domenica 22 marzo 2015
"Rivoluzione Arancione" e politica postmoderna: perché la Sinistra si vergogna del rosso
Maurizio Ridolfi: Storia delle passioni politiche dalla caduta del fascismo a oggi, Mondadori Education
Risvolto
La storia dei colori ci racconta l'evoluzione delle mentalità sociali e
culturali. Ad un certo punto della loro storia la politica se ne
impadronì. Nel volume, in un orizzonte comparativo ed europeo, la
rappresentazione del politico nell'Italia contemporanea avviene tramite i
colori e le espressioni cromatiche (verbali, scritte, figurate). È una
narrazione che si distende dagli anni francesi fino alla parabola del
regime fascista. Alla insorgente «società dello spettacolo» vanno
ricondotte tanto lo sviluppo della pubblicità commerciale che
l'affermarsi delle moderna politica nel secondo Ottocento. Nel
Novecento, con il trionfo delle immagini e della comunicazione di massa,
i colori hanno evidenziato i simboli attraverso i quali rappresentare e
demonizzare le identità politiche. Quel linguaggio sarebbe divenuto
parte essenziale di ogni azione mirata ad influenzare l'opinione
pubblica, a costruire quote di consenso (anche elettorale) e quindi una
società irregimentata quale quella fascista uscita dal crogiolo della
Grande Guerra. Disvelando le passioni e le emozioni politiche degli
Italiani, osservate nei profili istituzionali, nelle pratiche sociali e
culturali, negli usi letterario-linguistici e artistico-culturali, nelle
relazioni sociali (manifestazioni, feste, rituali funerari) e
interindividuali (abbigliamento, cappelli, divise, ecc.), il libro narra
di un capitolo fino ad ora mai messo a fuoco con sistematicità negli
studi storici dell'età contemporanea.
I colori impazziti della politica italiana
Sbiadiscono il bianco, il rosso e il nero delle ideologie Ecco l’azzurro, l’arancione e il viola, elusivi e ambigui
di Guido Vitiello Corriere La Lettura 22.5.15
I panni sporchi della Prima Repubblica avevano colori semplici, anche se
piuttosto marcati. Si trattava, in fin dei conti, di diverse
combinazioni dei tre colori della bandiera nazionale. C’era lo scudo
bianco rossocrociato dei democristiani e c’era la falce e martello su
drappo rosso dei comunisti. C’erano il garofano rosso dei socialisti e
il sole rosso dei socialdemocratici. C’erano il tricolore dei liberali,
l’edera verde dei repubblicani, la rosa rossa dei radicali.
Appallottolata in un angolo della lavatrice c’era poi la camicia nera
dei fascisti, coperta anch’essa dal tricolore della fiamma. Poi venne il
1992, l’anno del grande bucato passato alla storia con il nome di Mani
pulite.
Quale programma di lavaggio avesse scelto la lavanderia della Procura è
questione tuttora controversa, ma la temperatura doveva essere molto
alta perché la Seconda Repubblica uscì dall’oblò irriconoscibile,
rivestita dei colori più strani. L’azzurro cielo dei berlusconiani, il
blu più spento di Alleanza nazionale a sopire l’antica fiamma, il verde
sgargiante dei leghisti, che non aveva nulla a che spartire con quello
del tricolore, ma occhieggiava semmai al verde clorofilla dei partiti
ambientalisti, in nome della comune passione per il territorio. Via via
sbucarono dalla lavatrice anche l’arancione, il giallo, il viola, e
rispuntò l’arcobaleno pacifista che tutti li racchiude. Il rosso
sopravvisse un po’ più a lungo al risciacquo, ma si assottigliò di anno
in anno, fino ad acquattarsi tra il bianco e il verde nel tricolore del
Partito democratico. Non era cambiato solo il quadro politico, era
cambiata anche la tavolozza.
Alle trasformazioni dei colori politici nell’Italia repubblicana lo
storico Maurizio Ridolfi ha appena dedicato Italia a colori. Storia
delle passioni politiche dalla caduta del fascismo a oggi , pubblicato
da Le Monnier. Il libro — seconda parte di una ricerca che ha preso le
mosse dal Risorgimento — ripercorre i grandi conflitti cromatici della
Repubblica fin dalla fondazione, quando a combattersi erano il rosso e
il nero. Una storia tutto sommato lineare, fino alla pazza centrifuga
del 1992.
Quella dei colori politici è una scienza tutt’altro che esatta. Fatte
salve alcune ricorrenze transnazionali, ciascun Paese ha il suo dialetto
cromatico legato alla storia, alle memorie locali, alle identità
rivendicate, all’influenza di campi confinanti come la religione, lo
sport, lo spettacolo. Anche l’osservatore più distratto sa bene che, a
parità di colori, le leggendarie bandierine rosse e azzurre piantate
sulla cartina geografica dell’Italia da un Emilio Fede sempre più
pallido alle regionali del 1995, segno incontrovertibile dell’avanzata
dei cosacchi, avevano poco in comune con le mappe dei blue States
democratici e dei red States repubblicani che si vedono in ogni campagna
elettorale americana.
