http://video.repubblica.it/edizione/bari/d-alema-lite-col-cronista-dopo-i-giornali-denuncio-anche-lei/196571/195587?ref=HREC1-10
La malapasqua di Bersani. Orfini attacca, i suoi pureItalicum, l’ex leader a Renzi: vuoi dividere il partito. Parte la contraerea del premier Nel Pd siamo al tutti contro tutti. In attesa del voto dell'aula, e cioè dell'ora della verità, almeno per la minoranzadi Daniela Preziosi il manifesto 2.4.15
Il
presidente del Pd replica alle parole dell'ex segretario in tema di
riforma elettorale. Gli risponde anche Giachetti: "Hai le idee confuse".
Minoranza dem divisa
Repubblica 2.4.15
Una deriva che rischia di pesare sulle Regionali Il timore inconfessato dei vertici Pd è di perdere Liguria e Marche
di Massimo Franco Corriere 2.4.15
I veleni che continuano a scorrere dentro il Pd, e non solo, non saranno
smaltiti presto. L’irrigidimento delle minoranze nei confronti di
Matteo Renzi non sembra destinato a produrre uno sbocco: anche perché
gli obiettivi degli avversari del premier appaiono eterogenei. C’è chi
tenta un aggancio con il vertice del partito, proponendo uno scambio tra
il «sì» alla riforma elettorale e una modifica della riforma del
Senato: anche perché si tratta di un mutamento istituzionale che
sottovoce molti definiscono pasticciato. Ma nessuno è in grado di capire
se Palazzo Chigi accetterà una mediazione o andrà avanti come sempre.
Il premier è convinto che l’ Italicum sarà approvato prima dell’estate,
senza o con la richiesta di fiducia; che i «no» alla fine saranno pochi;
e che a quel punto la possibilità di minacciare il voto anticipato sarà
ancora più concreta. Le incognite sono altre, e tutte esterne: per
questo impensieriscono Renzi. Riguardano un andamento altalenante
dell’economia, rischioso per un governo che esalta ogni piccolo segnale
di ripresa; e inchieste giudiziarie nelle quali rimangono impigliati
dovunque dirigenti del Pd.
Sta emergendo una tentazione preoccupante: quella di agganciare la
magistratura per mettere in mora gli avversari. È come se la fine del
dialogo politico spingesse a estendere il conflitto sul piano
giudiziario. È istruttivo quanto è avvenuto ieri. Il vicepresidente
della Camera, Luigi Di Maio, del Movimento 5 Stelle, ha annunciato per
oggi un incontro a Napoli col magistrato che indaga sullo scandalo delle
tangenti a Ischia: quello che ha portato alle dimissioni del sindaco.
Nel pomeriggio, al Senato, è avvenuto un episodio a parti invertite. Il
presidente, Pietro Grasso, anche su pressione dei capigruppo ha fermato
una denuncia di alcuni esponenti della maggioranza contro i senatori del
M5S, accusati di avere bloccato i lavori. «Ho scritto al procuratore
della Repubblica per affermare il difetto assoluto di giurisdizione
della magistratura ordinaria sui comportamenti dei senatori
nell’esercizio delle loro funzioni», ha spiegato, evitando un altro
focolaio di tensioni. Ma i rapporti sono quasi fuori controllo. Lo
scontro in Parlamento porta i partiti a mettere in mora gli avversari
con ogni mezzo.
Il problema è se e come questa deriva peserà sulle regionali di fine
maggio: anche se proprio ieri il Senato ha approvato, seppure con numeri
risicati, la legge anticorruzione. È chiaro che un risultato elettorale
in chiaroscuro accentuerebbe lo scontro; e porrebbe nuovi ostacoli alle
riforme. Il timore inconfessato dei vertici del Pd è di perdere Liguria
e Marche, roccaforti storiche del centrosinistra. Per questo, in modo
un po’ prematuro, si ricomincia a parlare di voto anticipato nel 2016.
In realtà, nessuno è in grado di prevedere che cosa avverrà di qui
all’estate.
Guerini: “Unità possibile, è Pierluigi che la ostacola”
di Giovanna Casadio Repubblica 2.4.15
“La parola scissione non ha cittadinanza tra di noi, ma la tenuta del Pd deve essere un impegno di tutti
Non si può spostare l’asticella sempre più in là e non chiudere mai ma i numeri per l’Italicum ci sono”
ROMA «Non si può spostare l’asticella sempre più in là così da non
arrivare a un punto conclusivo. Sorge il sospetto di una certa
strumentalità...». Il vice segretario dem, Lorenzo Guerini respinge le
accuse di Pier Luigi Bersani e della minoranza del partito.
