Guttuso, autoritratto con figure Pittori, poeti ma non la Marzotto Venerdì 24 Aprile, 2015 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
Ritratti e autoritratti di Renato Guttuso (1911-1987) al museo omonimo di Bagheria: affascinante album di ricordi lungo tre quarti di secolo di un pittore definito da Dominique Fernandez «un comunista con modi e stile di vita da signore e da dandy». C’è la Sicilia (e, quindi, la sua sicilianità, che, come scrive Cesare Brandi, «non è folclore, ma quella consonanza segreta che lega alla madre, il fluido che monta da terra e che risale il corpo e lo irrora come un altro sangue») e Roma, Milano e Parigi, Venezia e Mosca, Messina e Velate. Città, volti, fisionomie e biografia diventano tutt’uno. Occasioni, magari, per ricostruire episodi inediti; precisare vicende o aneddoti; soffermarsi su particolari che per la prima volta escono dall’oscurità in cui sono stati costretti. È l’ineffabile ed eterno gioco della memoria.
Guttuso, il privato diventa politico nei ritratti di amici e celebrità Una mostra al museo di Bagheria: per la prima volta insieme le immagini dei personaggi cruciali nella vita del pittore Marcello Sorgi La Stampa 27 5 2015
Non c’è bisogno di essere un critico o un intenditore d’arte per sapere che il ritratto, tra i diversi esempi di pittura, è quello che può impegnare di più un autore, e alle volte anche metterlo in crisi. Perché si tratta di penetrare, partendo dall’espressione del viso, l’animo profondo di un soggetto, una persona, va da sé, con cui è indispensabile aver in comune o aver condiviso qualcosa. Tracce di questo complicato percorso saltano all’occhio - anche a un occhio non particolarmente attrezzato - visitando la mostra di ritratti di Renato Guttuso, inaugurata da qualche giorno dal museo che porta il suo nome nella natìa Bagheria, a pochi chilometri da Palermo, per iniziativa del figlio adottivo del pittore siciliano, Fabio Carapezza Guttuso.
Il padre
Per la prima volta vengono messe insieme le immagini dei personaggi che hanno attraversato la vita del pittore, il padre che dipingeva le fiancate dei carretti, tra i suoi primi maestri, la madre solitaria e spenta nella sua vedovanza, gli amici della borghesia palermitana, e poi gli intellettuali, gli artisti e i compagni della lunga militanza comunista. Così che anche quando il riferimento non è marcato, si potrebbe dire che questa è una galleria di ritratti politici, e la politica, intesa come passione, era una delle principali chiavi attraverso cui Guttuso misurava la qualità e la forza dei rapporti personali che avevano attraversato la sua esistenza.
Il sodalizio
Questa particolare miscela di amicizia e comunanza di idee emerge ad esempio dai ritratti di Carlo Levi e Mario Alicata. Guttuso era stato uno dei pochi a frequentare l’autore di
Cristo s’è fermato a Eboli
dopo il confino che lo aveva emarginato anche nel suo ambiente, sfidando il conformismo di fine Anni Trenta, l’epoca più pesante del fascismo. E con Alicata, prima che diventasse un altissimo dirigente del Pci togliattiano, aveva instaurato un sodalizio che comprendeva Antonello Trombadori, un altro grande personaggio della stessa schiera, a cavallo tra politica, arte, cultura e gioia di vivere.
Sono entrambi immortalati nell’album dei ricordi guttusiani. Ma ad Alicata - come ad Alberto Moravia, il solo, insieme ad Elsa Morante, autorizzato a frequentare lo studio del pittore usandolo come garçonnière -, è dedicato un doppio ritratto, per fermare due momenti diversi, la gioventù e la maturità, quest’ultima in cui compare avvolto in un candido e insolito vestito che ricorda la tunica bianca dei senatori romani. «Dopo il ’56 eravamo rimasti in tre: io, lui e Antonello», ricorderà con amarezza Guttuso, tra i pochi a restare nel partito dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria.
Neruda a Capri
C’è Eugenio Montale, con un filo di emozione sul volto, dipinto nella villa piemontese di Umberto Morra di Lavriano frequentata anche da Norberto Bobbio. C’è Anna Magnani, preceduta da una serie di bozzetti, perché l’attrice non stava mai ferma e non sapeva mettersi in posa, e Guttuso dovette fissarla sulla tela in meno di un’ora. Ma i tre dipinti rivelatori di un certo modo di essere dei comunisti di quella generazione, sono quelli che ritraggono Goffredo Parise, Pablo Neruda e Giovanni Pirelli. Sono infatti ritratti visionari, in cui chi guarda può intuire uno stato d’animo dell’autore, un tormento, un dubbio, una mezza verità. Parise, nel 1970, è appena tornato dalla Cina e, non volendosi sbilanciare in un periodo di rapporti complessi tra «partiti fratelli», non ha dato giudizi, s’è espresso laconicamente: «Non c’è niente da capire». Guttuso lo immortala sullo sfondo di cataste ordinate di libretti rossi di Mao che formano la pianta urbanistica di una città immaginaria, ordinata quanto arida.
Neruda, reduce da un dorato esilio italiano a Capri (al suo arrivo a Roma la polizia voleva arrestarlo, la soluzione di confinarlo nell’isola richiese l’impegno di tutto il vertice del Pci), torna in Cile, malato, e muore misteriosamente in ospedale dopo un’iniezione: tutto il mondo comunista penserà che è stato assassinato. Guttuso lo disegna morto, un braccio abbandonato come il Marat di David, e sospesi per aria i nomi dei presidenti americano Nixon e cileno Frei, insieme con quello dell’ex dittatore Pinochet, adombrati come mandanti di un delitto mai dimostrato.
L’incidente di Pirelli
Per Giovanni Pirelli, fratello di Leopoldo, figura anomala di erede di una dinastia industriale che aveva rifiutato il destino imprenditoriale per dedicarsi all’impegno politico e al sostegno internazionale dei movimenti di liberazione, Guttuso non se la sente di arrivare a delineare un sabotaggio dell’automobile su cui avrebbe trovato la morte in un grave incidente da cui anche Leopoldo si era salvato a malapena. Ma una macchia di rosso, ardente vicino al volto della vittima, ricorda a tutti da che parte batteva il cuore di Giovanni.
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