Di solito Burgio eccelle nell'analisi e pecca di moderatismo nella proposta; in questo caso mi pare che anche l'analisi, tutta rivolta a dialogare con la sinistra PD nella prospettiva di ricostruire un orizzonte di centrosinistra, sia deludente. Ci si rivolge cioè proprio a chi ha provocato il disastro...
Va detto che la linea dei grassiani è in forte difficoltà. La tattica del dentro-fuori li ha infilati in un vicolo cieco, tant'è che anche i delfini sono andati da Vendola [SGA].
Renzismo, una destra en travesti
Alberto Burgio, il Manifesto 4.4.2015
La discussione su quanto sta accadendo nel Pd ha raggiunto da ultimo vette di ineguagliabile futilità. Ora si discute, in quel partito e intorno a quel partito, sulla misura del legittimo dissenso. Niente di meno. Tutto pur di evitare di guardare in faccia la realtà e le proprie smisurate responsabilità. Cerchiamo di fare almeno noi uno sforzo di serietà e di ragionare politicamente su questa partita che tutto è meno che una discussione interna a un gruppo dirigente. Perché c’è di mezzo, lo si voglia o meno, una buona fetta del destino di noi tutti e di questo paese.
Un buon modo per cominciare è chiedersi che cosa sia il renzismo. Che si può ormai definire, in modo sintetico e preciso, un fenomeno di destra mascherato da vaghe sembianze di centro-sinistra. È inutile attardarsi in esempi, anche se è bene non dimenticare che una delle ragioni del disastro italiano (e non la minore delle responsabilità di chi ha diretto la mutazione genetica del Pci prima, del Pds e dei Ds poi) risiede nel fatto che gran parte dell’elettorato progressista non è in grado di comprendere. Per cui rimane sotto ipnosi e vota per il Pd indipendentemente da ciò che esso è diventato e fa, nell’astratta convinzione di compiere una scelta «di sinistra».
Ma da quando il renzismo è un fenomeno di destra travestito? Meglio: da quando lo è in modo evidente, almeno agli occhi di chi è in grado di decifrare la politica? Ammettiamo che la preistoria fiorentina del presidente del Consiglio non fosse univoca sotto questo punto di vista.
Concediamo che le parole d’ordine della rottamazione e il braccio di ferro per le primarie aperte potessero ingannare gli ingenui (o gli sprovveduti). Fingiamo quindi che si dovesse stare per qualche tempo a vedere che cosa combinava il nuovo governo dopo l’occupazione manu militari di palazzo Chigi. Resta che la maschera Renzi se l’è tolta clamorosamente già l’estate scorsa, nel primo scontro durissimo su una «riforma» costituzionale dichiaratamente volta ad accentrare nelle mani del governo il potere legislativo e a trasformare il parlamento della Repubblica in una riedizione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
È trascorso poco meno di un anno e moltissima acqua è passata sotto i ponti.
Acqua inquinata e inquinante che ha investito, travolgendoli, diritti e condizioni materiali di vita e di lavoro (o di non lavoro) di milioni di persone. Acqua limacciosa e putrida che si chiama jobs act e italicum; tagli lineari al welfare e ancora soldi pubblici alle scuole private; acquisto di decine di cacciabombardieri e aumento della pressione fiscale sul lavoro dipendente ed eterodiretto; la bufala populista degli 80 euro e l’urto frontale con i sindacati; la cancellazione del Senato elettivo e decine di voti di fiducia e di decreti-legge; deleghe legislative in bianco e continue violazioni dei regolamenti parlamentari; patto del Nazareno e indecorose tresche con Marchionne e Confindustria. E ancora migliaia di tweet di autoincensamento compulsivo, da fare invidia al dittatore dello Stato libero di Bananas.
Bene: che cosa ha fatto la fronda interna del Pd in questo non breve arco di tempo?
Quali risultati ha portato a casa nel suo infinito psicodramma (esco non esco, scindo non scindo, voto non voto, mi dimetto no resto, mugugno ma mi allineo)? Di questo bisognerebbe parlare finalmente, senza tante chiacchiere sui massimi sistemi. E forse si evita con cura di farlo perché il bilancio è semplicemente disastroso. Non solo perché Renzi ha potuto sin qui fare e disfare a proprio piacimento, nonostante non avesse (e a rigore non abbia ancora) i numeri, almeno in Senato.
Non solo perché si è fatto in modo che la confusione aumentasse a dismisura nel paese, e con essa il disgusto per la politica politicante.
Non solo perché si è alimentata la vergogna del trasformismo parlamentare, regalando ogni mese nuove truppe mercenarie al padrone trionfante, secondo le migliori tradizioni del paese.
Ma anche, soprattutto, perché, con uno stillicidio di penultimatum e di voltafaccia e di finte trattative e ancor più finte concessioni strappate al dominus, si è impedito al popolo della sinistra di orientarsi in una battaglia per la difesa della Costituzione e per un minimo di giustizia sociale che è ormai la più drammatica emergenza all’ordine del giorno.
Ora, si dice, qualcosa sta cambiando. Persino il teorico della ditta – sino a ieri l’alleato più zelante del premier – non si fida più (ma lo dice già da un mese) e fa la faccia truce. O l’italicum cambia o saranno sfracelli. Peccato che le cose davvero inaccettabili – il divieto di apparentamento e il premio stratosferico al partito di maggioranza relativa – nessuno le metta sul serio di discussione. Che si continui a invocare «un segno di attenzione» per poter continuare la manfrina. E che si fugga come la peste, invece, qualsiasi iniziativa unitaria volta a mandare a casa un governo che è un serio pericolo per la democrazia.
