lunedì 13 aprile 2015

L'offensiva Nato in Ucraina: il libro di Di Rienzo


Il conflitto russo-ucrainoEugenio Di Rienzo: Il conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo (dis)ordine mondiale , Rubbettino, Soveria Mannelli, pagg. 106, € 10,00

Risvolto
Il recente colpo di Stato di Kiev è stato l’ultimo atto di una strategia messa in atto per spingere l’Ucraina nella Nato e quindi per preparare il terreno alla definitiva disintegrazione della Russia come Grande Potenza. Dopo aver assistito a questo tentativo di minare le basi geostrategiche della sicurezza russa, Putin è tornato con maggior forza a promuovere un’azione in grado di ricostituire la sfera d’influenza di Mosca nelle regioni dell’ex Unione Sovietica e di dimostrare alla comunità internazionale che l’«Orso russo» possiede ancora artigli forti che gli consentono di tenere a bada i suoi avversari. Sfidando la Russia nel suo cortile di casa l’Occidente ha dato il via a una crisi globale destinata a minare per i prossimi anni la possibilità di costruire un pacifico ordine mondiale.

Conflitto russo-ucraino E se Putin avesse un po’ di ragione?
di Giuseppe Bedeschi Il Sole Domenica 12.4.15
I giornali e i telegiornali ci inondano ogni giorno di tragiche notizie sul conflitto russo-ucraino. È difficile, per il lettore di media cultura, orientarsi nel ginepraio delle dichiarazioni e delle accuse dell’una e dell’altra parte, nonché dei commenti, spesso contraddittori, di giornalisti e di politologi. È dunque benvenuto il saggio di uno storico di vaglia, Eugenio Di Rienzo, che compie un serio sforzo per mettere a nudo le radici del conflitto tra Kiev e Mosca.

Di Rienzo ripercorre in primo luogo, sinteticamente, le tappe fondamentali della storia ucraina dal divorzio dalla Russia medievale, alla dominazione austriaca e zarista, al risveglio del nazionalismo ottocentesco, al primo e al secondo conflitto mondiale, alla Guerra fredda, all’età post-sovietica, al risveglio imperiale della Federazione russa.
Secondo l’autore, il brusco cambio di regime avvenuto a Kiev è stato considerato dal Cremlino come l’ultimo atto di una strategia adottata da Stati Uniti e Unione Europea per spingere l’Ucraina nella Nato, e quindi per preparare il terreno alla disintegrazione della Russia come Grande Potenza: non si dimentichi, infatti, che l’Ucraina è per grandezza il secondo Stato d’Europa, e che con i suoi 40mila km di gasdotti ha una grandissima importanza economico-strategica. Dopo aver assistito a questo tentativo di minare le basi della sicurezza russa, dice l’autore, Putin è tornato con maggior forza a promuovere un’azione in grado di dimostrare alla comunità internazionale che l’«orso russo» possiede ancora artigli affilati che gli consentono di tenere a bada e di ricattare armi alla mano il debole governo ucraino. Ne è nata una guerra con migliaia di morti, tra militari e civili, nella quale, da una parte e dall’altra, la figura del combattente regolare è stata largamente sostituita da quello irregolare (guerrigliero, terrorista, ecc.).
Il lavoro di Di Rienzo – che è connotato da una non celata simpatia per la Russia, da un pronunciato euroscetticismo e da un giudizio assai critico sulla politica Usa – può certo non essere condiviso. E tuttavia non si può non ricordare che le sue tesi non si distaccano di molto da quelle espresse da Kissinger nel recente saggio World Order (Penguin Press 2014), e da quelle formulate dalla rivista statunitense «Foreign Affairs» (difficilmente sospettabile di nutrire simpatie per il regime di Putin), secondo cui la reazione russa alla sfida dell’Occidente era »giustificata e ampiamente prevedibile». Con quella sfida, dice a sua volta Di Rienzo, il Dipartimento di Stato ha dato il via a una crisi globale destinata a minare per i prossimi anni la possibilità di costruire un pacifico ordine mondiale. Per la prima volta dopo il 1939, l’Europa si trova sull’orlo dell’abisso di un conflitto che potrebbe svilupparsi all’interno dei suoi confini, mentre il mondo arabo dal Golfo Persico al Levante fino all’Estremo Oriente è in preda alla deriva islamista. 


