giovedì 9 aprile 2015

Una storia delle lotte dei classe nel settore minerario degli Stati Uniti


James R. Green: The Devil Is Here in These Hills. West Virginia’s Coal Miners and Their Battle for Freedom, Atlantic Monthly Press 

Risvolto

From before the dawn of the 20th century until the arrival of the New Deal, one of the most protracted and deadly labor struggles in American history was waged in West Virginia. On one side were powerful corporations whose millions bought armed guards and political influence. On the other side were 50,000 mine workers, the nation’s largest labor union, and the legendary “miners’ angel,” Mother Jones. The fight for unionization and civil rights sparked a political crisis verging on civil war that stretched from the creeks and hollows to the courts and the US Senate. In The Devil is Here in These Hills, celebrated labor historian James Green tells the story of West Virginia and coal like never before.
The value of West Virginia’s coalfields had been known for decades, and after rail arrived in the 1870s, industrialists pushed fast into the wilderness, digging mines and building company towns where they wielded nearly complete control over everyday life. The state’s high-quality coal drove American expansion and industrialization, but for tens of thousands of laborers, including boys as young as ten, mining life showed the bitter irony of the state motto, “Mountaineers are Always Free.” Attempts to unionize were met with stiff resistance. Fundamental rights were bent, then broken, and the violence evolved from bloody skirmishes to open armed conflict, as an army of miners marched to an explosive showdown. Extensively researched and told in vibrant detail, The Devil is Here in These Hills is the definitive book on an essential chapter in the history of American freedom.


A Deep, Dark Fight for Dignity

Una guerra di classe a bassa intensità 

Forza lavoro. Storie di sanguinose sconfitte e rare vittorie.Un avvincente affresco del movimento operaio Usa nel libro di James R. Green «The Devil Is Here in These Hills. West Virginia’s Coal Miners and Their Battle for Freedom»

Ferdinando Fasce, 8.4.2015 

Qual­che anno fa, recen­sendo il bel libro di Enzo Tra­verso Il secolo armato. Inter­pre­tare le vio­lenze del Nove­cento (Fel­tri­nelli, 2012), richia­mavo l’opportunità di aggiun­gere alle vio­lenze legate alle guerre e ai regimi tota­li­tari, da lui esplo­rate con molto acume, quelle «indu­striali». A par­tire dal regime di fab­brica, intes­suto di vio­lenza e gang­ste­ri­smo padro­nali, che domi­nava tra le due guerre alla Ford, un caso che Tra­verso citava invece come esem­pio di classe ope­raia che già negli anni Trenta «cono­sceva il lusso» di «appar­ta­menti dotati non solo di un bagno ma anche di riscal­da­mento cen­tra­liz­zato, tele­fono, fri­go­ri­fero, lava­trice e tele­vi­sore, com­presa un’auto in garage». Di que­ste e altre vio­lenze, con­clu­devo, oltre che di quelle più note e visi­bili di natura poli­tica, è «mate­riato» il Nove­cento e sarebbe bene incor­po­rarle nei «discorsi» sul secolo. Lo straor­di­na­rio libro di James R. Green The Devil Is Here in These Hills. West Virginia’s Coal Miners and Their Bat­tle for Free­dom (New York, Atlan­tic Mon­thly Press, 2015, pp. 440, $28) pro­prio di que­sto parla. È la sto­ria di come i mina­tori del West Vir­gi­nia hanno strap­pato il diritto alla libertà di orga­niz­za­zione e di presa di parola pas­sando attra­verso decenni di lotte duris­sime, da fine Otto­cento ai primi anni Qua­ranta del secolo suc­ces­sivo. Lo hanno fatto, mostra Green in pagine che dovreb­bero essere adot­tate nelle scuole di ogni ordine e grado, ma in par­ti­co­lare dove si stu­dia diritto, ricor­rendo in certi casi alla vio­lenza orga­niz­zata e col­let­tiva per rispon­dere al regime auto­ri­ta­rio e dispo­tico, alle vio­lenze e alle vio­la­zioni siste­ma­ti­che della lega­lità da parte degli impren­di­tori e delle auto­rità poli­ti­che di vario livello spesso impe­gnate a dar man forte al capi­tale. Tant’è vero che dap­prima nel 1912–13 e di nuovo un decen­nio dopo, nei primi anni Venti, si parla di vere e pro­prie «guerre minerarie». 

Scio­pe­ranti in armi
«Guerre», sot­to­li­nea oppor­tu­na­mente Green, che sono andate per­dute nella memo­ria col­let­tiva d’oltre Atlan­tico e che figu­rano solo di sguin­cio anche nei libri di sto­ria del lavoro. Forse per­ché, osserva, gli stu­diosi che sim­pa­tiz­zano per la causa del lavoro «ten­dono a foca­liz­zare la loro atten­zione su inci­denti nei quali gli scio­pe­ranti erano vit­time di vio­lenza» e «sono rilut­tanti a get­tare troppa luce su ciò che è avve­nuto quando gli scio­pe­ranti imbrac­cia­vano i fucili per com­bat­tere con­tro le di solito supe­riori forze armate mobi­li­tate dagli impren­di­tori». Ecco allora l’attenzione con­cen­trata su san­gui­nose scon­fitte ope­raie come lo scio­pero fer­ro­via­rio gene­rale del 1877, la vicenda di Hay­mar­ket da cui ori­gina il Primo mag­gio (al quale Green stesso ha dedi­cato il bel­lis­simo e molto apprez­zato Death in the Hay­mar­ket, Pan­theon Books, 2006), lo scon­tro side­rur­gico di Home­stead del 1892, il mas­sa­cro mine­ra­rio di Lud­low del 1914. E, per con­verso, la ten­denza a dimen­ti­care il West Vir­gi­nia, che per giunta si porta die­tro lo stigma, che noi ben cono­sciamo per i grandi studi di Ales­san­dro Por­telli su altri mina­tori appa­la­chiani, di un’«arretratezza» con­ge­nita. Di Por­telli e della sua for­mi­da­bile lezione di ricerca mi ha par­lato costan­te­mente Green tutte le volte che ci siamo visti nei lun­ghi anni che gli sono occorsi per scri­vere que­sto libro. Il suo primo con­tatto col West Vir­gi­nia risale al 1978, quando, inca­ri­cato di scri­vere un arti­colo mili­tante su uno scio­pero allora in corso, si rivolse al padre della «nuova sto­ria del lavoro», David Mont­go­mery, che all’epoca inse­gnava a Pitt­sburgh e che lo indi­rizzò a un suo dot­to­rando di quell’area. Comin­ciava così un rap­porto con le miniere del West Vir­gi­nia che non si è mai inter­rotto, anche se nel frat­tempo Green, che adesso è pro­fes­sore eme­rito alla Uni­ver­sity of Mas­sa­chu­setts dopo averci inse­gnato per decenni, si è occu­pato di nume­rose altre que­stioni di sto­ria del lavoro: dai socia­li­sti dell’Oklahoma, all’uso pub­blico della sto­ria, ai «mar­tiri di Chi­cago». Fin­ché qual­che anno fa ha ripreso in mano que­sta vicenda con l’idea di scri­vere un libro da stu­dioso ma che potesse indi­riz­zarsi anche a un pub­blico più generale. 

Dal grande al pic­colo schermo
Il risul­tato, dopo anni di vasta ricerca e di non meno vasta revi­sione, sono que­ste oltre quat­tro­cento pagine, un set­timo delle quali fitte di note, che si leg­gono come un romanzo per­ché la mate­ria è da romanzo o da film. In effetti di un epi­so­dio di que­sta sto­ria, lo scon­tro che nel luglio 1921 vide il corag­gioso sce­riffo (e pisto­lero pro­vetto) favo­re­vole ai mina­tori Sid Hat­field soc­com­bere sotto i colpi dei sicari impren­di­to­riali, si è occu­pato il regi­sta John Say­les nel western ope­raio Mathewan (1987). Dalla seconda di coper­tina del libro Say­les assi­cura che «The Devil Is Here in These Hills è la più com­pren­siva e com­pren­si­bile sto­ria delle guerre del car­bone del West Vir­gi­nia che io abbia letto». Gli fanno eco, dalla quarta di coper­tina, stu­diosi del cali­bro di Elliott Gorn e Glenda Gil­more. Ma anche il mondo della tele­vi­sione si è inte­res­sato al libro e alla sua sto­ria, come dimo­stra il fatto che la sezione di Boston della Pbs, la tv pub­blica d’oltre Atlan­tico, ha com­prato i diritti per rea­liz­zare un docu­men­ta­rio tratto da The Devil. Il titolo del libro, con quell’allusione al «dia­volo» che abita nelle col­line del West Vir­gi­nia, è tratto da una frase di un ex-imprenditore e poi iso­lato poli­tico pro­gres­si­sta che nel 1912 così stig­ma­tizza il com­por­ta­mento pre­da­to­rio dei padroni delle miniere nei con­fronti dei loro lavo­ra­tori, sot­to­li­neando come «Dio non cam­mina in que­ste col­line». L’espressione adom­bra la forte reli­gio­sità che per­mea, come ci ha inse­gnato Por­telli, gli Appa­la­chi, la vasta regione degli Stati Uniti distesa per quasi quat­tro­cento con­tee e tre­dici stati, lungo l’omonima catena mon­tuosa che taglia tra­sver­sal­mente il paese, con al cen­tro l’hinterland di alcuni stati del Sud: appunto West Vir­gi­nia, Ken­tucky, Ten­nes­see e Ala­bama. È una reli­gio­sità che ritro­viamo oltre vent’anni dopo quando, di fronte all’avanzata del sin­da­cato nel clima di pro­fondo rin­no­va­mento sociale del New Deal, la figlia di un mina­tore pro­rompe in un canto di vit­to­ria che dice: «Signore, signore siamo indi­pen­denti ora/ ora quando incon­tri il padrone non devi inchinarti/ non è un re — non lo è mai stato in alcun modo». Tra que­sti versi e la frase del poli­tico del primo Nove­cento ci sono le due «guerre» che vedono datori di lavoro e mina­tori gli uni con­tro gli altri armati, sullo sfondo delle alterne for­tune dell’industria del car­bone, un set­tore attra­ver­sato dalla costante ten­sione, ma anche dalle con­ver­genze e inte­gra­zioni fun­zio­nali, fra le pic­cole imprese a base locale e le grandi cor­po­ra­tions nazio­nali. È un con­te­sto nel quale spicca l’incessante spinta padro­nale al taglio dei costi da lavoro, per incre­men­tare i mar­gini di pro­fitto fisio­lo­gi­ca­mente limi­tati, e al rigido con­trollo sociale attra­verso la for­mula pre­da­to­ria della com­pany town. In essa tutto appar­tiene al padrone, il sala­rio è ero­gato almeno in parte in buoni redi­mi­bili solo presso lo spac­cio impren­di­to­riale, le mal­sane cata­pec­chie ope­raie sono di pro­prietà dell’impresa che può espel­lere i dipendenti-inquilini a pro­prio pia­ci­mento, lo spa­zio fisico e men­tale dei lavo­ra­tori è ridotto all’osso. 

Lo stigma dello stereotipo
Eppure, seguendo attra­verso una miriade di fonti, lavo­ra­tori, impren­di­tori e resto della comu­nità, Green mostra come anche in que­ste ter­ri­bili con­di­zioni chi lavora rie­sca a tro­vare il corag­gio per alzare la testa, supe­rare le divi­sioni fra nativi di lin­gua inglese, migranti cala­bresi e mina­tori afroa­me­ri­cani venuti dal Sud, seg­menti di forza lavoro tanto diversi e che i pro­prie­tari delle miniere cer­cano in ogni modo di gio­care gli uni con­tro gli altri. Le «guerre» scop­piano non per­ché, come sug­ge­ri­sce cedendo a uno ste­reo­tipo nazio­nale su que­ste zone il «New York Times» nel 1921, siamo in pre­senza del «mon­ta­naro pri­mi­tivo» che cono­sce solo la legge del taglione e della fore­sta. Legge testi­mo­niata, a dire dell’autorevole foglio, dalla lunga, ata­vica tra­di­zione delle faide fami­gliari scop­piate in West Vir­gi­nia sin dal Sette-Ottocento. Ma al con­tra­rio, dimo­stra bene Green, le «guerre» scop­piano per la fer­rea oppo­si­zione che i tanto «moderni» impren­di­tori oppon­gono all’introduzione in que­ste aree di una «moder­nità» poli­tica a loro sgra­dita, quella della libera rap­pre­sen­tanza delle parti sociali, del tra­sfe­ri­mento in sede eco­no­mica dello spi­rito di un’autentica cit­ta­di­nanza allar­gata. È l’opposizione inve­te­rata a que­sto, al ten­ta­tivo di por­tare la Dichia­ra­zione d’Indipendenza e magari anche un po’ di socia­li­smo fra i boschi del West Vir­gi­nia che arma le mili­zie padro­nali, così come gli sce­riffi e i poli­tici sta­tali infeu­dati ai grandi inte­ressi eco­no­mici che man­dano le truppe della Guar­dia nazio­nale, quando non bastano i pri­vati, a spa­rare sui lavo­ra­tori. I quali a loro volta si mobi­li­tano, seguendo l’invito pro­ve­niente da Mother Jones, l’indomabile anziana orga­niz­za­trice di ori­gine irlan­dese. Stando al reso­conto di un gior­nale locale, nel 1913 — di fronte alla bar­bara ucci­sione di un mina­tore, Cesco Estep, reo solo si essersi ribel­lato all’ordine di eva­cua­zione della sua casa a opera degli sgherri padro­nali — Jones «saluta Cesco nella sua strada verso il cielo» e poi, rivolta a chi è rima­sto, gli intima di pren­dere il fucile e «man­dare i respon­sa­bili all’inferno». 

Lezioni per il presente
Fra i mina­tori emer­gono mili­tanti sin­da­cali socia­li­sti come Frank Keene che, forte della sua diretta espe­rienza in miniera, per decenni tesse la tela dell’organizzazione, den­tro, fuori, a lato del grande, ma a tratti, a livello nazio­nale, con­tro­verso e com­pro­mis­so­rio, sin­da­cato indu­striale, com­pren­dente cioè lavo­ra­tori qua­li­fi­cati e non, della Uni­ted Mine Wor­kers of Ame­rica. Emer­gono le donne che fanno comu­nità e par­te­ci­pano a pieno titolo alle lotte. Emer­gono l’idea e la pra­tica di una demo­cra­zia vis­suta come aspi­ra­zione quo­ti­diana e in con­ti­nua evo­lu­zione che si pro­ietta dai mar­gini eco­no­mici e poli­tici del paese verso il suo cen­tro per scuo­terlo. Come con­clude Green, «durante la loro mar­cia verso la libertà, i mina­tori orga­niz­zati del West Vir­gi­nia e le loro fami­glie assun­sero degli enormi rischi e fecero grandi sacri­fici. Lo fecero per­ché com­pre­sero che cosa una vit­to­ria poteva signi­fi­care per loro, per le loro fami­glie, per i loro vicini e per i loro com­pa­gni nelle miniere». Ma con­tem­po­ra­nea­mente «la loro lotta allargò e appro­fondì il signi­fi­cato della libertà in tutta l’America indu­striale». Una libertà, va riba­dito, come pra­tica rela­zio­nale e col­let­tiva che parte non dalla miope pri­gione della sovra­nità indi­vi­duale, ma dalla comune espe­rienza sul luogo di lavoro. Di fonte al modo col quale il lavoro è svi­lito oggi sotto tutte le lati­tu­dini rileg­gere que­ste pagine di una sto­ria appa­ren­te­mente tanto lon­tana pare qual­cosa di più di un sem­plice eser­ci­zio anti­qua­rio. Inter­roga la nostra capa­cità quo­ti­diana di rispet­tare noi stessi.

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