Maurilio Orbecchi:
Biologia dell’Anima. Teoria dell'evoluzione e psicoterapia, Bollati Boringhieri, pp. 187, €18
Risvolto
Il variegato arcipelago della psicoterapia è forse una delle arene più
litigiose nel consesso delle scienze umane. In poche discipline come in
quella psicoterapeutica si è assistito nel tempo a una progressiva
parcellizzazione delle scuole in sottoscuole e varianti di sottoscuole:
una polverizzazione di idee e teorie che ha avuto come risultato una
specie di anarchia terapeutica, nella quale ogni analista si richiama al
proprio micromodello di riferimento e alza steccati nei confronti dei
modelli alternativi.
Alle due scuole analitiche storiche – la
psicoanalisi discendente da Freud e l’analisi psicologica derivante da
Jung – si sono aggiunte ormai biblioteche intere di discussioni e
scomuniche reciproche, lotte cruente ricche di gelosie e rivalità. In
questo contesto sono nate molte visioni alternative, che sono oggi
saldamente presenti nell’offerta terapeutica sul territorio. Perché una
cosa è senz’altro vera: molti sentono il bisogno di un aiuto psicologico
e moltissimi ne hanno assoluta necessità, essendo prigionieri di
malesseri e vere e proprie patologie che impediscono loro di vivere una
vita normale e di rapportarsi col mondo in modo soddisfacente. C’è gente
che soffre; si tratta di capire come fare ad aiutarla.
Dall’epoca di
Freud e Jung il tempo non è passato invano. Al periodo eroico
dell’indagine sulla mente, dominato da queste due figure nei primi
decenni del Novecento, è succeduto un periodo altrettanto eroico di
indagine evoluzionistica, derivato dalla rivalutazione del pensiero di
Darwin, e successivamente il recente, fibrillante periodo di scoperte
sul cervello e sull’architettura della nostra mente, favorito anche da
tecnologie che un tempo erano inimmaginabili. Neuroscienze, scienze
cognitive ed evoluzionismo hanno dunque iniziato a capire il sistema
mente-cervello da un punto di vista nuovo e si sono impegnate in un
confronto serrato e critico con le scuole tradizionali e con le loro
teorie, spesso scarsamente ancorate al dato empirico.
Con Biologia
dell’anima Maurilio Orbecchi ci propone i temi fondamentali di questo
acceso dibattito, rimarcando, contro ogni tentazione corporativa, che
«non ha senso isolarsi in una scuola psicologica particolare, perché la
scienza è un’impresa collettiva e intrecciata, che condivide
un’architettura evoluzionistica che attraversa ormai tutte le
discipline». Quel che conta è trovare spiegazioni plausibili ai
comportamenti umani per tentare un intervento efficace, e neuroscienze,
evoluzionismo e psicologia animale comparata ci aiutano moltissimo, in
questo senso, a scrollarci di dosso quanto di più arcaico e
ingiustificato ancora resiste nelle poltrone e nei lettini di così tanti
psicoterapeuti.
“Addio al vecchio complesso di Edipo. La neuroscienza non sa che farsene”
Saggio dello psichiatra Orbecchi: è ora di rottamare la psicanalisi di Freud
di Gabriele Beccaria La Stampa 10.3.15
Un
secolo sul lettino e stiamo così così. Ma le nostre anime non sono
state abbandonate. Anzi. La psicoterapia del futuro è già tra noi.
Scintillante di scoperte, ci sta esplorando e promette - lei sì - di
guarirci, rivoluzionando l’idea di mente e di personalità. E facendo
molto meglio del padre-padrone Freud.
A raccontare il Rinascimento
della psicoterapia è il saggio Biologia dell’Anima, (Bollati
Boringhieri, pp. 187, €18). E stavolta non c’entrano improbabili terapie
in forma di blitz o app sospese tra il tecnologico e il miracoloso.
L’universo che racconta Maurilio Orbecchi assomiglia all’albero della
vita di Darwin: a partire dalla radice evoluzionistica nei rami si
intrecciano tante discipline, dalla psicologia animale alle
neuroscienze, proiettandoci in una dimensione inimmaginabile per la
psicanalisi: dimentichiamo tabù dell’incesto e complessi edipici. Solo
da poco abbiamo capito che siamo creature ibride. Complicate. Un po’
angeliche e un po’ diaboliche, altruiste ed egoiste, in cui i poli della
cognizione e dell’affettività sfumano l’uno nell’altro. Freud, che
credeva nel «perverso polimorfo», ne sarebbe sconcertato.
Orbecchi, da psicoterapeuta, lei delinea un’inedita «cura dell’anima»: ma funziona? E come?