Un estratto

Sconfinamento ucraino 
L’ideologia del movimento di Bandera, proclamato “eroe nazionale dell’Ucraina” dal presidente filoccidentale Viktor Andrijovyč Juščenko nel gennaio 2010, tra le proteste di Mosca, degli ucraini russofoni, delle organizzazioni internazionali ebraiche, dell’opinione pubblica mondiale, rivive, oggi, nei gruppi di estrema destra ultranazionalisti, xenofobi, antisemiti sorti a Kiev e nelle regioni occidentali: l’Unione Panucraina Svoboda, Pravyj Sektor, Spilna Prava, Samooborona Majdanu e il risorto UPA. Questi “partitimilizia”, dotati di una raffinata organizzazione paramilitare e profondamente pervasi da simpatie neonaziste, hanno costituito il braccio armato delle manifestazioni di Majdàn Nezaležnosti (del tutto dissimili da quelle pacifiche della “Rivoluzione arancione” del 2004), assicurando la forza d’urto necessaria ad attuare il colpo di mano con il quale Janukovyč è stato defenestrato. Insieme con essi, un ruolo decisivo per promuovere e gestire il cambio di regime è stato giocato dall’internazionale neofascista, composta da volontari bielorussi e polacchi, affiancata da alcune associazioni, come l’International Renaissance Foundation (attiva in Ucraina dal 1990), sostenute dall’imprenditore ungherese nazionalizzato statunitense George Soros, le cui disinvolte pratiche finanziarie si legano a un feroce sentimento antirusso, e infine da alcune organizzazioni non governative sospettate di agire in stretto contatto con l’amministrazione statunitense. 
Privata della sua egemonia sull’Ucraina, la Federazione Russa ha alzato la voce, digrignato i denti, mostrato imuscoli e, infine, è passata dalle parole ai fatti. Mosca ha posto in stato d’allerta il suo dispositivo militare sulla frontiera ucraina e ha inviato reparti scelti e colonne di blindati per rafforzare il contingente stanziato nella base di Sebastopoli. Il grande porto sul Mar Nero è divenuto il centro propulsivo della resistenza contro il nuovo corso di Kiev, da dove la popolazione russofona ha minacciato di arrivare alla secessione della Crimea dall’Ucraina e di attuarne il ricongiungimento con la “Grande Madre Russia”. La minaccia è divenuta realtà, l’11marzo, quando la Crimea si è autoproclamata repubblica autonoma e poi parte integrante della Federazione Russa con gli schiaccianti risultati del plebiscito del 16 marzo (97 per cento di voti favorevoli), che Mosca ha immediatamente ratificato.
Solo trincerandosi dietro una muraglia di folle ottimismo e di grande insensatezza, le cancellerie occidentali potevano d’altra parte ipotizzare una supina acquiescenza del Cremlino alle loro interessate attenzioni su Kiev, che intellettuali russi di diversissima estrazione (l’occidentalista e liberale Petr Struve, il grande glottologo e ideologo della destra eurasista Nikolaj Trubeckoj, Michail Bulgakov e Aleksandr Solženicyn) hanno considerato il “fonte battesimale della civiltà russa”, identificando l’”indipendenza ucraina” con lo “scisma della Nazione russa” e l’”ucrainofilia” con una “variante fratricida della russofobia”. A maggior ragione identico discorso deve esser fatto per la Crimea. La penisola del Mar Nero, che appartiene alla Russia dal gennaio 1792, in conformità al Trattato di Iaşi siglato dall’Impero zarista e da quello ottomano, fu graziosamente e sconsideratamente devoluta da Nikita Chruščev alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina contro la volonta` della maggior parte dei suoi abitanti nel febbraio 1954, in occasione del trecentesimo anniversario del Trattato di Perejaslav (1654). Accordo con il quale i cosacchi di Zaporož’e, minacciati dall’avanzata dell’integralismo cattolico di Varsavia, sancirono la scissione dei territori ucraini dall’Unione polacco-lituana e decisero di unirsi alla Russia ortodossa dello Zar Alessio I. 
Con il ritorno di Sebastopoli sotto il diretto dominio di Mosca si è per ora evitato un conflitto dispiegato tra Russia e Ucraina per la Crimea (che i sovietici difesero strenuamente tra 1941 e 1942 contro le truppe dell’Asse) simile alla “guerra lampo” russo-georgiana del 2008 per la supremazia sull’Ossezia del Sud e l’Abcasia. Se il recursus ad arma interstatale non ha avuto luogo, la “primavera ucraina” del 2014 si è però trasformata in una guerra civile aperta e guerreggiata. Si è così riprodotto lo stesso scenario provocato dalle “rivoluzioni arabe” del 2010-11, meglio definibili come Washington “Soft” Revolutions, con le quali l’amministrazione Obama decise di portare a compimento il Greater Middle East Project lanciato in coincidenza con la War on Terror scatenata da George Walker Bush nel 2001. 
