lunedì 11 maggio 2015

C'eravamo già Civati




I duri e puri
di Alessandra Longo  Repubblica 8.5.15
PIPPO è stato coerente, adesso tocca a voi. La base della sinistra Pd preme, spinge gli altri dissidenti a prendere la decisione dura e pura. Interessante il dibattito nel contenitore Facebook di Gianni Cuperlo. «Caro Gianni — scrive Stefano — sei stato il mio segretario nella Fgci. Civati è solo la punta dell’iceberg che finisce sui giornali. Sai benissimo che è in atto una “scissione silenziosa” di tanti semplici militanti in disaccordo con il caudillo fiorentino. Certo non è facile abbandonare il Pd per chi ci ha creduto ma quelli come te dovrebbero intraprendere una strada nuova». E Cristina: «Dai Gianni, esci anche tu, fai la cosa giusta». Gabriele (più aggressivo): «Te lo vedi Berlinguer che stava nel Pd! Nemmeno per idea, Avendo le palle avrebbe costruito un partito di sinistra vera». Invito alla rivolta, alla presa di distanza, alla scelte nette. Eduardo: «Caro Gianni, non puoi combattere con i fiori».

Il cantiere a sinistra tra la sconfitta di Miliband e le spine di Tsipras

Londra e Atene: Miliband sconfitto, Tsipras vincente ma in affanno Due storie di sinistra diverse ma comunque emblematiche per chi, a Roma, sta studiando un nuovo partito o vuole il ritorno al Pd del passato

di Lina Palmerini Il Sole 9.5.15

Continua da pagina 1 Le prove a sinistra fervono ormai da alcuni mesi. Fino all’accelerazione della settimana scorsa che ha visto il Pd spaccarsi sulla fiducia al Governo e sul voto all’Italicum. Un passaggio clou che ha riaperto un cantiere che aspira a costruire una sinistra doc, ortodossa, contro quella renziana di matrice popolare e moderata. Che sia la coalizione sociale di Landini o un partito vero e proprio, sul progetto stanno lavorando in molti e perfino Giuliano Pisapia in queste ore si è candidato a fare da pontiere tra il Pd renziano e la futura cosa di sinistra. Ma è soprattutto la minoranza Pd che si sta organizzando per riprendersi la ditta e riportarla su posizioni più a sinistra. Su ciascuna di queste ambizioni vale la lezione di Londra ma anche quella di Atene.
Cominciamo dalla batosta dei laburisti che non è di buon auspicio. Perché Miliband aveva riportato il partito dov’era prima di Blair, spostato a sinistra e vicino al sindacato, esattamente il contrario di quello che era stato il Labour che vinceva. Insomma, l’operazione di ritorno al “come eravamo” non ha funzionato ed è costato non solo la sconfitta ma anche le dimissioni di Miliband. Non è bastato declinare un programma di sinistra sui temi dell’economia e del lavoro per convincere soprattutto mentre i risultati positivi del Governo Cameron erano realtà e quindi più forti di un programma elettorale. E sono mancate pure risposte convincenti sull’immigrazione che ha un impatto proprio sulle fasce più povere e dunque rientra in pieno in una piattaforma di sinistra che non parli solo di accoglienza.
Non ha convinto il Labour sia pure fuori dall’euro e non convincono i socialisti di Hollande. Alle ultime amministrative di marzo sono finiti al terzo posto e sono apparsi privi di un profilo chiaro, stretti tra il richiamo al socialismo e quello all’Europa senza la capacità di saperli coniugare.
E in effetti uno dei cardini del problema sembra proprio questo: la compatibilità della sinistra dentro un’Europa fatta di regole che stressano lo stato sociale, riducono la spesa pubblica, promuovono nuovi contratti di lavoro. Regole non nate per caso ma in ragione dei cambiamenti radicali portati dalla globalizzazione, ondate migratorie, calo demografico che è preoccupante soprattutto in Italia. Questa è la realtà sul tavolo ma, a quanto pare, mancano risposte convincenti dei grandi partiti che fanno parte dei socialisti europei.
In questo senso se Miliband è stata la prova che non c’è un ritorno al passato per la sinistra, quello che accadrà in Grecia sarà la prova di cosa potrà essere una sinistra che vuole restare in Europa. Tsipras ha vinto le elezioni proponendo esattamente un conflitto tra la sinistra e le regole europee ed è questa la partita che tutti stanno guardando. L’obiettivo dichiarato è di cambiare il paradigma di Bruxelles, Berlino e della Bce senza però uscire dalla casa comune sbattendo la porta. Una sorta di terza via, insomma, che prevede una “rivoluzione” dall’interno senza rompere con l’Europa e con la moneta unica. Il punto è di natura economica, cioè un allentamento del dogma dell’austerità, ma anche di sovranità nazionale. Perché il programma elettorale con cui Syriza ha vinto le elezioni non è riconosciuto dall’Europa che pretende profonde correzioni a urne chiuse.
Lunedì c’è un nuovo round all’Eurogruppo ma l’intesa sembra lontana. Dall’esito di questo braccio di ferro si ridisegneranno anche i confini di una sinistra che vuole essere compatibile con l’Europa. Senza ritorni al passato e con programmi credibili. A meno di scegliere l’opzione no-euro, finora monopolio della destra populista. 