«Stiamo
entrando in una nuova era attraverso una concezione trasversale: invece
del classico modello isolato, come quello di Freud o Jung, assistiamo
alla convergenza di diverse scuole di psicoterapia su uno schema comune,
che nasce dalle scienze della vita e del cervello».
Chi sono i nuovi «maestri»?
«È
una psicoterapia che nasce dal “basso”, ma con il contributo di tanti
studiosi: per esempio l’americano Philip Bromberg, l’australiano Russell
Meares, l’ungherese Peter Fonagy, gli italiani Giovanni Liotti e
Vittorio Lingiardi».
Ammetterà che si è agli albori: non è così?
«Nei
saggi “standard” di psicoterapia non si trova ancora, per esempio, una
relazione chiara tra l’evoluzione e i modelli interpretativi
psicoterapeutici. Il mio libro vuole colmare una lacuna e dimostrare
come la teoria dell’evoluzione e la psicologia animale gettano luce su
aspetti importanti della psicologia e psicopatologia della mente: sono
aspetti che si rivelano diversi da quelli immaginati da Freud e Jung».
Niente complesso di Edipo?
«No.
Perché dobbiamo immaginare fattori di nevrosi specifici per gli esseri
umani, come, appunto, il desiderio incestuoso del complesso edipico,
quando le carenze affettive e i maltrattamenti spiegano le nevrosi in
tutti i mammiferi sociali? Oppure: perché immaginare in noi una pulsione
di morte, quando di questa non c’è traccia nei primati non umani,
mentre risentiamo dell’ossessione animale della dominanza che è alla
base di tanti conflitti della nostra specie? O ancora: perché pensare
che cerchiamo lo status per sublimare il mancato appagamento sessuale,
quando nel mondo animale la ricerca di status avviene anche per ottenere
maggiore disponibilità sessuale? Non occorre più evocare narrazioni
mitologiche».
E allora come si guarirà?
«Partendo dalla
consapevolezza che le guarigioni non avvengono attraverso i vecchi
modelli interpretativi. Alcuni vengono addirittura invertiti: il
paziente non cambia perché ha capito, ma capisce perché è cambiato
grazie a un rapporto empatico, prima che cognitivo, con lo
psicoterapeuta».
È il contrario dell’assunto freudiano che imponeva la distanza tra medico e paziente?
«Contraddice
quell’assunto. Freud sosteneva di guarire l’inconscio attraverso la
coscienza con la celebre frase “Là dove c’era l’Es ci sarà l’Io”. Il suo
era un approccio cognitivo. Oggi, invece, l’approccio tende a diventare
affettivo».
E l’idea di mente si trasforma: in che senso ha una struttura dissociativa?
«Freud
credeva nell’Io unitario, ma oggi si è dimostrata l’esistenza di tanti
processi psicobiologici che collaborano tra loro, con funzioni diverse, e
che nel loro lavorìo generano una sensazione solo apparente di Io
unitario: come avevano intuito William James e Pierre Janet, qualsiasi
scelta facciamo scontentiamo qualche parte del nostro “parlamento
interiore”. Se normalmente coordiniamo le parti, la cosa non ci riesce
quando ci sono dei traumi, in età infantile o da adulti, senza
dimenticare il ruolo di genetica ed epigenetica».
Nel libro lei «rimuove» l’interpretazione dei sogni: perché?
«Il
tema resta aperto e la scienza dà risposte diverse: se abbiano un
significato o se siano solo frammenti di eventi. Personalmente li uso in
senso ermeneutico: facendo lavorare il paziente sulla costruzione di un
senso».
“Freud è un po’ invecchiato ma la sua cura aiuta ancora”
Secondo lo psichiatra Maurilio Orbecchi “l’analisi è morta” Gli risponde Antonio Ferro, presidente della Società psicoanalitica
di Egle Santolini La Stampa 11.3.15
Ogni tanto, ogni poco, ad Antonino Ferro tocca il compito di replicare a
chi dà per spacciata la psicoanalisi. In Italia è probabilmente il
meglio accreditato a farlo, come presidente della Società Psicoanalitica
Italiana, considerata la freudianamente più ortodossa. Eppure, come
scoprirete tra poco, le classificazioni troppo rigide non servono a una
comprensione del tema.
Ferro, ci risiamo. Nella sua Biologia dell’Anima, e in un’intervista a
La Stampa di ieri, Maurilio Orbecchi mette una croce sopra alla cura
freudiana.
«Mi verrebbe da dire che dev’essere ben viva e che deve continuare a
dare un gran fastidio, la psicoanalisi, se in tanti si ostinano a voler
vederla morta. Invece è in ottima salute, serve e continua a far star
meglio le persone: il che è l’elemento decisivo. Le pare che continuerei
a esercitarla se non funzionasse? Il problema, semmai, mi sembra un
altro. E cioè: di quale psicoanalisi stiamo parlando?»
