domenica 1 marzo 2015

La mostra sul collaborazionismo francese strumentalizzata in chiave islamofoba e imperiale


Portrait de Adolf Hitler, Portrait du maréchal Pétain, affiche de Draeger © Archives Nationales/Atelier photo des AN - Design © Saluces.com La Collaboration (1940-1945) à travers les archives

Les Archives nationales à Paris consacre une grande exposition à la Collaboration, du 26 novembre 2014 au 5 avril 2015. A travers 300 documents, pour la plupart inédits, elle présente un panorama de cet épisode majeur dans l’histoire et la mémoire de la France.
Les acteurs en présence. Organisée dans le cadre des commémorations du 70e anniversaire de la libération de la France et de la victoire contre le nazisme, l’exposition présentée par les Archives nationales à l’Hôtel Soubise apporte un éclairage sur le rôle des trois acteurs au cœur de la Collaboration : les autorités allemandes, le gouvernement de Vichy et les partis collaborationnistes parisiens.
A l’automne 1940, le gouvernement de Vichy choisit d’entrer dans la Collaboration, symbolisée par une poignée de main entre Pétain et Hitler à Montoire-sur-le-Loir. Parallèlement au gouvernement de Vichy, des partis collaborationnistes extrémistes se développent à Paris, comme le Parti populaire français de Jacques Doriot et le Rassemblement national populaire de Marcel Déat. Les autorités allemandes, représentés sur le sol français par le chef du commandement militaire Otto von Stülpnagel et l’ambassadeur Otto Abetz, ont un poids de plus en plus important. Ces trois acteurs luttent contre des ennemis communs : le bolchévisme, les Juifs et les Francs-maçons.
Pour Denis Peschanski, commissaire de l’exposition, « il y a trois moments dans la Collaboration : l’initiative française entre 1940 et 1942, la gestion des contraintes de 1942 à 1943, et à partir de 1944, une radicalisation où la France met en œuvre la politique allemande et participe aux rafles. »
L’exposition restitue l’atmosphère de ces « années noires » à travers des photos, en particulier, celle inédite de la rencontre entre Pétain et Hitler, des documents administratifs comme des textes de lois, le fichier de recensement des juifs de 1940 et des lettres, ainsi qu’une reconstitution des bureaux de Pétain et de Doriot

Les formes de la Collaboration. L’exposition explore les différentes formes qu’a pu prendre la Collaboration : idéologique et politique, mais aussi policière, culturelle, économique et militaire.
 La collaboration des polices françaises et allemandes se met en place en 1942. En 1944, la situation se radicalise et la police française passe sous les ordres de l’occupant. Cette collaboration passe par les rafles de juifs et la répression contre les résistants. Elle est illustrée en particulier par des photos et témoignages sur le transfert des juifs dans les camps de concentration, et des documents attestant de la filature du groupe résistant Manouchian par la police française.
 La collaboration se manifeste aussi dans les domaines culturels et des médias. L’exposition présente en particulier une vitrine reconstituée de la librairie collaborationniste Rive Gauche, le best-seller emblématique Les décombres de Lucien Rebatet et un registre de consignes de censure données par Vichy aux journaux.
La collaboration économique est abordée à travers deux cas emblématiques : l’entreprise Konzern Gnome et Rhône, qui fabriquait des moteurs d’avion pour les allemands et l’entrepreneur Joinovici. La collaboration militaire est ensuite abordée avec en particulier la création de la Milice française.
L’exposition se conclut sur un film où les deux commissaires de l’exposition : Denis Peschanski et Thomas Fontaine questionnent l’ampleur de la Collaboration au sein de la société française. Une exposition riche en documents inédits qui incite à la réflexion.


