lunedì 30 marzo 2015
Il ruolo identitario e politico-sociale della religione nella storia e oggi
Risvolto
Come le società umane si sono trasformate da piccoli gruppi di
cacciatori-raccoglitori strettamente imparentati in grandi strutture
moderne basate sulla cooperazione tra anonimi? In che modo le religioni
dei “Grandi Dei” – le massime fedi monoteiste e politeiste – si sono
diffuse conquistando la maggior parte delle menti nel mondo? Secondo
Norenzayan, quando gli esseri umani concepirono per la prima volta
l’esistenza di entità sovrannaturali innescarono cambiamenti che
finirono per dare origine alle grandi società con Grandi Dei – divinità
potenti, onniscienti e intente a controllare il comportamento morale
delle persone. Ma in che modo? “Chi è sorvegliato si comporta bene”,
pertanto le persone agiscono correttamente quando sospettano che i
Grandi Dei stiano vigilando, anche se nessun altro è presente. Eppure,
questa fede sincera nei Grandi Dei ha prodotto una nuova fonte di
conflitto tra gruppi in competizione. In alcuni luoghi del mondo, come
l’Europa settentrionale, le istituzioni laiche hanno determinato un
declino della religiosità, usurpando la capacità della religione di
incentivare la costruzione di comunità. Grandi Dei ci aiuta anche a comprendere un’altra transizione sociale più recente: l’emergenza delle società cooperative di non credenti.
Perché Dio è tornato sulla scena
Dopo anni di assenza, la teologia politica è al centro di un dibattito internazionale iniziato in America La religione diventa un antidoto al dominio dell’economia L’identificazione tra modernità e laicizzazione non è scontata
di Roberto Esposito Repubblica 30.3.15
DOPO una lunga parentesi di relativa autonomia, politica e religione
tornano ad incrociare le proprie traiettorie con effetti inquietanti, di
cui le tragiche vicende di Parigi e Tunisi costituiscono gli ultimi
episodi. La condanna più intransigente degli attentatori e la
rivendicazione della libertà di espressione in tutte le sue forme è la
sola risposta adeguata. Ma ciò è ben lontano dall’esaurire una questione
più di fondo, che riguarda il nodo che da qualche tempo si va
stringendo tra teologia e politica. La tradizionale tesi della
progressiva fine delle religioni nel mondo moderno, portata avanti dai
sociologi della secolarizzazione, si scontra con dati di fatto sempre
più evidenti. Come già aveva argomentato a suo tempo Gilles Kepel in La
rivincita di Dio ( Rizzoli), l’identificazione tra modernità e
laicizzazione è tutt’altro che scontata.
A quella che era stata definita “eclissi del sacro”, è parso opporsi il
suo “risveglio”. Il primo segno dell’inversione di tendenza è stata la
rivoluzione khomeinista in Iran, seguita da una ripresa di
fondamentalismo religioso in forme molto diverse, ma convergenti nel
riaprire uno scenario teologico-politico che sembrava chiuso per sempre.
Senza voler assimilare fenomeni ben differenti, l’integralismo della
destra conservatrice americana, il cattolicesimo anti-conciliare, la
linea più ortodossa del sionismo ebraico già rompevano in più direzioni
lo schema della distinzione liberale tra sfera pubblica della politica e
sfera privata della religione. L’esplosione dell’estremismo islamico ha
conferito un elemento di assoluta drammatizzazione in questo quadro, ma
non va isolato da esso.
Non è un caso se la questione della teologia politica è tornata da
qualche anno al centro del dibattito internazionale. Se in America libri
come The Faith of the Faithless di Simon Critchley (Verso), Crediting
God, a cura di Miguel Vatter (Fordham) o The Power of Religion in the
Public Sphere , a cura di E. Mendieta e J. Vanantewepern, con saggi di
Butler, Habermas, Taylor (Columbia), stanno monopolizzando la
discussione, anche in Europa il rapporto tra teologia e politica è
divenuto uno dei temi dominanti. Da Habermas a Taylor, da Zizek a
Badiou, da Cacciari a Tronti, la domanda sul ruolo della teologia nella
società attuale sta monopolizzando l’attenzione. La religione
contribuisce a generare o a moderare la violenza? È fattore di coesione
sociale o di conflitto? La risposta è tutt’altro che scontata. Come
risulta dalla Encyclopedia of Wars di Charles Phillips e Alan Axelrod,
che prende in esame 1800 conflitti nella storia, meno del 10 per cento
di essi è stato causato da motivi religiosi. Se le Crociate, le guerre
tra cattolici e protestanti, le prime conquiste islamiche e ovviamente
le attuali stragi jihadiste attestano una palese implicazione della
religione nella violenza, il numero di morti ascrivibile a conflitti di
tipo laico, come le due guerre mondiali, resta di gran lunga superiore.
