A proposito del libro di Vattimo e Zabala scrivo così nel terzo capitolo di "Democrazia Cercasi" (pp. 262-268). Sono riflessioni che possono essere applicate anche a altre proposte che alimentano oggi il dibattito filosofico [SGA]:
"... Nonostante le provocazioni, non è il caso a mio avviso, per il Vattimo intenzionato a fare del pensiero debole un «pensiero dei deboli» al servizio del conlitto sociale, di chiamare in causa addirittura «il comunismo», se con questo termine si vuole intendere non una generica aspirazione utopistica ma un concreto insieme di rilessioni teoriche e di fenomeni storici [...] il “comunismo” o “cattocomunismo” di Vattimo è soprattutto una ribellione morale contro lo stato di cose esistenti, suscettibile di assumere di volta in volta i nomi più diversi: comunismo, anarchia, democrazia ma anche «autentico liberalismo» [...] Si tratta in sostanza, di suscitare contro le «strutture economiche e politiche della nostra società» una serie di «fiammate di rivolta»; di dar vita a una «azione politica che fonda senza essere a sua volta fondata».
Siamo di fronte, come si può vedere, a un appello
all’engagement che chiama alla «alterazione e distruzione dell’ordine stabilito» e che presenta forti accenti fichtiani o sartriani (e dunque attivistici, soggettivistici e persino individualistici) ed è molto lontano dalla linea hegelo-marxiana. E nel quale il richiamo alla tradizione comunista e quello al conservatorismo rivoluzionario di Heidegger diventano, paradossalmente, fonti equivalenti.
Vattimo parla a più riprese della «vicinanza di Heidegger a Marx» o della necessità di un «accostamento di Marx e Heidegger». Riconduce il fallimento del marxismo al suo essere stato «inquadrato all’interno della tradizione metaisica»
e alla pretesa di fondare il processo rivoluzionario
su «basi scientiiche e razionali». Al suo essere stato «scientiico» piuttosto che «utopistico», «rivolto alla conoscenza» piuttosto che «romantico» [...] Ma proprio la sconfitta del progetto comunista storico, la «perdita del potere effettivo», determina oggi e inalmente anche il venir meno delle sue «pretese metaisiche», prima fra tutte «l’ideale dello sviluppo». Ed ecco che a questo punto si può parlare di un «progetto di emancipazione dalla metaisica» condiviso da Marx e da Heidegger [...] E proprio «come Heidegger» noi dovremmo prendere posizione e combattere, a partire dalla distruzione della «storia “continua”» (HC 40-2 e 55) e «statica» (il progresso entro e del medesimo ordine), da sostituire con l’idea di una storia «discontinua» e cioè «avviluppata in interruzioni, emergenze e alterazioni» [...].
Questa idea secondo la quale la rivolta emancipatrice contro il reale (e cioè contro ciò che è meramente esistente) [...] possa essere assimilabile alle motivazioni più profonde della ilosoia di Heidegger [...] è del tutto fuorviante e confusionaria sul piano politico, perché Heidegger contestava sì l’oggettivismo metaisico, che è certamente il correlato paradigmatico dell’industrializzazione e del capitalismo, ma lo faceva dal punto di vista della Rivoluzione conservatrice. E aveva dunque orrore del ruolo autonomo delle masse in politica, credeva in una funzione spirituale della guerra, affermava l’esistenza di precise gerarchie sociali e tra i popoli, etc. etc.Il marxismo dell’epoca, così come più tardi il francofortismo, contestavano invece l’organizzazione totale e l’alienazione (e niente affatto l’oggettivismo o l’oggettivazione del soggetto tramite il lavoro) per motivi del tutto diversi, a partire soprattutto dalla condanna radicale della guerra e della carica di violenza e mobilitazione totale che essa – certo anche grazie alla diffusione della scienze e della tecnica – comportava. Oppure per il dispotismo che la società capitalistica esercitava a partire dal controllo dell’oggetto del lavoro. E proponevano, inoltre, percorsi e
soluzioni del tutto diverse, che certamente sono state
realizzate male ma che contrastavano già in linea di principio con le posizioni di chi, come Heidegger, contestava a monte l’idea dell’eguaglianza tra gli uomini ed era molto scettico (per usare un eufemismo) sull’emancipazione del lavoro.