La fisionomia politica dell’Ucraina costituisce il teatro ideale e naturale per questa nuova sale de guerre. Cosa è, infatti, l’Ucraina se non “una terra di frontiera”, priva di confini storici, nata dall’Unione di Lublino, come frattura della Rus’medievale e “lacerazione della nazionalità russa”, se non “un vuoto geopolitico, poco più di un intermezzo territoriale, la cui assenza di unità effettiva ha risucchiato le Potenze contigue in due guerre mondiali”, se non “una guerreggiata area di confine” divenuta lo scenario naturale delle bloodlands del XX secolo, se non, infine, l’esatto contrario di uno Stato nazionale nel senso classico del termine, dove neppure “la maggioranza etnica titolare ucraina costituisce una Nazione unificata, omogenea e coerente”? 
In questa regione che usurpa il titolo di Nazione, più simile a un’”espressione geografica” che a una comunità di lingua, di cultura, di tradizioni e interessi economici condivisi, è ormai in atto un conflitto intestino, aggravato da alcuni fattori assolutamente peculiari. L’”irriducibile polarizzazione culturale tra civiltà occidentale e ortodossa”, su cui attirò l’attenzione già Samuel Huntington nel 1996. La forte frammentazione etnica di un Paese che comprende russi, bielorussi, moldavi, bulgari, romeni, polacchi, ma anche armeni, georgiani, azerbaigiani, greci, tatari. La divisione religiosa che comporta l’esistenza di minoranze ebraiche e musulmane, greco-cattolici, tre Chiese ortodosse, di cui due “nazionali” e una legata al Patriarcato di Mosca. Il fatto che l’area russofona dell’Ucraina è territorialmente separata dall’area di “lingua ucraina” da una vasta zona centrale mista dove le ostilità sono ineluttabilmente portate ad acuirsi. 
Questo conflitto è destinato a produrre, a parere di uno dei maggiori analisti statunitensi dell’Europa orientale (Jack Foust Matlock), non una divisione netta tra regioni russofile e russofobe (come accadde per la Cecoslovacchia, nel gennaio 1993), segnata da un presunto “confine naturale” costituito dal Dnepr, ma piuttosto una frantumazione del Paese (simile alla disintegrazione dell’ex Jugoslavia) in quattro tronconi contrapposti, che farebbe emergere drammaticamente il carattere non nazionale dello Stato ucraino: 1) l’Ucraina occidentale di Leopoli, fino al 1939 appartenente alla Polonia, poi ceduta all’URSS nel 1945, e le regioni di Ivano- Frankivs’k e di Ternopil gravitanti culturalmente verso Varsavia; 2) l’Ucraina di Kiev; 3) la zona orientale a grande maggioranza orientata a rinsaldare i legami con Mosca, comprensiva dell’importantissima area carbonifera e industriale di Donetsk, della provincia di Dnipropetrovs’k, dell’Odessa oblast’e del Mykolaivs’ka oblast’, dove si concentra l’80 per cento del potenziale produttivo ucraino e il 20-30 per cento del reddito nazionale; 4) la Crimea ritornata sotto sovranità russa (ma divisa territorialmente dalla Federazione dallo Stretto di Kerč), il cui nuovo status internazionale non è riconosciuto dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti. 
Proprio la separazione geografica della penisola sul Mar Nero dalla Russia e la sua dipendenza, per quello che riguarda le risorse energetiche e idriche, dall’Ucraina, che il 28 aprile ha dichiarato di voler punire la regione ribelle con il taglio delle forniture d’acqua da cui essa dipende per l’80 per cento, ha acceso la miccia di questo bellum intestinun e internecinum, il cui numero crescente di vittime tra belligeranti e civili (attualmente pari a più di quattromila morti, secondo le fonti ONU) è stato in un primo momento deliberatamene passato sotto silenzio dai media occidentali. Di fronte alla minaccia dello strangolamento idrico della Crimea, Mosca è stata costretta a reagire con una brusca intensificazione del suo impegno militare, che necessariamente l’ha spinta a ripristinare la contiguità territoriale con la penisola, puntando all’annessione, magari parziale, dell’Ucraina sud-orientale attraverso la subdola strategia di una proxy war (“guerra per procura”). 
Per raggiungere tale obiettivo, Putin non intende puntare su una competizione bellica aperta e dispiegata di tipo georgiano, ma piuttosto su un’operazione di forte sostegno diretto e indiretto alle province secessioniste che l’esercito ucraino e le milizie nazionaliste dell’Euromaidan stentano a riportare sotto il controllo del nuovo governo di Arsenij Petrovyč Jacenjuk. In questi dipartimenti sono state proclamate la Repubblica Popolare del Luhans’k oblast’e quella di Doneck, che significativamente ha innalzato il vecchio vessillo della Repubblica Sovietica del Doneck-Krivoy Rog a testimoniare l’indomabile volontà di costituire lo Stato federale della Novorossiya (già governatorato zarista) che, il 17 aprile 2014, Putin ha dichiarato parte integrante della Federazione Russa. 