Lettera da Parigi Odio antisemita in mostra

«La Collaboration 1940-1945» espone tutto il campionario della caccia all’ebreo: foto, carte di polizia, lettere anonime Dopo gli attacchi terroristici, la si guarda con occhi diversi

di Sergio Luzzatto Il Sole Domenica 1.3.15

La prima volta, in dicembre, c’ero andato da storico. Sfavillante delle luci di una vigilia natalizia, Parigi sembrava invitare ad altro sia i parigini stessi, eternamente frettolosi, sia i turisti più o meno sfaccendati. Shopping a parte, anche lì, nel Marais, sembrava esserci di meglio da fare – per chi non fa lo storico di mestiere – che infilarsi nel cortile delle vecchie Archives Nationales. A cominciare da un Musée Picasso finalmente riaperto. Mentre salivo lo scalone dell’Hôtel de Soubise per visitare la mostra su «La Collaboration 1940-1945», avevo la sensazione di non fare altro che qualcosa di professionale, quasi di tecnico. La solita mostra documentaria, la solita polvere del tempo.
Mi ero soffermato su certe cose, avevo sorvolato su altre. Mi avevano particolarmente colpito le pagine spiegazzate degli elenchi stilati con zelo, nell’ottobre 1940, dai funzionari della Préfecture de Police di Parigi: il censimento sistematico – strada per strada, casa per casa, abitante per abitante – di tutti i «juifs» residenti a quella data nella capitale e dintorni. In pratica, il lavoro preparatorio per la caccia all’ebreo che si sarebbe aperta quindici mesi più tardi. Sgualcite dall’uso e ingiallite dal tempo, le Pages Blanches di uno sterminio ordinato dai tedeschi, ma organizzato dai francesi.
La mostra (che resterà aperta fino al 5 aprile) espone i materiali più vari, dalle carte di polizia ai manifesti di propaganda, dalle fotografie ufficiali ai manoscritti letterari. Il più notevole di questi ultimi consiste in due pagine di Céline, la versione autografa del pamphlet Les beaux draps. Io mi ero chinato su quelle due pagine, nella vetrina, con il consueto disagio di chi scopre gli orrori di stampa dell’antisemita più talentuoso d’Europa: con la nausea dell’ammiratore disgustato. Né la nausea era scomparsa quando mi ero chinato sulla vetrina accanto: le amatissime copertine bianche di Gallimard, il venerato logo in corsivo minuscolo, nrf, ma in alto, come autore di quel libro, il nome di Drieu La Rochelle. L’editore opportunista e il collaboratore collaborazionista.
Oggi – due mesi e mezzo dopo – all’Hôtel de Soubise voglio ritornare non più da storico, ma da cittadino (italiano o francese, poco importa: diciamo da cittadino europeo). Voglio visitare la mostra sulla «Collaboration» con gli occhi di chi ha visto, nel frattempo, cose che non avrebbe immaginato di vedere nel suo Paese d’adozione, la proverbiale Francia della Rivoluzione e dei Diritti dell’Uomo. Non soltanto le immagini di due incappucciati nerovestiti che risalgono in macchina, urlando, un momento dopo avere vendicato Maometto e un momento prima di freddare, per strada, un poliziotto di nome Ahmed. Né soltanto le immagini dei clienti di un supermercato kosher, uomini e donne con bambini in braccio che fuggono terrorizzati nel pomeriggio di un giorno da cani.
Pochi giorni fa ho visto altro ancora. Immagini meno drammatiche, e nondimeno inquietanti. Ho visto il video di un reporter israeliano che ha camminato dalla mattina alla sera, con una kippah in testa, per le strade del centro e della periferia di Parigi: nient’altro che camminato, dritto davanti a sé, senza far nulla per attirare l’attenzione. E che tuttavia ha raccolto, per reazione, una quantità di sguardi ostili, gesti aggressivi, commenti volgari. Indici puntati contro il «sale juif», lo sporco ebreo. Sputi addosso. «Questo qui è venuto per farsi fottere». Ho visto anche, nei giorni scorsi, le fotografie delle tombe profanate di un cimitero ebraico d’Alsazia. Una cittadina tranquilla, un paesaggio incantevole all’intorno, e nel campo israelitico decine e decine di sepolcri divelti, vandalizzati, distrutti. I responsabili? Quattro ragazzi del posto, incensurati, fra i quindici e i diciassette anni. Come a dire che potrebbero essere i compagni di scuola dei miei figli.