Confondere questi due atteggiamenti in un concetto formalistico di rivolta o di rivoluzione signiica che c’è una più profonda confusione su ciò che deve essere contestato: si tratta della società capitalistica e dello sfruttamento che inevitabilmente questa associa ai fenomeni progressivi? O si tratta della modernità in quanto tale, accusata di essere in se stessa un ambito di alienazione? Si tratta di operare una negazione determinata oppure di auspicare una indeinita palingenesi? Si contesta l’unilateralità della ragione strumentale oppure il logos in quanto tale e la produzione sociale e lo sviluppo delle forze produttive, in quanto inevitabili conseguenze del primato della ragione e del lavoro?...".
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La metafisica non vince maiScaffale. Il «Comunismo ermeneutico. Da Heidegger a Marx» di Gianni Vattimo e Santiago Zabala: perché il sistema capitalistico, supportato da una scienza triste, ha sconfitto il marxismo?
Paolo Ercolani, il Manifesto 9.4.2015
La genesi della teoria comunista, almeno nella forma in cui è stata elaborata da Marx, è il frutto di tutta una serie di «superamenti» sostanzialmente tesi a spostare il baricentro dell’attenzione dalle altezze eteree delle astrazioni speculative alla materialità conflittuale del mondo umano.
In tale direzione vanno letti tanto l’affrancamento da ogni forma di divinità, quanto il ribaltamento dell’idealismo hegeliano e anche l’oltrepassamento del falso materialismo di Feuerbach, bravo a smascherare il fondamento materiale della religione ma non a dedurne la centralità dell’effettiva prassi umana allo scopo di superare le ingiustizie del mondo terreno.
A fronte di ciò si può comprendere quanto il pensatore di Treviri vergava nelle Tesi su Feuerbach: «La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva non è una questione teoretica bensì una questione pratica tutta la vita sociale è essenzialmente pratica». Concetto nodale e dirimente sfuggito sino a quel momento ai filosofi, che si erano limitati a interpretare diversamente il mondo quando in realtà si trattava di trasformarlo.
Un’intuizione dirompente che nessuno meglio di Gramsci avrebbe sistematizzato grazie al concetto di filosofia della prassi: tanto la teoria è sterile se non elaborata in vista di azioni concrete quanto la prassi si rivela cieca e disorganica senza il riferimento a una teoria coerente. Occorre evitare l’esercizio speculativo onanistico, perfettamente incline a lasciare immutati gli squilibrati rapporti di forza materiali.
Già, ma allora si impone una domanda inevitabile: perché il comunismo, volendo trasformare le condizioni reali della maggior parte degli oppressi, per di più armato di un’arma teoretica così potente e coerente, è stato sonoramente sconfitto da quel sistema capitalistico che, per di più, viene supportato da una «scienza triste»?
La risposta di Vattimo e Zabala è netta: perché il marxismo non ha saputo uscire dall’orizzonte metafisico in cui si è baloccato tutto il pensiero filosofico fino a Nietzsche. Oggettivando il reale, pretendendo di poter conseguire una verità certa e obiettiva, si è configurato come un sistema che, laddove realizzatosi e realizzantesi, in nulla sarebbe stato preferibile al sistema capitalistico.
Il pensiero metafisico è proprio dei forti, scrivono i due studiosi, ossia di coloro che detengono il potere e pretendono di affermare lo status quo come la realtà oggettiva da cui non è possibile scostarsi.
L’unica alternativa percorribile risiede in un «comunismo ermeneutico» in cui l’apporto di Nietzsche e Heidegger (contro gli idoli del pensiero metafisico e delle presunte verità oggettive) integri il materialismo storico di Marx, indebolendo la nostra «forma mentis oggettivistica» e, per esempio, gettando uno sguardo curioso verso gli esperimenti di vera democrazia popolare che provengono dai paesi latino-americani (sulla scia di Chávez).
