giovedì 2 aprile 2015

La triste fine di Spezzaferro e del ceto politico ex-Pci arriva con 20 anni di ritardo. Schadenfreude a manetta










http://video.repubblica.it/edizione/bari/d-alema-lite-col-cronista-dopo-i-giornali-denuncio-anche-lei/196571/195587?ref=HREC1-10

La malapasqua di Bersani. Orfini attacca, i suoi pureItalicum, l’ex leader a Renzi: vuoi dividere il partito. Parte la contraerea del premier Nel Pd siamo al tutti contro tutti. In attesa del voto dell'aula, e cioè dell'ora della verità, almeno per la minoranzadi Daniela Preziosi il manifesto 2.4.15



Il presidente del Pd replica alle parole dell'ex segretario in tema di riforma elettorale. Gli risponde anche Giachetti: "Hai le idee confuse". Minoranza dem divisa

Repubblica 2.4.15

Una deriva che rischia di pesare sulle Regionali Il timore inconfessato dei vertici Pd è di perdere Liguria e Marche

di Massimo Franco Corriere 2.4.15
I veleni che continuano a scorrere dentro il Pd, e non solo, non saranno smaltiti presto. L’irrigidimento delle minoranze nei confronti di Matteo Renzi non sembra destinato a produrre uno sbocco: anche perché gli obiettivi degli avversari del premier appaiono eterogenei. C’è chi tenta un aggancio con il vertice del partito, proponendo uno scambio tra il «sì» alla riforma elettorale e una modifica della riforma del Senato: anche perché si tratta di un mutamento istituzionale che sottovoce molti definiscono pasticciato. Ma nessuno è in grado di capire se Palazzo Chigi accetterà una mediazione o andrà avanti come sempre.
Il premier è convinto che l’ Italicum sarà approvato prima dell’estate, senza o con la richiesta di fiducia; che i «no» alla fine saranno pochi; e che a quel punto la possibilità di minacciare il voto anticipato sarà ancora più concreta. Le incognite sono altre, e tutte esterne: per questo impensieriscono Renzi. Riguardano un andamento altalenante dell’economia, rischioso per un governo che esalta ogni piccolo segnale di ripresa; e inchieste giudiziarie nelle quali rimangono impigliati dovunque dirigenti del Pd.

Sta emergendo una tentazione preoccupante: quella di agganciare la magistratura per mettere in mora gli avversari. È come se la fine del dialogo politico spingesse a estendere il conflitto sul piano giudiziario. È istruttivo quanto è avvenuto ieri. Il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, del Movimento 5 Stelle, ha annunciato per oggi un incontro a Napoli col magistrato che indaga sullo scandalo delle tangenti a Ischia: quello che ha portato alle dimissioni del sindaco.

Nel pomeriggio, al Senato, è avvenuto un episodio a parti invertite. Il presidente, Pietro Grasso, anche su pressione dei capigruppo ha fermato una denuncia di alcuni esponenti della maggioranza contro i senatori del M5S, accusati di avere bloccato i lavori. «Ho scritto al procuratore della Repubblica per affermare il difetto assoluto di giurisdizione della magistratura ordinaria sui comportamenti dei senatori nell’esercizio delle loro funzioni», ha spiegato, evitando un altro focolaio di tensioni. Ma i rapporti sono quasi fuori controllo. Lo scontro in Parlamento porta i partiti a mettere in mora gli avversari con ogni mezzo.
Il problema è se e come questa deriva peserà sulle regionali di fine maggio: anche se proprio ieri il Senato ha approvato, seppure con numeri risicati, la legge anticorruzione. È chiaro che un risultato elettorale in chiaroscuro accentuerebbe lo scontro; e porrebbe nuovi ostacoli alle riforme. Il timore inconfessato dei vertici del Pd è di perdere Liguria e Marche, roccaforti storiche del centrosinistra. Per questo, in modo un po’ prematuro, si ricomincia a parlare di voto anticipato nel 2016. In realtà, nessuno è in grado di prevedere che cosa avverrà di qui all’estate. 