Guerini, ci sono o no i numeri per approvare definitivamente l’Italicum?
«I numeri ci sono. Lo abbiamo dimostrato nei passaggi parlamentari
precedenti quando tutti scommettevano che non ce l’avremmo fatta. Invece
i fatti hanno dimostrato il contrario e il Pd ha tenuto, ha fatto il
proprio dovere. Lunedì scorso abbiamo affrontato una discussione seria
nella direzione del partito, ed è stata una tappa del confronto che si é
sviluppato nell’ultimo anno. Il responso è stato chiaro: il lungo
percorso dell’Italicum va chiuso».
In direzione Renzi ha sbattuto la porta in faccia ai dissidenti.
«In direzione il segretario ha svolto una relazione articolata nella
quale ha riassunto tutto il percorso compiuto eil dibattito che lo ha
accompagnato. Il confronto in questi mesi c’è stato ed è stato vero.
Sono state accolte molte questioni poste dalla minoranza. Il testo ora
alla Camera è diverso dall’Italicum originario».
Bersani ha detto che questo Italicum non lo voterà, che potrebbe
addirittura farsi sostituire in commissione Affari costituzionali. Come
si evita lo strappo?
«Non condivido le valutazioni di Bersani e neppure il ragionamento
politico che sta dietro le sue parole: l’unità del Pd deve essere
impegno di tutti ».
Ma soprattutto è compito di Renzi?
«Non solo. È compito del segretario ma anche di tutto il Pd. L’unità è
stata raggiunta per l’elezione del presidente della Repubblica e infatti
il Pd è riuscito dove aveva fallito nel 2013. Sulla legge elettorale
l’unità si costruisce avendo memoria di tutto il percorso che c’è stato
fin qui, non spostando sempre l’asticella così da non arrivare a un
punto conclusivo ».
Bersani sbaglia quindi?
«Non capisco Pier Luigi, mi pare che stia ponendo ostacoli lungo una
strada di possibili convergenze dentro il gruppo parlamentare. Ognuno di
noi ha la sua legge elettorale ideale, ma molti deputati, anche della
minoranza, considerano il testo in discussione condivisibile nel suo
complesso e nei suoi obiettivi di fondo: certezza del vincitore,
governabilità, minore frammentazione del sistema».
Sta dicendo che l’ex segretario è piuttosto solo?
«Il nostro lavoro non vuole isolare nessuno, ma costruire consensi ampi dentro il Pd e in Parlamento».
La sinistra dem minaccia la scissione?
«Il termine scissione non deve avere cittadinanza nel Pd. Non è neppure
un sentimento dei nostri militanti e elettori che ci chiedono di essere
uniti e all’altezza della responsabilità che ci hanno affidato».
Renzi metterà la fiducia?
«È un tema prematuro. Nessuno chiede fedeltà a un leader, ma lealtà
verso gli elettori nei cui confronti abbiamo preso tutti un impegno
solenne».
Ma ci sono margini per una trattativa?
«Io credo di no. Siamo arrivati alla stretta decisiva di un percorso
fatto insieme, ascoltandoci e accogliendo le proposte di miglioramento
della legge che ci hanno portato fin qui. Ulteriori cambiamenti
significherebbero allungare ancora i tempi allontanandoci
dall’obiettivo, che oggi è alla nostra portata. L’Italicum funziona ».
I dissensi li considera strumentali?
«Non è che se si cambiano alcuni aspetti, una legge elettorale dipinta
come un attentato alla democrazia, diventa votabile ». Sorge il sospetto
di una certa strumentalità. Ma se ciascuno di noi si soffermasse a
riflettere con oggettività sul cammino percorso e sul lavoro svolto, non
farebbe fatica a riconoscere le ragioni per una convergenza».
Il governo ha paura di un inciampo al Senato?
«No».
Il Pd di Renzi perderà pezzi?
«Assolutamente no. E non credo sia nelle intenzioni di nessuno. L’Italia
ci chiede di cambiare e c’è bisogno dell’impegno, delle idee e
dell’esperienza di tutti, di coloro che in questi anni lo hanno voluto e
anche di quelli che ora ci guardano con attenzione e speranza».