Il minaccioso schieramento russo sul confine ucraino, pari a non meno di quarantamila uomini, con il seguito di mezzi corazzati, artiglieria pesante, aviazione impegnata in voli di ricognizione/intimidazione sullo spazio aereo di Kiev, è stato smantellato da Mosca, il 28 aprile, in cambio dell’assicurazione delle autorità ucraine di non impegnare le proprie forze armate contro la popolazione russofila disarmata, come invece poi è stato fatto. Vittime della rappresaglia sono stati civili non belligeranti, donne, anziani, minori contro i quali il governo Jacenjuk ha scatenato una vera e propria “guerra ai civili”, le cui atrocità non hanno suscitato nessuna reazione né a New York né aWashington né a Londra né a Parigi né a Roma e tantomeno a Varsavia e a Stoccolma. 
Per far fronte a questa vera e propria emergenza umanitaria, il Cremlino ha continuato l’invio nei centri vitali dell’est (Char’kov, Doneck, Luhans’k, Dnipropetrovs’k, Odessa) di uomini e mezzi. Piccoli ma ben preparati contingenti del Glavnoe razvedyvatel’noe upravlenie (intelligence militare), limitate aliquote di specnaz (corpi speciali) e veterani provenienti dai ranghi dell’esercito russo si sono uniti agli insorti, che reclamano, per cessare le ostilità, condizioni inaccettabili per Kiev. I filorussi, infatti, non si sono limitati a pretendere un federalismo spinto, che dovrebbe impedire l’ingresso dell’Ucraina nella NATO e la cancellazione delle frontiere economiche con la Federazione grazie all’unione doganale con Mosca, ma hanno anche avanzato la richiesta di unire la regione di Luhans’k alla Russia “in modo da ristabilire la giustizia storica”. 
Da metà agosto, dopo la riconquista portata a termine dall’esercito regolare ucraino di parte del territorio conteso, il sostegno del Cremlino all’insorgenza si è ulteriormente intensificato con l’invio di convogli umanitari ma anche di blindati pesanti, carri armati, sistemi d’arma contraerei, nuovi più numerosi contingenti di miliziani addestrati in territorio russo. Di fronte alla scelta di perdere faccia e partita o di gettare sul piatto della bilancia il peso del potenziale militare in suo possesso, Putin ha preferito la seconda alternativa, dando vita a una limitata, ma incisiva e soprattutto efficace, escalation del conflitto. Questa decisione ha portato ad azioni delle truppe di Mosca contro obiettivi militari ucraini siti in prossimità del confine tra i due Stati e allo sconfinamento di contingenti russi in alcuni centri abitati nel sud della regione del Doneck in appoggio alle bande dei partigiani separatisti. 
L’afflusso di alcune migliaia di soldati della Federazione ha obbligato l’esercito di Kiev a una precipitosa ritirata dalle posizioni che accerchiavano la città di Luhans’k, consentendo ai ribelli di riprendere il controllo di Novoazovsk e di lanciare un’offensiva in direzione di Mariupol. Obiettivo di quest’operazione è stato quello di aprire un secondo fronte lungo la costa sud-orientale del Mar d’Azov, dove agisce, appunto, l’ormai tristemente noto “battaglione Azov”. Un’agguerrita formazione paramilitare, composta da volontari neonazisti e antisemiti provenienti da Francia, Belgio, Inghilterra, Grecia, Finlandia e Paesi scandinavi, che è stata ufficialmente incorporata nella Guardia nazionale ucraina, insieme ad altri gruppi armati della destra estrema, con un decreto emanato dal ministro dell’Interno ucraino Arsen Avakov. La partecipazione di foreign fighters al conflitto non riguarda, in ogni caso, soltanto lo schieramento pro Kiev. Tra le fila dei separatisti si è registrata, infatti, la presenza di numerosi combattenti provenienti dall’Asia centrale (uzbechi, kazaki, turkmeni), che testimonia il successo dell’appello all’unità del “mondo Russo” post sovietico lanciato dalla propaganda moscovita. 
Il successo militare riportato dai regolari russi e dai loro fiancheggiatori è stato immediatamente speso sul piano diplomatico da Putin che, il 31 agosto, ha formalmente chiesto l’avvio di negoziati per arrivare rapidamente alla creazione di uno “Stato indipendente nel sud-est dell’Ucraina, sola soluzione idonea a proteggere gli interessi legittimi delle persone che vivono in quelle regioni”. Anche dopo l’accordo per il cessate il fuoco, siglato il 5 settembre a Minsk tra Russia, Ucraina e le Repubbliche di Doneck e Luhans’k, la situazione è lontana dall’essersi normalizzata come hanno dimostrato prontamente e puntualmente le violazioni della tregua da parte dei contendenti e l’unilaterale minaccia di Obama di colpire Mosca con draconiane misure di ritorsione economica in caso di ripresa delle ostilità. 

