venerdì 6 marzo 2015

Invidia aristocratico-liberale e invidia plebeo-socialista

L’invidia positiva che fa muovere il mondo
Condannata dai m oralisti quale vizio esecrabile, m erita di essere rivalutata com e hanno dim ostrato Kant e il pensiero liberale. Perché è la virtù dei leader e distingue l’uom o intraprendente dal gregge
6 mar 2015  Libero Di CORRADO OCONE

C’e invidia e invidia, questo è il punto. Anche una «passione triste», un sentimento condannato da moralisti e senso comune, può avere in determinate circostanze e a certe condizioni un esito utile, anzi necessario, per la società e per la crescita personale. Procediamo con ordine. Etimologicamente «invidia» significa guardare contro, di traverso. E la stessa iconografia classica mostra, in genere, l’uomo invidioso con l’occhio storto e non sincero e il viso corroso dalla bile. L’invidia è perciò un sentimento sociale, intersoggettivo, che concerne il nostro vivere in relazione con gli altri. Non a caso Heidegger, in Essere e tempo, definisce il rapporto fra gli umani come caratterizzato da «contrapposizione commisurante», cioè da un continuo giudicare se stessi in rapporto al prossimo. Siano essi da noi avvertiti come inferiori, in genere o per qualche aspetto, e quindi da dominare, o superiori, e quindi da emulare. E in effetti, l’invidia, di cui Heidegger non fa esplicita menzione, può essere sia quella dei capi nei confronti dei successi dei loro sottoposti, che lasciano intravedere, seppur in lontananza, una messa in discussione della loro leadership, o che comunque rappresentano per il loro ego una diminutio, sia, al contrario, quella dei secondi rispetto ai successi già acquisiti e al fascino che emana dal potere dei primi. (...). 
Nel secondo tipo di invidia, che chiamiamo ascensionale, può assumere un aspetto negativo o positivo a seconda che sia fatta propria da spiriti volgari o aristocratici. Nel primo caso, ci troviamo di fronte all’invidia sociale richiamata da Nietzsche e generatrice di rancore e risentimento. Essa è propria dei perdenti, degli sconfitti della storia o nella vita: di coloro che sono incapaci di raggiungere gli altri, per impossibilità oggettiva o perché presi da paralisi della volontà. Solo che, a un certo punto (Nietzsche pensa alle grandi forze ideali del suo secolo ma anche al cristianesimo pauperistico) costoro si sono coalizzati, fatti forza politica. E hanno per questa via cercato di imporre a tutti la loro morale da schiavi, la «morale del gregge». Se tu hai dieci e io cinque, voglio che anche tu scenda a cinque o ti strapperò il resto. Meglio che tutti siano uguali nella povertà piuttosto che ci sia abbondanza ma diseguaglianze sociali. Da qui l’egualitarismo, il conformismo, il livellamento, il democraticismo, il socialismo, tutti i movimenti della società moderna. È chiaro che, laddove non può realizzare i suoi scopi, l’invidia plebea comporta, sul piano personale, dissolvimento, macerazione, al limite autodistruzione: ecco lo sbraitare in tv dei Maurizio Landini e delle Susanna Camusso arringanti dai palchi, e di tutti gli adepti di un tipo di invidia puramente reattiva. 
Ma può l’uomo aristocratico convertire l’invidia in un valore, in un fattore positivo di crescita per sé e la società? In questo caso, occorre cambiare scenario. Puntare dritto sulla tradizione liberale. Sulle virtù positive dell’antagonismo e della competizione ha insistito soprattutto Kant, il quale ha parlato della «socievole insocievolezza» degli esseri umani: del loro tendere verso gli altri ma anche del loro volersene differenziare e distinguere. Una identità personale non può infatti darsi se non è riconosciuta ma, per esserlo, è necessario che ognuno tenda a essere diverso. In concreto, essendo l’uomo un essere egoistico e volto principalmente all’interesse personale, ognuno vuole raggiungere e superare gli altri in onore, gloria, ricchezze, realizzazioni. Ecco, perché li invidiamo. Kant non solo non condanna questo nostro egoismo, ma tesse un elogio di esso e dell’invidia. Si tratta di una disposizione instillata in noi dalla natura per farci vincere la pigrizia e procedere sulla via del progresso umano. (...). 
In questa lotta contro gli altri, l’uomo, senza accorgersene, mette a disposizione della società, e quindi di tutti, beni, conoscenze, tecniche. È senza dubbio un caso di eterogenesi dei fini, ma lo è con un’accentuazione di quell’aspetto utilitaristico che è alla base delle conquiste della nuova civiltà e che, pertanto, viene letto per la prima volta, in epoca illuministica, in senso positivo. In opposizione alla morale classica del sacrificio, della parsimonia e del buonismo solidaristico. Il riferimento principale è, in questo senso, La favola delle api di Bernard de Mandeville, che nel ’700 divenne un bestseller. Racconta, sotto forma di parodia, la conversione dei «vizi privati» (lusso, sperpero, invidia) in «pubbliche virtù». Quando poi nell’alveare ci sarà la rivoluzione dei probi e saranno adottate politiche virtuose, in men che non si dica l’antica prosperità scomparirà e i nemici lo conquisteranno. (...). 
Le idee di de Mandeville vennero poi elaborate dagli illuministi scozzesi (David Hume, Adam Ferguson, Adam Smith), in concomitanza con l’affermarsi della società capitalistica da una parte e della scienza che ne studiava le dinamiche, l’economia politica, dall’altra. Troveranno poi ulteriori e più raffinati sviluppi, fra ’800 e ’900, nelle teorie della scuola austriaca, soprattutto nel pensiero di Friedrich von Hayek. Il quale, fra l’altro, ci offre un’analisi di un altro aspetto dell’invidia, quello che distingue il leader da chi non lo è. Sergio Marchionne, o per esempio un Valentino Rossi nella sua vincente esuberanza, sono i tipi umani che meglio rappresentano questa invidia positiva e realizzatrice di opere, questo stile da vero leader. Von Hayek dice che, percorrendo per la prima volta un tratto in campagna, il leader crea un solco che, ulteriormente praticato da chi lo segue per invidia imitativa, «finisce per creare quei sentieri che alla fine creano un ordine spontaneo». Entro cui si svolge la vita comune (norme, consuetudini, regole). Persino l’invidia plebea ha quindi un compito importantissimo nelle vie del reale. (...). 
È comunque significativo che una concezione moralistica e adialettica dell’invidia abbia ripreso auge negli ultimi tempi in Italia, in primo luogo fra gli studiosi della cosiddetta «etica applicata». Elena Pulcini in un documentato volume dedicato al tema ( Invidia, Il Mulino, 2011), relega, secondo il sentire comune, l’invidia quasi a un livello sottoumano, proponendo di contrastarla coltivando altre e più umane passioni (non accorgendosi che «un mondo senza invidia» semplicemente non sarebbe). Le passioni che Pulcini ha in mente sono quelle «che incrinino alla radice quella logica individualistica e utilitaristica dalla quale la stessa invidia trae il suo principale alimento». I nemici dell'invidia sono oggi insomma i nemici dell’individuo: tutti coloro che, incapaci di volare da soli, sognano comunità organiche e improntate alla sobrietà. Da qui la loro irrazionale avversione per il profitto, il capitalismo, la modernità. Nonché il loro amore per il pensiero precotto, ove ogni cosa è in ordine, politically correct. Chiaramente, in un siffatto mondo ovattato spazio non c'è per quella passione da sempre «umana, troppo umana»...

1 commento:

Anonimo ha detto...

ripugnante