Perché di questo si tratta e chi si ostina a negarlo non rappresenta un problema né per Renzi né per la sua impresa. I sedicenti oppositori continuano a fraintendere la questione pensando che lo scontro riguardi il loro partito, se non la loro fazione. No. La verità è che siamo al gran finale di una storia più che ventennale di liquidazione della sinistra italiana.
Il generoso tentativo della Fiom di unire le forze sociali colpite dalla crisi e dalle politiche padronali del governo ne è a ben vedere la conferma più netta perché dimostra in modo flagrante che nulla di buono si muove nei paraggi della politica e che il sindacato – la sua componente più avanzata – è al momento l’unica risorsa disponibile per una rinascita.
Ma questa situazione deve cambiare perché non ci sarà coalizione sociale che tenga finché il mondo del lavoro resterà senza una rappresentanza politica. E già si è perso troppo tempo. Questa è la verità obiettiva sottesa allo (e nascosta dallo) psicodramma del Pd. Prima si avrà l’onestà di riconoscerlo e meglio sarà.
Renzi non teme la fronda interna Aperture solo sul nuovo Senato Italicum intoccabile
di Maria Teresa Meli Corriere 4.4.15
ROMA «La situazione si sta stabilizzando»: Matteo Renzi ne è convinto.
In questi ultimi due giorni, prima di partire per le vacanze pasquali a
Pontassieve, il premier ha fatto il punto con i collaboratori e i
ministri più fidati.
«La congiuntura economica — è stato il succo dei suoi ragionamenti — sta
cominciando a essere favorevole. Il centrodestra è diviso, non parliamo
poi della nostra minoranza. I grillini in Parlamento continuano ad
avere dei problemi. Perciò, avanti così fino al 2018».
Il che significa, naturalmente, «tirare dritto» sull’Italicum. Anche
perché i suoi avversari dentro il Pd sembrano sempre meno propensi a
seguire la linea di Bersani, il quale, peraltro, sta meditando di
chiedere di essere sostituito in commissione Affari costituzionali dove
l’8 febbraio approderà la riforma elettorale. E comunque, una parte
considerevole della minoranza sta riflettendo sull’opportunità di fare
dell’Italicum la madre di tutte le battaglie, visti quelli che il
presidente del Consiglio definisce «gli ampi margini» della maggioranza
su questa legge.
I toni, comunque, fatta eccezione per coloro che ormai vengono
considerati dai renziani «già con le valigie in mano», si sono fatti
meno aspri. Dentro Area riformista si moltiplicano le voci di chi
propone una tregua. Persino un bersaniano doc come Davide Zoggia
osserva: «Bisogna abbassare anche da parte nostra i toni». Nella
minoranza si sta facendo pure strada l’idea di puntare più sul ddl
costituzionale che sull’Italicum, pur senza rinunciare alla richiesta di
modificare la legge elettorale.
Al Senato, infatti, i margini sono più risicati e secondo la minoranza
sarebbe più facile ottenere delle modifiche. Ufficialmente, per la
verità, la linea del segretario è di non toccare nemmeno quel
provvedimento, ma c’è chi dice che, alla fine, potrebbero arrivare delle
aperture, ma solo dopo che l’Italicum è passato.
Insomma, la legge elettorale non sembra turbare i sonni del presidente
del Consiglio, il quale è convinto di «portare a casa il risultato»
prima delle regionali.
Anche l’ultimo sondaggio riservato della Swg, che arriva settimanalmente
al Nazareno e sul tavolo di Renzi, parrebbe confortante. Come ha
spiegato il premier ai collaboratori non sembra «registrare nessun
effetto negativo» degli ultimi scandali giudiziari. Secondo quei dati il
Partito democratico è in crescita rispetto alle ultime settimane.
Mentre i giudizi sull’efficacia dell’esecutivo sono immutati e lo stesso
dicasi della fiducia degli intervistati nel governo (che è al 37 per
cento).
Stando così le cose, il premier potrebbe procedere alla nomina del
sostituto di Graziano Delrio già nel Consiglio dei ministri di martedì
prossimo. Usando, come nello scopone, la tecnica da lui più volte
utilizzata dello «spariglio», Renzi ha ristretto la scelta del futuro
sottosegretario alla presidenza del Consiglio a tre nomi che nulla hanno
a che vedere con il mondo a lui più vicino. Non è una mossa casuale la
sua. Se prima il premier e i fedelissimi formavano una sorta di truppa
d’assalto che doveva combattere praticamente contro tutti (i grandi
burocrati, innanzitutto) per impratichirsi dei meccanismi del governo,
adesso che, per dirla con Renzi, «la situazione si sta stabilizzando»,
le cose sono cambiate.
Il presidente del Consiglio ora può strutturare la squadra con maggiore
tranquillità. Ecco perché i nomi di Valeria Fedeli, ex Cgil, vice
presidente del Senato; Claudio De Vincenti, vice ministro allo Sviluppo
Economico, che in passato non aveva fatto mistero delle sue simpatie
bersaniane; Ettore Rosato, il vice vicario di Speranza, franceschiniano,
che per Renzi ha svolto un grandissimo lavoro nel gruppo.
Quanto alla scelta del segretario generale di Palazzo Chigi, quella
sembra già cosa fatta. Sarà Paolo Aquilanti, attuale capo dipartimento
del ministero delle Riforme, gran conoscitore di tutti i meccanismi
legislativi, proveniente anche lui, come Fedeli e De Vincenti, da
un’esperienza di sinistra. Più spariglio di così..
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