Convincente? Poco. Più che altro senza alternative credibili, al momento, né forti né deboli.
Il realismo sudamericano ci salverà
Intervista. Un incontro con Gianni Vattimo, autore insieme a Santiago Zabala del libro «Comunismo ermeneutico. Da Heidegger a Marx», uscito per Garzanti. Un'analisi spregiudicata tra politica e filosofia
Paolo Ercolani, il Manifesto 9.4.2015
Il senso comune suggerisce che, a volte, un aneddoto si riveli più eloquente di centinaia di pagine in cui campeggiano raffinatissime analisi filosofiche.
Sarà per questo che, a leggere il nuovo libro di Gianni Vattimo e Santiago Zabala (Comunismo ermeneutico. Da Heidegger a Marx, Garzanti, pp.181, euro 22), torna alla mente l’episodio di Marx con la signora Kugelmann, la moglie del noto ginecologo che ospitò il filosofo a casa sua, per alcuni mesi, dopo che aveva ultimato la stesura del primo libro del Capitale.Trovandosi tutti insieme a tavola, si narra che un ospite avesse punzecchiato la «vecchia Talpa» provocandolo con una domanda su chi avrebbe lucidato le scarpe nella società comunista. «Lei, naturalmente!», lo fulminò Marx.
La signora Kugelmann, per stemperare il clima, commentò scherzosamente che non riusciva a immaginarsi Marx in una società veramente egualitaria, visti i suoi gusti e le sue abitudini così aristocratici. «Nemmeno io», fu la risposta del filosofo tedesco, «quell’epoca verrà ma noi non ci saremo più!». Ne parliamo con Gianni Vattimo.
Nel libro viene proposta un «comunismo ermeneutico» come derivazione del socialismo bolivariano. Chávez e il Venezuela eredi di Castro e Cuba, insomma… Ma è realistico?
Il richiamo ai latinoamericani, anche se non si limita alla dedica del libro, non è però l’indicazione di un modello politico che si voglia applicare alle nostre condizioni europee. È piuttosto una semplice allusione alla possibilità, oggi, di un ordine diverso da quello capitalistico ed euro-atlantico. Come a dire: guardate che un mondo diverso è possibile, si è realizzato e si sta ancora realizzando là dove non sembrava potersi trovare. Se vuoi, è una specie di preoccupazione «realistica» quella che cerchiamo di esprimere con quei richiami. E non solo: che esista e si consolidi un socialismo latinoamericano è decisivo per noi anche a livello mondiale. Solo se appare sulla scena un complesso di paesi anticapitalistici che bilancino, anche in sede di Onu, il potere delle multinazionali ancora sempre basate nell’Occidente «atlantico», è verosimile che l’Europa si scuota di dosso il dominio euro-americano-bancario che la soffoca.
Le «misiones» instaurate da Chávez (gruppi di cittadini volontari che affiancano l’amministrazione pubblica in settori nevralgici, «ndr»), che hanno entusiasmato personalità come Chomsky e Oliver Stone, sembrano raccontare di una partecipazione popolare fattiva, ben al di là dei miti populistici dei nostri lidi. Dei Soviet del XXI secolo?
Le misiones ci sembrano fenomeni esemplari perché sono il modo in cui Chávez ha realizzato una profonda trasformazione dello stato, senza scatenare una lotta sanguinosa contro le vecchie burocrazie: ha loro affiancato, come ausilio, stimolo, forse anche forma di controllo, una sorta di «brigate» popolari. Direi persino che era lo scopo che si prefiggeva la «rivoluzione culturale» cinese, comunque sia poi finita. E molto più semplicemente offrono l’esempio di una possibile partecipazione democratica al governo di un paese che non si riduca ad andare alle urne una volta ogni cinque anni. È vero che in paesi come il Venezuela o altre nazioni latinoamericane ci sono tradizioni comunitarie diverse e più vive che da noi. Dunque, l’esempio delle misiones o di forme di partecipazione simili deve essere considerato con prudenza e consapevolezza delle differenze. Ma non possiamo negare che anche qui c’è qualche suggestione valida per la nostra democrazia così asfittica.