Guerini: “Unità possibile, è Pierluigi che la ostacola”
di Giovanna Casadio Repubblica 2.4.15
“La parola scissione non ha cittadinanza tra di noi, ma la tenuta del Pd deve essere un impegno di tutti

Non si può spostare l’asticella sempre più in là e non chiudere mai ma i numeri per l’Italicum ci sono”

ROMA «Non si può spostare l’asticella sempre più in là così da non arrivare a un punto conclusivo. Sorge il sospetto di una certa strumentalità...». Il vice segretario dem, Lorenzo Guerini respinge le accuse di Pier Luigi Bersani e della minoranza del partito.
Guerini, ci sono o no i numeri per approvare definitivamente l’Italicum?
«I numeri ci sono. Lo abbiamo dimostrato nei passaggi parlamentari precedenti quando tutti scommettevano che non ce l’avremmo fatta. Invece i fatti hanno dimostrato il contrario e il Pd ha tenuto, ha fatto il proprio dovere. Lunedì scorso abbiamo affrontato una discussione seria nella direzione del partito, ed è stata una tappa del confronto che si é sviluppato nell’ultimo anno. Il responso è stato chiaro: il lungo percorso dell’Italicum va chiuso».
In direzione Renzi ha sbattuto la porta in faccia ai dissidenti.
«In direzione il segretario ha svolto una relazione articolata nella quale ha riassunto tutto il percorso compiuto eil dibattito che lo ha accompagnato. Il confronto in questi mesi c’è stato ed è stato vero. Sono state accolte molte questioni poste dalla minoranza. Il testo ora alla Camera è diverso dall’Italicum originario».
Bersani ha detto che questo Italicum non lo voterà, che potrebbe addirittura farsi sostituire in commissione Affari costituzionali. Come si evita lo strappo?
«Non condivido le valutazioni di Bersani e neppure il ragionamento politico che sta dietro le sue parole: l’unità del Pd deve essere impegno di tutti ».
Ma soprattutto è compito di Renzi?
«Non solo. È compito del segretario ma anche di tutto il Pd. L’unità è stata raggiunta per l’elezione del presidente della Repubblica e infatti il Pd è riuscito dove aveva fallito nel 2013. Sulla legge elettorale l’unità si costruisce avendo memoria di tutto il percorso che c’è stato fin qui, non spostando sempre l’asticella così da non arrivare a un punto conclusivo ».
Bersani sbaglia quindi?
«Non capisco Pier Luigi, mi pare che stia ponendo ostacoli lungo una strada di possibili convergenze dentro il gruppo parlamentare. Ognuno di noi ha la sua legge elettorale ideale, ma molti deputati, anche della minoranza, considerano il testo in discussione condivisibile nel suo complesso e nei suoi obiettivi di fondo: certezza del vincitore, governabilità, minore frammentazione del sistema».
Sta dicendo che l’ex segretario è piuttosto solo?
«Il nostro lavoro non vuole isolare nessuno, ma costruire consensi ampi dentro il Pd e in Parlamento».
La sinistra dem minaccia la scissione?
«Il termine scissione non deve avere cittadinanza nel Pd. Non è neppure un sentimento dei nostri militanti e elettori che ci chiedono di essere uniti e all’altezza della responsabilità che ci hanno affidato».
Renzi metterà la fiducia?
«È un tema prematuro. Nessuno chiede fedeltà a un leader, ma lealtà verso gli elettori nei cui confronti abbiamo preso tutti un impegno solenne».
Ma ci sono margini per una trattativa?
«Io credo di no. Siamo arrivati alla stretta decisiva di un percorso fatto insieme, ascoltandoci e accogliendo le proposte di miglioramento della legge che ci hanno portato fin qui. Ulteriori cambiamenti significherebbero allungare ancora i tempi allontanandoci dall’obiettivo, che oggi è alla nostra portata. L’Italicum funziona ».
I dissensi li considera strumentali?
«Non è che se si cambiano alcuni aspetti, una legge elettorale dipinta come un attentato alla democrazia, diventa votabile ». Sorge il sospetto di una certa strumentalità. Ma se ciascuno di noi si soffermasse a riflettere con oggettività sul cammino percorso e sul lavoro svolto, non farebbe fatica a riconoscere le ragioni per una convergenza».
Il governo ha paura di un inciampo al Senato?
«No».
Il Pd di Renzi perderà pezzi?
«Assolutamente no. E non credo sia nelle intenzioni di nessuno. L’Italia ci chiede di cambiare e c’è bisogno dell’impegno, delle idee e dell’esperienza di tutti, di coloro che in questi anni lo hanno voluto e anche di quelli che ora ci guardano con attenzione e speranza».