Non si dimentichi che il primo genocidio moderno, quello degli armeni, è
stato compiuto dai Giovani Turchi filo-occidentali e secolarizzati,
mentre devoti musulmani cercavano di salvare i superstiti.
Una risposta di carattere dialettico a tale domanda è ora avanzata dallo
psicologo sociale Ara Norenzayan in un saggio importante, intitolato
Grandi Dei. Come la religione ha trasformato la nostra vita di gruppo ,
tradotto da Cortina, con un’introduzione di Telmo Pievani. La sua tesi è
che inizialmente le grandi religioni abbiano favorito la socialità
attraverso il timore suscitato dalla sorveglianza di un Grande Occhio
divino sul comportamento degli uomini. Innestandosi su tendenze innate
volte all’autoconservazione, le religioni inizialmente hanno giocato una
funzione di aggregazione sociale. Successivamente, però, esse si sono
differenziate tra loro entrando in competizione. In questa lotta per la
sopravvivenza, non dissimile da quella darwiniana tra le diverse specie,
hanno finito per prevalere le religioni che facevano capo a divinità
onnipotenti ed interventiste. Da qui un rovesciamento della originaria
funzione socializzante in una tendenza conflittuale, attivata
soprattutto dai monoteismi, oggettivamente concorrenti nella
individuazione di un unico Dio esclusivo di ogni altro.
Da quel momento gli effetti storici delle religioni risultano diversi ed
ambivalenti in base a fattori di carattere storico e contestuale sui
quali non è possibile pronunciare valutazioni univoche. Dal seno della
religione possono nascere il Dalai Lama e Osama Bin Laden. Certo le
società moderne più avanzate, come quelle nordeuropee, sono capaci di
creare meccanismi di cooperazione senza l’aiuto del Grande Occhio
divino. E dunque, problema risolto? Da quanto accade nel mondo si
direbbe di no. Per quanto riguarda l’area islamica la ripresa delle
tendenze più radicali è sotto gli occhi di tutti. Ma neanche nelle
società occidentali tale distinzione, da tutti ammessa in linea di
principio, sembra resistere ad una serie di dinamiche correlate. Da un
lato la globalizzazione ha rotto i confini tra civiltà diverse,
immettendo quantità crescenti di culture difficilmente integrabili
all’interno dei Paesi occidentali. Dall’altro il regime biopolitico in
cui da tempo viviamo, in particolare con lo sviluppo delle
biotecnologie, rompe le paratie tra pubblico e privato su questioni che
riguardano non solo l’origine e la fine della vita, ma la salute, la
sicurezza, l’ecologia – tutte contemporaneamente pubbliche e private,
individuali e collettive. Da questo lato sembra profilarsi una nuova
alleanza tra politica e teologia. Non tanto, perché nella crisi di
legittimazione dell’autorità, il nucleo di senso custodito dalle
religioni può svolgere una funzione di supplenza. Ma perché in un mondo
orientato sempre più a un dominio assoluto dell’economia, la teologia
sembra rappresentare, per masse sempre più grandi di uomini, l’unica
alternativa, l’unica potenza capace di resistere, alla logica anonima
del mercato globale. Nel momento in cui si afferma una nuova forma di
“teologia economica” del debito – si veda, a questo proposito, il
recente volume collettaneo curato da Thomas Macho col titolo Bonds
(Fink) – la filosofia contemporanea guarda ad un nuova forma, non più di
teologia politica, ma di politica della teologia.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento