lunedì 13 aprile 2015

Sul quadrato di Malevic



Quell’odiato quadrato nero che azzerò San Pietroburgo
Una mattina qualunque, in fuga dal grande sfarzo e dallo splendore abbagliante della città russa si finisce al museo dell’Hermitage ad ammirare il dipinto di Malevic che un secolo fa troncava con il passato in attesa del cambiamento
di Gabriele Romagnoli Repubblica 12.4.1
Anche la bellezza può sfinire. Opprimere, perfino. Hai bisogno di uscirne: dallo sfarzo, dall’eccesso. Da (San) Pietroburgo. Ma come fai? La città è “l’infinità d’una prospettiva, elevata all’ennesimo grado”, è l’intollerabilità dello splendore quando non concede sosta: dietro Pietroburgo non c’è nulla, dopo Pietroburgo non c’è nulla. È Venezia più forza, Amsterdam più storia. I colori, e non alcuni, tutti, sono nei palazzi, nei ponti, negli abiti, nelle teche delle manifatture Fabergé: non pensare una variazione cromatica, è già stata creata, l’azzurro verdognolo dei canali, il madreperla delle nuvole, il roseo turchese dei tramonti e l’oro a incartare ogni cosa. L’arte, la guerra, il sangue versato, le invenzioni, i tumulti, le stazioni. Le chiese e le offese: una trasformata in piscina, un’altra in magazzino, purché smettessero di brillare. Ogni andata e ogni possibile ritorno: esuli sul treno della vendetta, ideologie nei testi del riscatto. In una mattina qualunque: la Neva luccica, le cupole della cattedrale scintillano, la luce rimbalza sui vetri a specchio dell’edificio Singer. Dove ti ripari?
Sembra folle rispondere: all’Hermitage. È qui, proprio qui, nell’unico museo dove non sai se sia più prezioso il contenuto o il contenitore, che vorresti cercare l’ombra, il silenzio, il momento di pace? Qui, superata la fila nel cortile, tra ragazzini che negoziano con i genitori la resistenza massima («Due ore poi andiamo a mangiare»), babushka che procrastinano la fine del lavoro parcellizzato (una spinge, per otto ore, la porta girevole facendo entrare tre visitatori alla volta, un’altra presidia, da una vita, la stessa sala, conoscendo soltanto la propria lingua e il “proprio” artista), nell’ennesimo tripudio di materiali, forme, tinte. Sala della malachite e dell’oro. Del trono e dell’orologio. Della tradizione e dell’avanguardia. Un Leonardo e un Caravaggio. Rembrandt e Cezanne. Nella dependance sull’altro lato della piazza, che molti non visitano neppure, già sazi e disperati: Monet, Van Gogh, Toulouse-Lautrec. Troppo non è mai tutto, ma tutto è sempre troppo.
Poi c’è questa indicazione, una freccia che non capisci neppure se punta a destra o a sinistra, un cartello a perderti, che dice: “Kandinskij e altri”. E altri? Stravinskij e signora, Dostoevskij e figli, Majakovskij eccetera eccetera. Che cosa ci sarà nel resto di un rublo?
Eccolo là, il momento che stavo cercando, il riposo di tutti i guerrieri, infilato tra un Kandinskij e una finestra: il quadrato nero di Kazimir Malevic. Ha un secolo. Poi, che questo, precisamente questo qui, sia il quarto e ultimo, che non sia stato pensato nel 1913, esposto alla mostra futurista del 1915, ma replicato quattordici anni dopo, che sia impercettibilmente diverso per dimensione e colore, non rileva. Il quadrato nero è il quadrato nero è il quadrato nero è il quadrato nero. Hai guardato le donne di Gauguin, i fiori di Picasso, le ballerine di Degas e sprofondi in questo vuoto assoluto? Come è possibile?
È negli occhi di chi guarda, ma chi potrebbe non vedere, con gli occhi di allora e con il senno di poi che questa era la pagina nuova, la reazione che determina il cambiamento proclamando l’inaccettabilità di tutto il resto? Come ci sia arrivato Malevic, per caso, per ipnosi, per allucinazione, è irrilevante. Non avesse saputo quel che stava facendo non avrebbe gridato: «Rinunciate all’amore! Rinunciate all’estetismo, al bagaglio di saggezza che portate con voi!».
Voleva cancellare tutto quel che lo circondava, spegnerlo per un attimo. Entri nella chiesa del salvatore del sangue versato e ti gira la testa. Chiudi gli occhi: vedrai un quadrato nero. È la sensazione di chi ha finito di leggere la Divina Commedia: se vuoi ancora scrivere non puoi che ripartire da “a”. E basta. È il destino di Mendel Singer, il Giobbe di Joseph Roth che in fine «si riposò dal peso della felicità e dalla grandezza dei miracoli ». È lo spirito dei tempi, di quei tempi, giacché contemporaneamente Andrej Belyj scrive in Pietroburgo che la città «non è soltanto illusoria, ma si trova anche sulle carte, in forma di due cerchi concentrici con un punto nero nel mezzo». Quel punto è il quadrato di Malevic, la miccia di energia. Tutto quello che c’era stato prima ridotto a niente, per poter esplodere nel nuovo. Tutta l’arte, la passione, il colore: tesi. Il quadrato nero: antitesi. Quel che sarebbe venuto poi, il ritorno di Lenin alla stazione di Finlandia, la rivoluzione: sintesi. Fu appeso in alto, un secolo fa, come un’icona. Era il suo opposto. Nessuno mai lo ha adorato. Le masse lo hanno, anzi, detestato. Qualunque opera in cui non sia possibile riflettersi genera il panico nella gente. La storia non è uno specchio, ma un pozzo. Il quadrato nero la conteneva e forse ancora la contiene, ora che Pietroburgo è Zaraland, Al Bano in concerto e Burger King davanti alle tombe dei Romanov. È ancora antitesi, indecifrabile la sintesi.

Come nasce il “Quadrato nero” che rivoluziona l’arte del Novecento 
La Fondazione Beyeler di Basilea ricostruisce la storica “sfida” di 100 anni fa 
Francesco Poli  Stampa 5 12 2015
L’esposizione «O.10 L’ultima mostra futurista di quadri», organizzata dagli artisti d’avanguardia russi nel 1915 a San Pietroburgo è una delle pietre miliari della nuova arte sperimentale del XX secolo. Per celebrare il centenario di questo evento la Fondazione Beyeler ha tentato una ricostruzione il più possibile filologicamente corretta, sulla base di lunghe e complicate ricerche. Solo una parte delle 154 opere esposte all’epoca (non solo dipinti come dice il titolo ma anche sculture e costruzioni polimateriche) sono state individuate e quindi sono stati aggiunti anche altri lavori strettamente connessi. Sarebbe stato bello ricreare l’allestimento storico (eroicamente povero) ma sono rimaste solo pochissime foto d’insieme e non si sa neanche di preciso quante erano le sale. Il significato piuttosto criptico del titolo allude alla volontà di azzeramento di tutta l’arte del passato da parte degli artisti invitati (che erano inizialmente dieci). Alla mostra inaugurata il 19 dicembre nella galleria di Nadezda Dobycina, al primo piano di un palazzo al centro della città, sono presenti quattordici esponenti dell’avanguardia cubo-futurista divisi in due sezioni, formate dai partigiani di Vladimir Tatlin e da quelli di Kazimir Malevich, in fiera contrapposizione fra loro. La sfida fra quelli che saranno i leader del Costruttivismo e del Suprematismo è naturalmente il tema cruciale della mostra, ma è di grande rilievo il fatto che ben la metà dei partecipanti sono donne, tra cui spiccano in particolare Vera Pestel, Olga Rozanova, Ljubov Popova e Nadezda Udalcova. Gli altri protagonisti sono Natan Altman, Maria Vassilieff, Vasilij Kamenskij, Anna Kirilova, Xenia Boguslavskaja e Ivan Puni. Di fondamentale importanza sono i lavori di Tatlin, in particolare i suoi Controrilievi incastrati negli angoli fra due muri (veri e propri prototipi delle installazioni spaziali) ma ancora più deflagrante è la sala di Malevivich, con una astratta costellazione formata da una ventina di quadri. I dipinti sono appesi in modo anarchicamente asimmetrico sulle pareti, in alto e in basso anche a livello delle gambe, e il suo primo mitico Quadrato nero su fondo bianco è collocato addirittura in un angolo vicino al cornicione del soffitto come una sacra icona ortodossa. Quest’opera diventa così il perno visivo (e concettuale) di tutto l’insieme. Radicalmente innovativa è anche l’idea che la posizione nello spazio espositivo delle sue opere doveva seguire una logica analoga a quella delle forme interne delle sue composizioni. Il Quadrato nero su fondo bianco si impone come il tentativo più estremo e «assoluto» di superamento dei limiti e della relatività della pittura, attraverso la presentazione di una forma primaria senza più referenze ad altro che a se stessa, basata sull’accordo dei due poli opposti del colore, il nero e il bianco, intesi anche come la fine e l’inizio. Si tratta dell’esaltazione massima della purezza della pittura, e della sua riduzione al «grado zero», che coincide con la verità della superficie. Il «salto mortale» che Malevich fa nella pittura astratta e che bruscamente annulla la tradizione della pittura (o la trascende come lui stesso pensa) è un’operazione che si spiega in rapporto al contesto psicologico e culturale russo. Nel campo dell’arte rappresenta la rinuncia nichilista, il rifiuto di tutto e la certezza che in questo «nulla» sia inscritta la vera tensione verso l’assoluto. L’arte acquista significato a partire dal momento in cui rivela la verità profonda del mondo senza oggetto. La sua poetica è dunque caratterizzata da una tensione mistica laica, collegata a una visione utopica di rinnovamento rivoluzionario della società. «Per suprematismo - ha scritto l’artista - intendo la supremazia della sensibilità pura nell’arte. Dal punto di vista dei suprematisti le apparenze esteriori della natura non offrono alcun interesse; solo la sensibilità è essenziale. L’oggetto in sé non significa nulla. L’arte perviene col suprematismo all’espressione pura senza rappresentazione».
Per dimostrare la straordinaria influenza di Malevich e del suo quadrato sugli sviluppi dell’astrattismo e poi sulle successive tendenze minimaliste e neominimaliste in parallelo all’esposizione storica è stata allestita Black Sun, una istruttiva rassegna di opere di artisti moderni e contemporanei come Rothko, Ad Reinhardt, Elsworth Kelly, Sol LeWitt, Richter, Polke, Monk.

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