La Collaboration (1940-1945) à travers les archives
Les Archives nationales à Paris consacre une grande
exposition à la Collaboration, du 26 novembre 2014 au 5 avril 2015. A
travers 300 documents, pour la plupart inédits, elle présente un
panorama de cet épisode majeur dans l’histoire et la mémoire de la
France.
Les acteurs en présence. Organisée dans le cadre des
commémorations du 70e anniversaire de la libération de la France et de
la victoire contre le nazisme, l’exposition présentée par les Archives
nationales à l’Hôtel Soubise apporte un éclairage sur le rôle des trois
acteurs au cœur de la Collaboration : les autorités allemandes, le
gouvernement de Vichy et les partis collaborationnistes parisiens.
A l’automne 1940, le gouvernement de Vichy choisit d’entrer dans la
Collaboration, symbolisée par une poignée de main entre Pétain et Hitler
à Montoire-sur-le-Loir. Parallèlement au gouvernement de Vichy, des
partis collaborationnistes extrémistes se développent à Paris, comme le
Parti populaire français de Jacques Doriot et le Rassemblement national
populaire de Marcel Déat. Les autorités allemandes, représentés sur le
sol français par le chef du commandement militaire Otto von Stülpnagel
et l’ambassadeur Otto Abetz, ont un poids de plus en plus important. Ces
trois acteurs luttent contre des ennemis communs : le bolchévisme, les
Juifs et les Francs-maçons.
Pour Denis Peschanski, commissaire de l’exposition, « il y a trois
moments dans la Collaboration : l’initiative française entre 1940 et
1942, la gestion des contraintes de 1942 à 1943, et à partir de 1944,
une radicalisation où la France met en œuvre la politique allemande et
participe aux rafles. »
L’exposition restitue l’atmosphère de ces
« années noires » à travers des photos, en particulier, celle inédite de
la rencontre entre Pétain et Hitler, des documents administratifs comme
des textes de lois, le fichier de recensement des juifs de 1940 et des
lettres, ainsi qu’une reconstitution des bureaux de Pétain et de Doriot
Les formes de la Collaboration. L’exposition explore
les différentes formes qu’a pu prendre la Collaboration : idéologique et
politique, mais aussi policière, culturelle, économique et militaire.
La collaboration des polices françaises et allemandes se met en place
en 1942. En 1944, la situation se radicalise et la police française
passe sous les ordres de l’occupant. Cette collaboration passe par les
rafles de juifs et la répression contre les résistants. Elle est
illustrée en particulier par des photos et témoignages sur le transfert
des juifs dans les camps de concentration, et des documents attestant de
la filature du groupe résistant Manouchian par la police française.
La collaboration se manifeste aussi dans les domaines culturels et des
médias. L’exposition présente en particulier une vitrine reconstituée de
la librairie collaborationniste Rive Gauche, le best-seller emblématique Les décombres de Lucien Rebatet et un registre de consignes de censure données par Vichy aux journaux.
La collaboration économique est abordée à travers deux cas
emblématiques : l’entreprise Konzern Gnome et Rhône, qui fabriquait des
moteurs d’avion pour les allemands et l’entrepreneur Joinovici. La
collaboration militaire est ensuite abordée avec en particulier la
création de la Milice française.
L’exposition se conclut sur un film
où les deux commissaires de l’exposition : Denis Peschanski et Thomas
Fontaine questionnent l’ampleur de la Collaboration au sein de la
société française. Une exposition riche en documents inédits qui incite à
la réflexion.
Lettera da Parigi Odio antisemita in mostra
«La Collaboration 1940-1945» espone tutto il campionario della caccia all’ebreo: foto, carte di polizia, lettere anonime Dopo gli attacchi terroristici, la si guarda con occhi diversi
di Sergio Luzzatto Il Sole Domenica 1.3.15
La prima volta, in dicembre, c’ero andato da storico. Sfavillante delle
luci di una vigilia natalizia, Parigi sembrava invitare ad altro sia i
parigini stessi, eternamente frettolosi, sia i turisti più o meno
sfaccendati. Shopping a parte, anche lì, nel Marais, sembrava esserci di
meglio da fare – per chi non fa lo storico di mestiere – che infilarsi
nel cortile delle vecchie Archives Nationales. A cominciare da un Musée
Picasso finalmente riaperto. Mentre salivo lo scalone dell’Hôtel de
Soubise per visitare la mostra su «La Collaboration 1940-1945», avevo la
sensazione di non fare altro che qualcosa di professionale, quasi di
tecnico. La solita mostra documentaria, la solita polvere del tempo.