Le nuove caselle dell’esecutivo prove tecniche di partito unico
Si prefigura uno scenario senza coalizioni e il premier forma il governo senza condizionamentidi Stefano Folli Repubblica 2.4.15
INSEGNA qualcosa il mini-rimpasto che si conclude con il ministero delle
Infrastrutture (ex Lupi) affidato a Delrio e l’ingresso nell’esecutivo
di Dorina Bianchi, Ncd, a cui dovrebbe andare la responsabilità degli
Affari Regionali. È una piccola finestra aperta sul futuro, quando i
governi saranno «monocolori», ossia espressione del partito vincitore
delle elezioni e come tale beneficiario del premio di maggioranza. Si
tratta di un futuro abbastanza vicino, se come tutto lascia prevedere
l’Italicum sarà legge della Repubblica fra qualche settimana. Certo, si
dovrà attendere l’inizio della nuova legislatura, ma chissà se l’attuale
Parlamento durerà realmente fino alla sua scadenza naturale, nel 2018.
In ogni caso il piccolo rimpasto determinato dalle dimissioni di Lupi
costituisce un’interessante anteprima del nuovo stile politico
incoraggiato, anzi reso necessario dalla riforma elettorale.
Il partito di Alfano ha dovuto prima rinunciare a conservare il
ministero delle Infrastrutture. In secondo luogo ha dovuto accettare che
sulla poltrona che fu di Lupi sieda non solo un esponente del Pd, ma
più propriamente una figura di prestigio del cosiddetto «partito di
Renzi». Delrio è persona capace e stimata da tutti, ma è significativo
che il presidente del Consiglio abbia prima tolto il ministero ai
centristi, di fatto ridimensionandoli, poi abbia evitato di darlo alla
minoranza del suo partito. Qualcuno pensava infatti che questa sarebbe
stata la scelta più appropriata: usare un importante dicastero per
spaccare il fronte del dissenso interno, isolando la componente più dura
e intransigente.
In realtà il premier aveva capito prima di altri che la sinistra
bersaniana è già di suo lacerata e non rappresenta un vero pericolo. Lo
si vede anche nel modo — quasi un parricidio — con cui è stata accolta
all’interno della corrente l’intervista di Bersani a «Repubblica». In
sostanza Renzi non ha bisogno di tutelarsi pagando alla minoranza un
prezzo alto in termini di potere, quale sarebbe il ministero di Lupi. La
scelta è avvenuta nel recinto del «partito del premier», come è nelle
prerogative di Palazzo Chigi: ma ciò non sarebbe accaduto se la
minoranza del Pd, o a maggior ragione il partito centrista di Alfano,
fosse stato in grado di condizionare il presidente dl Consiglio.
Ne deriva che l’Ncd deve accontentarsi del ministero degli Affari
Regionali, oltretutto affidato a Dorina Bianchi: una candidata
sostenuta, per non dire imposta, da Renzi che aveva chiesto al partito
alleato il nome di una donna, così da rispettare la parità di genere. Si
tratta di un caso forse senza precedenti: un premier che interviene con
successo anche sul sesso del ministro, orientando la scelta del partner
di governo.
Si capisce allora che il centrista Quagliariello affermi: «Noi non siamo
al governo per riempire delle caselle». L’intera vicenda cominciata con
le disavventure di Lupi e chiusa con l’esito del rimpastino dimostra
infatti che il peso politico del partito centrista si va riducendo in
modo drastico. E Renzi non è certo il tipo da fare sconti o chiudere un
occhio. Lo stesso vale, come abbiamo visto, per la minoranza del Pd. Se
l’esecutivo oggi è ancora una coalizione, lo è in una forma asimmetrica e
sempre più squilibrata a vantaggio del presidente del Consiglio. Con
ciò prefigurando lo scenario della prossima legislatura, quando le
coalizioni saranno solo un ricordo e il premier eletto potrà comporre il
mosaico del governo senza residui condizionamenti.
Non siamo ancora a quel punto, s’intende, e infatti Renzi deve mantenere
una certa cautela. Nonostante la debolezza dei suoi interlocutori, un
incidente di percorso è sempre possibile. E poi resta da sistemare la
casella del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il delicato
ruolo che era di Delrio. Ed è più complicato che riassettare i
ministeri, dal momento che investe gli equilibri all’interno del mondo
«renziano ». La nuova dimensione della dialettica politica.
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