Un esempio meno grossolano lo può offrire l’arancione, che nella
primavera del 2011 accompagnò le vittorie «civiche» di Luigi De
Magistris a Napoli e di Giuliano Pisapia a Milano, e che tinse le
bandiere dei comizi referendari sul nucleare e l’acqua pubblica. In quel
colore si erano sedimentati, strato dopo strato, significati lontani e
discordanti. Era stato il colore del piccolo Partito umanista. Poi, nel
2004, la «rivoluzione arancione» in Ucraina vi aveva associato le
speranze della democrazia partecipativa. Qualche anno dopo arrivarono le
tonache dei monaci buddisti in lotta contro il regime birmano ad
aggiungere un nuovo strato. «In realtà — ricorda Ridolfi — in Europa e
fuori, diversi partiti di carattere populista avevano nel frattempo
adottato l’arancione come colore identitario (in Germania e Ungheria,
Canada e Bolivia). Nel Regno Unito e soprattutto in Irlanda, prima
ancora, l’arancione era associato all’Unionismo e all’Orange Order».
Saturo di tutti questi echi politici, identitari e religiosi, quel
colore caldo e vivace si posò infine sulla bandana di De Magistris.
Ancora non si sa bene come decifrarlo.
È un caso rivelatore, l’arancione, perché illumina un tratto comune a
molti colori della Seconda Repubblica. Sono colori ambigui, elusivi, «a
bassa definizione», di cui non sempre è facile ricostruire la genealogia
politica, e che di questa genealogia sembrano felicemente ignari.
Poveri di un contenuto ideologico immediatamente riconoscibile,
rivendicano alle passioni civili un carattere impolitico, prepolitico o
antipolitico. Se proprio devono riallacciarsi a qualche codice
cromatico, lo cercano al di fuori del Pantone (o del pantano) delle
appartenenze novecentesche, in campi che patiscono minor discredito.
L’azzurro di Forza Italia, per esempio. Colore calmo, accomodante se
paragonato alle tinte forti e contrastate della Prima Repubblica, che
come tale venne rivendicato: «Non c’è solo il rosso e il nero. C’è anche
tutto un altro colore, di un’Italia che sta in mezzo agli estremi». Un
nuovo termine medio tra gli «opposti estremismi», ma con una sfumatura
connotativa in più, perché un cielo limpido evoca anche la palingenesi e
la pulizia. Non per nulla la Dc, proprio nel fatale 1992, con mossa
disperata aveva incorporato l’azzurro nel suo simbolo, a far da sfondo
allo scudo crociato. Il blu sarà pure, in tanti Paesi, il colore dei
conservatori e dei popolari; ma l’azzurro berlusconiano cercava altrove
la sua legittimazione, e precisamente nel tifo calcistico: «Chiamateci
azzurri, non forzisti», pretendeva Berlusconi. E si potrebbe aggiungere
che quel cielo disseminato di nuvole bianche, sfondo di mille comizi
berlusconiani, più che gli orizzonti sconfinati evocava la schermata
iniziale di Windows.
Il popolo azzurro trovò la sua nemesi nel popolo viola, sceso in massa a
piazza San Giovanni il 9 dicembre 2009 per chiedere le dimissioni di
Berlusconi in nome di legalità e moralità. Perché viola? Per un verso,
spiega Ridolfi, bisogna guardare all’eredità del femminismo, dove il
viola era presente già negli anni Settanta. Ma all’origine c’è la
laicizzazione di un colore liturgico, e non certo dei più benauguranti
(come dimenticare il «viola addobbo funebre» che si dipinge sul volto di
Fantozzi dopo aver messo in bocca il pomodorino rovente?).
Che quella scelta non si riallacciasse a una tradizione politica lo
spiegò uno dei leader della mobilitazione, Gianfranco Mascia: «È il
colore degli estremi, ma non degli estremismi. Il viola è lo spirito, lo
trovi a metà strada tra la terra e il cielo, tra la passione e
l’intelligenza, tra l’amore e la saggezza. Il viola rappresenta quindi
la mediazione, è la concretezza che deriva da una energia pura e
spirituale, una voglia di fare e di capire mai ideologica». Il
linguaggio era quello di un compilatore di oroscopi o di un seguace
della cromoterapia, eppure quella definizione — «il colore degli
estremi, ma non degli estremismi» — coglieva perfettamente il clima che
avrebbe poi portato al trionfo elettorale dei grillini, peraltro
cromaticamente piuttosto anonimi: emozioni politiche arroventate,
perlopiù distruttive o funerarie, slegate dall’ideologia, ma capaci di
provocare un’ustione di terzo grado. Viola, appunto.
Tutto questo è sbucato fuori dalla lavatrice di Mani pulite, che, come
suggerisce Ridolfi, segnò un momento di «cromofobia», giacché ai colori
erano associati i partiti e ai partiti le tangenti. Sarà. Ma un’eredità
cromatica quella stagione l’ha comunque lasciata. Quando Di Pietro passò
alla politica, scelse come simbolo dell’Italia dei Valori un cielo
limpido su cui volava un gabbiano con le ali color arcobaleno. E c’era
poco da mettersi a ricostruire tradizioni e simbologie politiche, perché
la fonte era inequivocabile: la pubblicità dei detersivi. Tonino lava
più bianco.
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