Mi ero soffermato su certe cose, avevo sorvolato su altre. Mi avevano
particolarmente colpito le pagine spiegazzate degli elenchi stilati con
zelo, nell’ottobre 1940, dai funzionari della Préfecture de Police di
Parigi: il censimento sistematico – strada per strada, casa per casa,
abitante per abitante – di tutti i «juifs» residenti a quella data nella
capitale e dintorni. In pratica, il lavoro preparatorio per la caccia
all’ebreo che si sarebbe aperta quindici mesi più tardi. Sgualcite
dall’uso e ingiallite dal tempo, le Pages Blanches di uno sterminio
ordinato dai tedeschi, ma organizzato dai francesi.
La mostra (che resterà aperta fino al 5 aprile) espone i materiali più
vari, dalle carte di polizia ai manifesti di propaganda, dalle
fotografie ufficiali ai manoscritti letterari. Il più notevole di questi
ultimi consiste in due pagine di Céline, la versione autografa del
pamphlet Les beaux draps. Io mi ero chinato su quelle due pagine, nella
vetrina, con il consueto disagio di chi scopre gli orrori di stampa
dell’antisemita più talentuoso d’Europa: con la nausea dell’ammiratore
disgustato. Né la nausea era scomparsa quando mi ero chinato sulla
vetrina accanto: le amatissime copertine bianche di Gallimard, il
venerato logo in corsivo minuscolo, nrf, ma in alto, come autore di quel
libro, il nome di Drieu La Rochelle. L’editore opportunista e il
collaboratore collaborazionista.
Oggi – due mesi e mezzo dopo – all’Hôtel de Soubise voglio ritornare non
più da storico, ma da cittadino (italiano o francese, poco importa:
diciamo da cittadino europeo). Voglio visitare la mostra sulla
«Collaboration» con gli occhi di chi ha visto, nel frattempo, cose che
non avrebbe immaginato di vedere nel suo Paese d’adozione, la
proverbiale Francia della Rivoluzione e dei Diritti dell’Uomo. Non
soltanto le immagini di due incappucciati nerovestiti che risalgono in
macchina, urlando, un momento dopo avere vendicato Maometto e un momento
prima di freddare, per strada, un poliziotto di nome Ahmed. Né soltanto
le immagini dei clienti di un supermercato kosher, uomini e donne con
bambini in braccio che fuggono terrorizzati nel pomeriggio di un giorno
da cani.
Pochi giorni fa ho visto altro ancora. Immagini meno drammatiche, e
nondimeno inquietanti. Ho visto il video di un reporter israeliano che
ha camminato dalla mattina alla sera, con una kippah in testa, per le
strade del centro e della periferia di Parigi: nient’altro che
camminato, dritto davanti a sé, senza far nulla per attirare
l’attenzione. E che tuttavia ha raccolto, per reazione, una quantità di
sguardi ostili, gesti aggressivi, commenti volgari. Indici puntati
contro il «sale juif», lo sporco ebreo. Sputi addosso. «Questo qui è
venuto per farsi fottere». Ho visto anche, nei giorni scorsi, le
fotografie delle tombe profanate di un cimitero ebraico d’Alsazia. Una
cittadina tranquilla, un paesaggio incantevole all’intorno, e nel campo
israelitico decine e decine di sepolcri divelti, vandalizzati,
distrutti. I responsabili? Quattro ragazzi del posto, incensurati, fra i
quindici e i diciassette anni. Come a dire che potrebbero essere i
compagni di scuola dei miei figli.
