mercoledì 11 marzo 2015
L'astuto Quirico riabilita il saccheggio coloniale delle opere d'arte
Quei saccheggi dell’Occidente ora sono una salvezza
Nei
nostri musei le testimonianze di antiche civiltà oggi minacciate dai
picconi del Califfato: un furto provvidenziale, non è più tempo di
rimorsi
di Domenico Quirico La Stampa 11.3.15
Come l’essenziale tremendo di questo pensiero totalitario è di credere
non a un solo dio ma a un solo dio dell’islam, così la tolleranza non
può che essere data una volta per sempre, per sempre identica a sé
stessa.
Di fronte all’avanzare del blasfemo piccone del miliziano islamista è
arrivato, forse, il momento di smontare uno dei recenti rimorsi
dell’Occidente, l’aver cioè saccheggiato le antiche civiltà per
trasformarne testimonianze di pietra, di marmo, di sabbia in musei, i
nostri musei. È vero: smontarono altari e templi, imballarono obelischi e
statue come portavano via, nei ventri delle navi, oro e minerali.
Si giustificarono: gli eredi di quelle straordinarie civiltà sono gente
miserabile coperta di stracci, dominata da pascià e emiri indolenti e
osceni, indegna di custodire quei tesori, che risultano loro
indifferenti, o al massimo lucroso bottino per ladri di tombe. Arroganza
venata di razzismo, dunque.
Ma senza quei virtuosi saccheggi, quelli sì provvidenziali e salvifici,
che rimarrebbe oggi di queste creazioni dell’uomo? L’avanzata del
Califfato, la violenza iconoclasta di un totalitarismo religioso che
nega la molteplicità delle Storie sarà il problema del mondo per i
prossimi venti, trent’anni: una presenza cieca e ostacolante, un
processo di retrocessione del mondo moderno a forme sacrali primitive,
la regressione quasi a uno strato fossile. E lo sarà in luoghi - il
Vicino Oriente, la Via della Seta, l’Africa mediterranea - che sono
state la culla delle civiltà. Immaginate i bulldozer del Califfato
avanzare, presto o tardi, dal Sinai all’Egitto, muovere all’assalto
della sfinge, idolo insopportabile come i lamassu che invano dovevano
proteggere le città sul Tigri; o smontare con il martello pneumatico i
volti dei giganti di Abu Simbel, appena salvati da un nuovo diluvio,
come i talebani fratelli nell’oscurantismo bigotto, hanno scalpellato
altri giganti a Bamiyan.
Un nuovo Medioevo
Prepariamoci, allora, come per un nuovo Medioevo, a raccoglierci attorno
a ciò che noi abbiamo messo al sicuro, a riunire i frammenti ancora
sparsi o che riusciremo a sottrarre agli Assassini: degli uomini per
loro presunta impurità, e del Passato anch’esso impuro perché Altro. Un
nuovo Medioevo avanza in questa straziata e convulsa parte del mondo,
che uscirà dalla nostra storia perché non più visibile e raccontabile,
arriveranno solo gli echi di massacri e di devastazioni come da terre in
preda a dei feroci e implacabili. I musei dell’Occidente saranno i
chiostri di un nuovo, miracoloso archivio del Tempo, con l’amarezza di
non aver salvato di più.
Il linguaggio delle rovine
A Ninive, Hatra, Nimrud gli uomini che le scoprirono attendevano di
trovare nient’altro che l’arte e la morte. I semiti hanno lavorato
nell’effimero, i loro edifici nati dalla polvere spesso ci sono tornati.
Le civiltà si sono appiattite, abbassate le une sulle altre. A Ur le
nove città sovrapposte abitate da tante generazioni occupano solo
novanta centimetri di taglio verticale. Eppure gli archeologi alla fine
dell’Ottocento (l’ultimo secolo che ha creduto nel progresso dell’uomo
come destino e contemporaneamente ha amato il passato) non si
rassegnarono.
La terra è gibbosa quasi fosse sollevata da onde fino all’orizzonte. Il
cielo, infinitamente puro sotto il freddo della notte, ridiventa di un
bianco smagliante nella calura del giorno. Non le avevano ancora
completamente liberate dal suolo, le antiche capitali del mondo, e
parlavano il grande linguaggio delle rovine. Avevano l’accento delle
«pietre del diavolo» e delle montagne sacre: liberate dai badili, le
vaste facce consunte di creature alate e di re rianimavano alla luce i
luoghi in cui un tempo parlavano gli dei e scacciavano l’immensità
informe della sabbia. Il sigillo di tutte le forme che hanno captato una
parte di inafferrabile: il segno che il reale è apparenza e non si
chiama ancora Dio, linguaggio dell’effimero e della verità dell’eterno e
del sacro, quello vero, non quello feroce del dio islamista.
Ogni arte sacra si oppone in fondo alla morte, perché non è una
decorazione della propria civiltà ma l’esprime secondo il suo valore
supremo. Quei meravigliosi «ladri» occidentali hanno scoperchiato questo
mondo sepolto di sabbia e di oblio: i soli realismi che durino, sì,
sono quelli dell’oltremondo. Le rovine che univano i templi franati e i
palazzi un tempo d’oro e di feroci glorie fuggenti si trasformarono a
poco a poco in siti archeologici, in Siria, in Iraq. Non vedremo più le
sfingi e i leoni alati affondati fino al collo nel deserto né quelle
corrose a tal punto dal vento delle sabbie che la loro testa assomiglia
al ceppo dei vecchi ulivi… Resterà solo il confuso labirinto aperto dai
saccheggiatori islamici del pazzo Califfo. La loro via è fatta:
briciole, scaglie, sabbia. Il destino non ha cessato di rimescolare con i
suoi gesti da cieco il dominio degli antichi re di Assiria.
Dall’Assiria all’Isis
Eppure, strano paradosso, l’Assiria che i forsennati di Daesh cerca
meticolosamente di distruggere, per certi versi loro assomiglia. È il
Vicino Oriente «balcanizzato» dopo la bufera dei popoli del mare, una
folla di piccoli Stati litigiosi che occupano abusivamente la scena
della Storia e parlano a voce troppo alta. L’Assiria può essere
tranquilla, aperta come è a tutti i venti, solo minacciando gli altri,
terrorizzandoli a sua volta. Per esistere, non diversamente dal
Califfato, è condannata a sterminare i vinti, a opprimerli, a deportare
intere popolazioni, a condurre guerre senza pietà. I suoi sovrani
amavano la ferocia delle decapitazioni di massa, come il Califfo
invisibile. I rilievi dei palazzi di Ninive, di Nimrud e Khorsabad
raccontavano in modo eloquente queste lugubri storie che, in fondo,
assomigliano alla loro.
L’idea di estrarre dalla sabbia il passato per conservarlo e rileggerlo
nei suoi oggetti è un’idea occidentale: come la democrazia e i diritti
dell’individuo. Non può appartenere all’islam radicale dei nuovi
califfi. Quello che li connette e li cementa infatti è la storia, non il
sangue e nemmeno il colore, la vicenda storica intessuta da una
speciale confessione religiosa che offre un forte status comune, più
forte e sentito che in qualsiasi altra fede o religione. Dalla
retrocessione nel passato remoto questo islam forma a sé stesso una
faccia indelebile e che deve sempre più pietrificarsi. Perché accetti le
altre Storie dovrebbe rinunciare a se stesso come islam, rinunciare
alla indistinzione tra sacro e profano, Stato e religione.
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