La vocazione imperiale della Russia
di Dino Messina Corriere La Lettura 3.5.15
La difesa dell’identità nazionale ucraina dall’ingombrante vicino russo, assieme ai sentimenti democratici e all’attrazione per il modello di vita occidentale, è alla base della rivolta di Maidan, che ha portato alla destituzione del satrapo Viktor Janukovych. L’ostilità a Mosca di Kiev ha radici secolari, ma forse il ricordo più doloroso è l’Holodomor, lo sterminio per fame causato dalla collettivizzazione agraria forzata imposta da Stalin, che costò la vita tra il 1932 e il 1933 a milioni di ucraini. Non c’è da meravigliarsi quindi se nel secondo conflitto mondiale, come scrive Eugenio Di Rienzo nel saggio Il conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo dis(ordine) mondiale (Rubbettino, pp. 105, e 10) «i contingenti germanici, la cui avanzata era stata facilitata da reparti irregolari di volontari ucraini, furono accolti come liberatori a Kiev». E i nazionalisti ucraini ebbero una parte attiva nel sostenere i nazisti, anche nella persecuzione degli ebrei. La parabola di Stepan Bandera rimane una pagina non certo limpida nella storia di quel popolo. Le vicende storiche sono tuttavia solo la premessa di un ragionamento geopolitico, con cui Di Rienzo cerca di dimostrare (anche sulla base di una letteratura che in Occidente ha il suo capofila nell’ex segretario di Stato Usa Henry Kissinger) quanto dietro il conflitto che oppone Russia e Ucraina si nasconda l’errata pretesa di ridimensionare una grande nazione, che ha sempre avuto ambizioni imperiali, al rango di piccola potenza regionale. Secondo Di Rienzo la politica di Obama e le sanzioni imposte a Mosca, oltre che autolesioniste per il composito e riluttante fronte europeo, sono controproducenti. Vladimir Putin non rinuncerà mai all’idea della Russia come potenza euroasiatica. In questo senso sono da leggere gli accordi commerciali, soprattutto energetici, con la Cina e la politica di alleanze con India, Brasile, Turchia e alcuni Paesi del Medio Oriente. Gli sviluppi della vicenda ucraina, per Di Rienzo, dimostrano che la «fine della storia» predicata da Fukuyama, con gli Stati Uniti unico gendarme del mondo, è un’illusione da cui faremmo bene a svegliarci presto .  

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