Il vostro «comunismo ermeneutico» nasce da una filosofia antirealista che non vuole fondarsi sulla «verità dei fatti». Perché, scrivete, questa presunta realtà è manipolata dai media del mainstream, vero oppio dei popoli della nostra epoca. Siamo di fronte a una nuova applicazione del «pensiero debole»?
L’attributo «ermeneutico» che accompagna il comunismo nel titolo del libro ha anzitutto il senso di togliere l’illusione e la pretesa del socialismo «scientifico». Non crediamo affatto che l’economia marxista sia scientificamente migliore di quella borghese del capitalismo, anche perché la stessa idea di una economia politica come «scienza» con gli attributi di oggettività e di sperimentalità, che una scienza moderna dovrebbe avere, è già un mostro ideologico. Questo lo sapeva bene anche Marx. Il quale però continuava a coltivare l’idea positivistica, sostanzialmente, che la sua dottrina, almeno come filosofia della storia, avesse una qualche corrispondenza con la realtà del mondo. Ma essendo un hegeliano, sia pure con i piedi per terra, non poteva vederla davvero in questo modo. Che solo il proletariato espropriato, secondo lui, potesse cogliere e attuare il vero senso della storia mostra che anche lui stava più dalla parte dell’ermeneutica che da quella del «realismo» vecchio o nuovo. E, in definitiva, è vero che il comunismo ermeneutico è una declinazione politica del pensiero debole: non ci sono fatti, solo interpretazioni, secondo la più scandalosa affermazione di Nietzsche, per il quale però «anche questa è un’interpretazione».
Marx e Heidegger sono i teorici ispiratori della vostra proposta. Ma il primo era un razionalista dell’oggettività e per nulla un ermeneuta. Il secondo, in compenso, riprendeva l’empito aristocratico già proprio di Nietzsche. Come conciliarli in un progetto realisticamente innovativo?
I nostri filosofi di riferimento, non solo Marx e Heidegger ma anche Nietzsche, Rorty, e Schürmann, sono figure da «interpretare». Lasciamo qui da parte Marx, ma certo Nietzsche e Heidegger sono personaggi conflittuali che noi riprendiamo consapevoli delle loro problematicità. Entrambi hanno un peso decisivo in quanto teorici della modernità come avvento del nichilismo.
La storia del nichilismo come processo di dissoluzione progressiva della «oggettività» a favore di un mondo sempre più inestricabile dai soggetti, individui e gruppi, che lo abitano, lo trasformano e lo manipolano — in altre parole: che lo interpretano — per il quale è la sola filosofia della storia capace di sostenere il nostro «comunismo ermeneutico». Sia Nietzsche, sia Heidegger, sono letti qui in contrasto con la vulgata, che fa dell’uno un antesignano del nazismo e dell’altro, nel migliore dei casi, un fumoso mistico convinto di ascoltare la voce dell’Essere. Naturalmente, leggiamo l’uno e l’altro senza alcuna pretesa di oggettività storiografica, neanche le loro opere sono «fatti». Il progetto che perseguiamo con questo lavoro teorico del resto, non chiede certo di essere discusso come una proposta storiografica.
Due radici europee, insomma, per proporre un comunismo ermeneutico che sembra rivolgersi a terre lontane (il Sudamerica), rispetto alle quali noi sembriamo quella civiltà al tramonto paventata da Heidegger. È così?
Dici che guardiamo a terre lontane, come se fossimo coscienti di trovarci in una civiltà al tramonto? Occidente, Abend-land..? Questo Occidente non sembra affatto rassegnato a tramontare, anzi diventa sempre più aggressivo. Ma certo, dato quel che è stato e che è diventato finora, sembra un ragionevole segno di vitalità cercare la salvezza fuori di esso. Aspettando i barbari?
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