sabato 11 aprile 2015

I testi di Raboni su Proust

Giovanni Raboni: La conversione perpetua e altri scritti su Marcel Proust, Monte Università Parma


Risvolto

"Sono qui come testimone più che come studioso dell'opera di Proust. Testimone di un rapporto lungo e per me molto importante, molto impegnativo, che ha sicuramente cambiato la mia vita. Io credo che Proust sia un autore che cambia la vita di chi lo frequenti; vi lascio immaginare che cosa può succedere a chi lo frequenta in un modo così particolare e così intimo come è capitato a me che ne ho riscritto frase per frase, parola per parola, poco meno di 3500 pagine nel corso di un impegno quasi quotidiano durato qualcosa come dodici anni. Sarò costretto (e me ne scuso) a fare un po' di autobiografia."
Raboni e la Recherche una perpetua fedeltà 
Bruno Quaranta  tuttolibri 11 4 2015

Il caso (mai casuale) vuole che sia Parma «color malva e dolce», un suo editore, ad accogliere gli scritti di Giovanni Raboni su Proust. L’altra città italiana, unitamente a Torino, gemellata con Combray (e ulteriori intermittenze del cuore). Tramite Cesare Zavattini, che in classe, convitto «Maria Luigia», leggeva Il Baretti gobettiano, soffermandosi in particolare sul saggio «Proust» di Giacomo Debendetti, indelebile l’incipit («Proust ha quasi terminato il suo turno di autore alla moda: dunque, si può parlare di Proust»). Così affascinando Attilio Bertolucci, che nelle aule ginnasiali comincerà a covare la sua «recherche» in versi. 
E ancora. Parma, la città di Giulio Bollati, che di Giacomino Debenedetti, per la sua Casa sotto la Mole, adunerà tutte le pagine su Marcel. E la «petite capitale» di Mario Lavagetto, che raffinatamente indagherà intorno a un lapsus (Stanza 43) del Gran Francese. A côté, la Mamiano di Luigi Magnani, il collezionista di Bellezza che onorerà la Volpe montaliana, Maria Luisa Spaziani, ricostruendo la petite phrase di Vinteuil, da Franck e da Saint-Saëns.
Raboni, dunque. L’artefice della traduzione in solitaria di Alla ricerca del tempo perduto (Meridiani Mondadori), dopo l’einaudiana versione a più mani, da Natalia Ginzburg a Paolo Serini, da Giorgio Caproni a Elena Giolitti, da Franco Calamandrei a Nicoletta Neri, a Franco Fortini. Una lunga fedeltà a Proust, a cominciare dal giovanile, inziatico viaggio a Illiers, non ancora Illiers-Combray, che «non è né brutta né bella; è soprattutto molto provinciale e molto francese, cioè molto provinciale». (Sovviene una sottolineatura del «proustiano» Raffaele La Capria: «La psicologia è nata in provincia»). Ricordando che il Narratore presentì nella chiesa di Combray l’«impronta» della sua Cattedrale (Chartres è vicina) «che ci resta di solito invisibile: l’impronta del Tempo».
La conversione perpetua e altri scritti su Marcel Proust (a suggello una conversazione di Giulia Raboni con Mario Lavagetto) è il secondo titolo di Tracce, collana a cura di Ivo Iori del Fondo Librario Roberto Tassi, il maiuscolo critico d’arte, parmense d’adozione, che su Marcel non di rado mediterà. Per esempio accostandolo a Sutherland: «Sutherland sta, di fronte al reale, in atteggiamento passivo, in vigile attesa; molto simile a Proust quando si fermava immobile davanti alle rose del Bengala, aspettando che gli rivelassero la loro essenza». Nel solco, nel segno, della «durata» bergsoniana, il non quantificabile, l’immisurabile, anarchico flusso di coscienza (non sarà Lawrence ad apprezzare «l’anarchia beneducata» di Proust?). Ecco perché (forse) Raboni tradurrà «longtemps» non «per molto tempo», ma «a lungo», locuzione che ha il respiro del perpetuo («...l’idea della mia opera era, nella mia mente - si è all’epilogo della Recherche -, sempre la medesima, in perpetuo divenire»).
È la perpetua conversione intuita da Debenedetti, condivisa da Raboni non storicamente («Il concepimento e la gestazione della Recherche coincidono largamente con il periodo “mondano” in Proust», non sono successivi), ma esteticamente. La folgorazione, la grazia efficace dell’arte, della letteratura. «Se l’arte - rifletterà Proust - non fosse davvero che un prolungamento della vita, meriterebbe sacrificarle qualcosa? Non sarebbe forse altrettanto irreale di essa?». Meriterebbe forse «l’Adoriation perpetuelle»?

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