sette anni.
Il messaggio che viene da Tunisi è chiaro: per il nostro Continente si avvicina una prova decisiva. Siria, Libia, Tunisia, cioè la sponda meridionale del Mediterraneo, cioè il confine marittimo dell’Unione. Come non accorgersi che prima che agli Stati Uniti è a lei, a noi, che è rivolta la sfida islamista? Dunque le imprevedibili accelerazioni della storia impongono oggi all’Europa ciò a cui essa si è finora sempre rifiutata: di essere un soggetto politico vero. Vale a dire con una vera politica estera; con un vero esercito. E con veri capi politici: gli unici che nei momenti cruciali possono fare scelte coraggiose, costruendo altresì intorno ad esse il consenso necessario. Non c’è tempo da perdere. Per far fronte alla feroce determinazione dell’islamismo radicale, alla sua capacità di penetrazione, la politica deve innanzitutto prepararsi all’impiego della forza. La si chiami come si vuole per non turbare i nostri pudori lessicali — operazione di polizia internazionale, missione di pace ( sic !) o che altro — l’importante è capirsi sulla sostanza. Così come è necessario che l’Europa si convinca — e convinca gli Stati Uniti — a dire con chiarezza all’Arabia Saudita, al Qatar e a qualche altra monarchia del Golfo che il loro doppio gioco non può continuare a lungo: che esse non possono con una mano fare lauti affari con l’Occidente, e con l’altra finanziare chi uccide a sangue freddo i suoi cittadini. Un Islam antijihadista peraltro esiste: noi dobbiamo sia aiutarlo con più determinazione a non divenire ostaggio del terrore (è il caso della Tunisia), sia abituarci a chiederne l’aiuto prezioso che può offrirci.
Non si tratta certo di esportare la democrazia, si tratta semplicemente di difenderla. E con essa la nostra libertà. Ricordandoci però che la battaglia per la libertà è sempre, per forza, anche una battaglia culturale: sui valori e sull’identità. La libertà non nasce dal nulla, è il frutto di una storia: e non di tutte.
I carnefici islamisti, autoproclamatisi per l’occasione «leoni del monoteismo», si sono vantati ieri, «postando» online la foto di un nostro connazionale da loro ucciso, di aver «schiacciato» un «crociato italiano». Sono parole a loro modo cariche di significato culturale alle quali non possiamo evitare di dare una risposta dello stesso tenore, foss’anche solamente dentro noi stessi.
Naturalmente noi non siamo crociati, né ci sogniamo di esserlo. Ma se per i nostri nemici lo siamo per il solo fatto di abitare questa parte del mondo, di aver dato vita a questa nostra civiltà, ebbene, allora dovremmo forse avere il coraggio di ammettere che quel termine comunque c’interpella. Che esso evoca una Croce da cui ci è impossibile dissociarci dal momento che essa è consustanziale alla nostra storia, a ciò che siamo e a ciò in cui crediamo. Così come alla fine è grazie ad essa che noi occidentali siamo «spiritualmente semiti», e che quindi, pur attraverso le circostanze le più drammatiche, resta indistruttibile il nostro legame con l’ebraismo.
Ormai perlopiù religiosamente incerti, in parte significativa non credenti, è davvero difficile ed anzi francamente ridicolo definirci «crociati». Ma se ci si vuole ammazzare per colpa di una Croce, allora non serve far finta di niente. Allora è bene che i nostri nemici sappiano che in questo modo quella Croce diviene un semplice simbolo di libertà. Anche della loro, sebbene ad essi ciò non possa che risultare incomprensibile. 

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