Le nuove caselle dell’esecutivo prove tecniche di partito unico
Si prefigura uno scenario senza coalizioni e il premier forma il governo senza condizionamentidi Stefano Folli Repubblica 2.4.15
INSEGNA qualcosa il mini-rimpasto che si conclude con il ministero delle Infrastrutture (ex Lupi) affidato a Delrio e l’ingresso nell’esecutivo di Dorina Bianchi, Ncd, a cui dovrebbe andare la responsabilità degli Affari Regionali. È una piccola finestra aperta sul futuro, quando i governi saranno «monocolori», ossia espressione del partito vincitore delle elezioni e come tale beneficiario del premio di maggioranza. Si tratta di un futuro abbastanza vicino, se come tutto lascia prevedere l’Italicum sarà legge della Repubblica fra qualche settimana. Certo, si dovrà attendere l’inizio della nuova legislatura, ma chissà se l’attuale Parlamento durerà realmente fino alla sua scadenza naturale, nel 2018. In ogni caso il piccolo rimpasto determinato dalle dimissioni di Lupi costituisce un’interessante anteprima del nuovo stile politico incoraggiato, anzi reso necessario dalla riforma elettorale.
Il partito di Alfano ha dovuto prima rinunciare a conservare il ministero delle Infrastrutture. In secondo luogo ha dovuto accettare che sulla poltrona che fu di Lupi sieda non solo un esponente del Pd, ma più propriamente una figura di prestigio del cosiddetto «partito di Renzi». Delrio è persona capace e stimata da tutti, ma è significativo che il presidente del Consiglio abbia prima tolto il ministero ai centristi, di fatto ridimensionandoli, poi abbia evitato di darlo alla minoranza del suo partito. Qualcuno pensava infatti che questa sarebbe stata la scelta più appropriata: usare un importante dicastero per spaccare il fronte del dissenso interno, isolando la componente più dura e intransigente.
In realtà il premier aveva capito prima di altri che la sinistra bersaniana è già di suo lacerata e non rappresenta un vero pericolo. Lo si vede anche nel modo — quasi un parricidio — con cui è stata accolta all’interno della corrente l’intervista di Bersani a «Repubblica». In sostanza Renzi non ha bisogno di tutelarsi pagando alla minoranza un prezzo alto in termini di potere, quale sarebbe il ministero di Lupi. La scelta è avvenuta nel recinto del «partito del premier», come è nelle prerogative di Palazzo Chigi: ma ciò non sarebbe accaduto se la minoranza del Pd, o a maggior ragione il partito centrista di Alfano, fosse stato in grado di condizionare il presidente dl Consiglio.
Ne deriva che l’Ncd deve accontentarsi del ministero degli Affari Regionali, oltretutto affidato a Dorina Bianchi: una candidata sostenuta, per non dire imposta, da Renzi che aveva chiesto al partito alleato il nome di una donna, così da rispettare la parità di genere. Si tratta di un caso forse senza precedenti: un premier che interviene con successo anche sul sesso del ministro, orientando la scelta del partner di governo.
Si capisce allora che il centrista Quagliariello affermi: «Noi non siamo al governo per riempire delle caselle». L’intera vicenda cominciata con le disavventure di Lupi e chiusa con l’esito del rimpastino dimostra infatti che il peso politico del partito centrista si va riducendo in modo drastico. E Renzi non è certo il tipo da fare sconti o chiudere un occhio. Lo stesso vale, come abbiamo visto, per la minoranza del Pd. Se l’esecutivo oggi è ancora una coalizione, lo è in una forma asimmetrica e sempre più squilibrata a vantaggio del presidente del Consiglio. Con ciò prefigurando lo scenario della prossima legislatura, quando le coalizioni saranno solo un ricordo e il premier eletto potrà comporre il mosaico del governo senza residui condizionamenti.
Non siamo ancora a quel punto, s’intende, e infatti Renzi deve mantenere una certa cautela. Nonostante la debolezza dei suoi interlocutori, un incidente di percorso è sempre possibile. E poi resta da sistemare la casella del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il delicato ruolo che era di Delrio. Ed è più complicato che riassettare i ministeri, dal momento che investe gli equilibri all’interno del mondo «renziano ». La nuova dimensione della dialettica politica.

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