Sì, ritornando alle Archives Nationales, voglio guardare con occhi diversi la mostra parigina sulla «Collaboration». E voglio farlo pur sapendo che i tempi della storia non vanno mai confusi. Sapendo che l’anacronismo è anzi il peccato mortale dello storico, e che sarebbe improprio per tutti (storici o cittadini) assimilare questo nostro tempo agli anni Quaranta del Novecento. Ma oggi non mi interessa – al limite – la disumana eccezionalità di quei tempi di ferro e di sangue, 1940-1945, la Seconda guerra mondiale, l’Occupazione, la Soluzione finale. Oggi mi interessa l’umana banalità dei meccanismi di difesa e di offesa sociale. Mi interessano il sentimento di appartenenza, la diffidenza verso l’“altro”, la tentazione del capro espiatorio.
Fanno impressione, è chiaro, le fotografie più tragiche della mostra. La foto dei pullman in coda il 16 luglio 1942, quell’unica foto esistente della retata del Vél d’Hiv, 13.152 ebrei da deportare tutti in una volta. Le foto degli ebrei stranieri internati nei campi della Zona Sud e adesso pronti a partire, in fila indiana, per Drancy e poi per Auschwitz. Ma non sono meno impressionanti, a ben guardare, altri documenti esposti alle Archives Nationales. Certe lettere anonime, per esempio. Delazioni spicciole. Pedinate quello, controllate quell’altro, arrestate quell’altro ancora. Regolamenti di conti da vicini di casa (o da amanti delusi, o da concorrenti commerciali) bardati di patriottiche accuse contro gli ebrei o contro i massoni, contro i comunisti o contro gli stranieri.
Nella Francia del 2015 – dove il Front National prevede ragionevolmente di vincere le elezioni dipartimentali di fine marzo – quanto più colpisce della mostra sulla «Collaboration» è la forza sempreverde di una doppia retorica: la retorica una e bina dell’inclusione e dell’esclusione. Noi e loro. Ecco la famosa «Affiche rouge», il manifesto stampato nella Parigi tedesca del febbraio 1944 contro i combattenti partigiani della Main-d’Oeuvre Immigrée. Che cos’hanno in comune i dieci resistenti più ricercati della regione parigina (e infine catturati, e condannati a morte)? Sono tutti stranieri. Quattro ebrei polacchi, tre ebrei ungheresi, un «comunista italiano», uno «spagnolo rosso», il «capobanda armeno». Nessuno è francese, nessuno è dei nostri. Sono tutti alieni. Hanno combinato tutto fra loro.
Se una retorica dell’esclusione può apparire spesso così primaria da riuscire ingenua, una retorica dell’inclusione può risultare altrimenti sofisticata. Ecco, alla mostra, la foto di un elegante palazzo parigino della Rive droite e un cartellone che troneggia al quarto piano, davanti alle finestre d’angolo: «Vogliamo la Francia unita in un’Europa unita!». La Francia unita in un’Europa unita? Al pianterreno del palazzo, una gigantografia del maresciallo Pétain illustra di quale Francia e di quale Europa si tratti. Perché nel 1940 come nel 2015 le parole degli slogan europeisti suonano bene, ma non bastano a dire tutto. In fondo, sarebbe stata un’Europa unita anche quella della pax hitleriana.
Voglio tornare all’Hôtel de Soubise, ma non sono sicuro che rivedere la mostra servirà davvero a chiarirmi le idee. Da un lato, so di detestare l’appello che Benjamin Netanyahu lancia continuamente, da Israele, a tutti gli ebrei di Francia: venite qui, vi aspettiamo, è questa la vostra patria. Dall’altro lato, sento che non deve smettere di parlarci la storia della Terza Repubblica francese naufragata tra le acque di Vichy: una storia fatta – anche quella – di crisi economica, disoccupazione di massa, sgretolamento dei valori democratici, stigmatizzazione del diverso da sé, fascino dei leader populisti.
Né deve smettere di parlarci la storia (precedente, e meno nota) della «destra rivoluzionaria» in Francia: la cultura politica che iniettò all’Europa – oltre un secolo fa, e prima ancora di Benito Mussolini – il bacillo dell’ideologia fascista. Quella strana miscela di destra e di sinistra, di disciplina e di rivolta, di ruralismo e di operaismo, di frustrazione e di fierezza, di crociata e di laicità, che nella Francia di oggi viene quotidianamente impastata da una signora che tutti, ormai, chiamano familiarmente «Marine».

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