Sì, ritornando alle Archives Nationales, voglio guardare con occhi
diversi la mostra parigina sulla «Collaboration». E voglio farlo pur
sapendo che i tempi della storia non vanno mai confusi. Sapendo che
l’anacronismo è anzi il peccato mortale dello storico, e che sarebbe
improprio per tutti (storici o cittadini) assimilare questo nostro tempo
agli anni Quaranta del Novecento. Ma oggi non mi interessa – al limite –
la disumana eccezionalità di quei tempi di ferro e di sangue,
1940-1945, la Seconda guerra mondiale, l’Occupazione, la Soluzione
finale. Oggi mi interessa l’umana banalità dei meccanismi di difesa e di
offesa sociale. Mi interessano il sentimento di appartenenza, la
diffidenza verso l’“altro”, la tentazione del capro espiatorio.
Fanno impressione, è chiaro, le fotografie più tragiche della mostra. La
foto dei pullman in coda il 16 luglio 1942, quell’unica foto esistente
della retata del Vél d’Hiv, 13.152 ebrei da deportare tutti in una
volta. Le foto degli ebrei stranieri internati nei campi della Zona Sud e
adesso pronti a partire, in fila indiana, per Drancy e poi per
Auschwitz. Ma non sono meno impressionanti, a ben guardare, altri
documenti esposti alle Archives Nationales. Certe lettere anonime, per
esempio. Delazioni spicciole. Pedinate quello, controllate quell’altro,
arrestate quell’altro ancora. Regolamenti di conti da vicini di casa (o
da amanti delusi, o da concorrenti commerciali) bardati di patriottiche
accuse contro gli ebrei o contro i massoni, contro i comunisti o contro
gli stranieri.
Nella Francia del 2015 – dove il Front National prevede ragionevolmente
di vincere le elezioni dipartimentali di fine marzo – quanto più
colpisce della mostra sulla «Collaboration» è la forza sempreverde di
una doppia retorica: la retorica una e bina dell’inclusione e
dell’esclusione. Noi e loro. Ecco la famosa «Affiche rouge», il
manifesto stampato nella Parigi tedesca del febbraio 1944 contro i
combattenti partigiani della Main-d’Oeuvre Immigrée. Che cos’hanno in
comune i dieci resistenti più ricercati della regione parigina (e infine
catturati, e condannati a morte)? Sono tutti stranieri. Quattro ebrei
polacchi, tre ebrei ungheresi, un «comunista italiano», uno «spagnolo
rosso», il «capobanda armeno». Nessuno è francese, nessuno è dei nostri.
Sono tutti alieni. Hanno combinato tutto fra loro.
Se una retorica dell’esclusione può apparire spesso così primaria da
riuscire ingenua, una retorica dell’inclusione può risultare altrimenti
sofisticata. Ecco, alla mostra, la foto di un elegante palazzo parigino
della Rive droite e un cartellone che troneggia al quarto piano, davanti
alle finestre d’angolo: «Vogliamo la Francia unita in un’Europa
unita!». La Francia unita in un’Europa unita? Al pianterreno del
palazzo, una gigantografia del maresciallo Pétain illustra di quale
Francia e di quale Europa si tratti. Perché nel 1940 come nel 2015 le
parole degli slogan europeisti suonano bene, ma non bastano a dire
tutto. In fondo, sarebbe stata un’Europa unita anche quella della pax
hitleriana.
Voglio tornare all’Hôtel de Soubise, ma non sono sicuro che rivedere la
mostra servirà davvero a chiarirmi le idee. Da un lato, so di detestare
l’appello che Benjamin Netanyahu lancia continuamente, da Israele, a
tutti gli ebrei di Francia: venite qui, vi aspettiamo, è questa la
vostra patria. Dall’altro lato, sento che non deve smettere di parlarci
la storia della Terza Repubblica francese naufragata tra le acque di
Vichy: una storia fatta – anche quella – di crisi economica,
disoccupazione di massa, sgretolamento dei valori democratici,
stigmatizzazione del diverso da sé, fascino dei leader populisti.
Né deve smettere di parlarci la storia (precedente, e meno nota) della
«destra rivoluzionaria» in Francia: la cultura politica che iniettò
all’Europa – oltre un secolo fa, e prima ancora di Benito Mussolini – il
bacillo dell’ideologia fascista. Quella strana miscela di destra e di
sinistra, di disciplina e di rivolta, di ruralismo e di operaismo, di
frustrazione e di fierezza, di crociata e di laicità, che nella Francia
di oggi viene quotidianamente impastata da una signora che tutti, ormai,
chiamano familiarmente «Marine».
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