Di quella, immagino, nata a Vienna un centinaio di anni fa.
«Appunto. Che Freud ci ha lasciato come un organismo vivo, in continua
evoluzione, e che nel giro di un secolo ha saputo adattarsi ai
cambiamenti. Secondo lei avrebbe senso che un infettivologo del 2015 si
dicesse pasteuriano? È la medesima cosa. Il rito classico, come uno se
l’immagina, sopravvive soltanto in certe roccaforti lefreviane. Pensi
per esempio allo stereotipo dell’analista neutro, che resta muto per
decine di sedute».
Quello da barzelletta, da vignetta del New Yorker.
«Appunto. Una figura che non esiste più, se si escludono quelle famose
enclave tradizionaliste. L’analisi è fondamentalmente la storia di una
relazione, di un lavoro a due in cui si costruisce e si narra insieme.
Ed è la relazione a guarire».
Ma non è sempre stato così?
«In teoria. Però agli albori della disciplina quello che prevaleva era
una forte asimmetria fra paziente e terapeuta, con un’accentuazione
dell’aspetto interpretativo e l’analista un po’ in veste sacerdotale.
L’inconscio era considerato come un’isola inespugnabile, una specie di
Alcatraz. E il sogno come un apriscatole».
Questa deve spiegarcela meglio.
«Ha presente quegli apriscatole antiquati, con cui facevi un buco nella
lattina finendo sempre per tagliarti? Ecco: il sogno, “la via regia
all’inconscio”, secondo la vecchia definizione, veniva usato un po’ in
questo modo. Oggi si è capito che il male, la sofferenza, vengono da ciò
che nei sogni non è nemmeno contemplato: elementi non espressi, non
pensati, non elaborati».
Non la usate più l’interpretazione dei sogni?
«Può capitare. Succede che qualche volta un sogno lo si ri-narri
assieme, lo si dipani come un racconto, lavorandoci insieme. Ma abbiamo
tanti altri strumenti a disposizione, e lo scopo non è tanto quello di
“interpretare”, quanto quello di instaurare un assetto affettivo con il
paziente, di mantenersi sulla sua lunghezza d’onda. Quello che cura è
l’aspetto emotivo della faccenda: in psicoanalisi, conta più la pancia
della testa».
Il che tra l’altro leva alla terapia viennese quell’aura punitiva, da
rigido collegio mitteleuropeo, che ogni tanto ancora la circonda. A
proposito di vecchio armamentario, Orbecchi è particolarmente tranchant
con il complesso di Edipo. Che, secondo lui, non esiste…
«Si tenga forte: quando sono con un paziente, penso a quello che mi sta dicendo e non a Edipo».
…e rifiuta il concetto di pulsione di morte, sostenendo che non ve n’è traccia nei primati non umani.
«Si tenga ancora più forte: nella mia esperienza professionale, non ho
mai avuto il piacere di essere presentato alla pulsione di morte. So che
molti miei colleghi ci lavorano a fondo, ma non è il mio caso. Crede
che per questo sia passibile di espulsione dalla Spi? ».
Un caso interessante, visto che ne è, ancora per due anni, il presidente.
«Forse con quell’espressione si intende un insieme di sofferenze non
trasformate, non elaborate, che sono appunto ciò che fa soffrire il
paziente e con cui, quelle sì, facciamo i conti tutti i giorni. Ma non
sono le vecchie formule ad aiutare a guarire».
Veniamo a un altro argomento di Orbecchi, il più deciso. La nemesi della
psicoanalisi arriverebbe dalle neuroscienze, che fornirebbero tutte le
spiegazioni sfuggite a Freud e ai suoi eredi.
«Considero le neuroscienze come universi meravigliosi, e tenga conto che
io nasco come neurochimico. Resta il fatto che tra le neuroscienze e la
sofferenza delle persone si apre una distanza siderale. Quello che può
aiutare, piuttosto, è la neuropsicofarmacologia. Soprattutto da quando
la psicoanalisi si occupa di patologie particolarmente severe: è
frequente che, in una prima fase, ci si affidi a due terapeuti diversi,
uno che cura con le parole e l’altro con i farmaci, fino a quando il
paziente non sia in grado di fare a meno delle medicine. Gliel’ho detto:
è un mondo che progredisce ogni giorno. Non confondiamo un vecchio
carretto con un’astronave».
1 commento:
Ma Orbecchi era fino a non molti anni fa uno psicoanalista junghiano. Perche' questa inversione di rotta? Se ne da conto nel libro?
Saluti
Amelia Restini
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