Nella ex caserma occupata prove di “coalizione sociale”
Landini e Civati sposano il “laboratorio Torino”di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa 9.5.15
Una caserma torinese di fine ’800, sede della polizia politica fascista nel 1943 con centinaia di partigiani torturati e fucilati, sede di uffici per l’Olimpiade del 2006, rifugio per profughi nel 2009, poi definitivamente abbandonata. Ora, occupata da tre settimane da un collettivo promosso da Terra del Fuoco, associazione legata a don Ciotti, e allargato a una platea vasta e tutt’altro che estremista, rappresenta il primo esperimento di «coalizione sociale» vagheggiata da Landini in quello che Civati ha definito «lo spazio sconfinato fuori dal Pd». Non è un laboratorio politologico ma sociale, ispirato alla sinistra greca di Tsipras. Nei prossimi giorni sfocerà in un manifesto nazionale con intellettuali, associazioni culturali, sindacati, politici. Non a caso i primi a sposarlo sono stati proprio Landini e Civati.
Il luogo è stato scelto perché carico di storia e altamente simbolico. Lo stato di abbandono penoso. Dal punto di vista giuridico, dopo la vendita dal Demanio alla Cassa Depositi e Prestiti (27 mila metri quadri di superficie a 300 euro al metro quadro), è in attesa di trasformazione urbanistica. Ai primi di aprile, l’associazione Terra del Fuoco chiede di poter ripulire la targa sul muro di fucilazione dei partigiani per celebrare il settantesimo anniversario della Resistenza. Destinatari della lettera la Cdp e Fassino, che ne è consigliere di amministrazione oltre che sindaco di Torino.
In assenza di risposta, il 18 aprile quaranta ragazzi scavalcano i cancelli e occupano. La risposta del Pd è dura, con la minaccia di tagliare i contributi pubblici all'associazione, aderendo a una richiesta della Lega. Ma l’occupazione prosegue. La targa viene mondata dalla polvere che negli anni l’aveva sepolta. E altri 500 metri quadri vengono ripuliti e destinati a varie funzioni: tre mostre sulla Resistenza, sala convegni e dibattiti (con un ricco programma nei giorni del Salone del libro, aperto da Ugo Mattei e chiuso da Matteo Pericoli), cineforum, teatro, biblioteca di quartiere, orto e spazio giochi per bambini, presto sala studio aperta 24 ore su 24, mensa popolare e mini-alloggi per sfrattati causa morosità incolpevole (Torino ne ha registrati 4000 l’anno scorso).
Contemporaneamente, il progetto politico prende forma. Arrivano Landini e Civati oltre al vendoliano Fratoianni, anche Susanna Camusso manifesta interesse, aderiscono i segretari provinciali di Cgil e Cisl e diverse associazioni, si mobilitano docenti universitari, decine di intellettuali come Beatrice Merz, Carlo Petrini e Marco Aime, il presidente dei giovani della comunità ebraica e la Chiesa valdese, si entusiasmano partigiani come Bruno Segre. In tre settimane, quasi 5 mila persone passano dalla caserma Lamarmora. Al pranzo del primo maggio 600 persone. E i volontari si quadruplicano. Lunedì il comitato che si è nel frattempo costituito incontrerà Fassino, quindi riferirà in un’assemblea.
L’idea è di diventare un laboratorio nazionale. Teoria della prassi, si diceva un tempo. Se mai la coalizione sociale smetterà di essere una suggestione, potrebbe partire da qui. 

Michela Marzano “Mi dimetterò presto con Matteo solo incapaci forse seguirò Civati”
intervista di Tommaso Ciriaco Repubblica 9.5.15
ROMA «Letta e Bersani mi chiesero di entrare in Parlamento per continuare a occuparmi di quanto insegno all’università: i diritti individuali. Dissi sì a un partito di sinistra e ai suoi valori. E invece… ». E invece la deputata del Pd Michela Marzano, una cattedra di filosofa morale a Parigi, è rimasta delusa.
Vuole lasciare il Parlamento?
«Penso di dimettermi, sì. Di tornare al mio lavoro di intellettuale. Di certo non arrivo a fine legislatura, però vorrei restare fino all’approvazione della legge sull’accesso alle origini e sulle unioni civili. Mi do ancora qualche mese per evitare che vengano stravolti».
Si dice delusa. Da cosa, in particolare?
«Dal Pd, da come funziona, da come si allontana sempre di più dai valori di sinistra».
Potrebbe lasciare il Pd per seguire Civati?
«Non lo escludo. Finché resto, il “dove” mi colloco è una questione aperta. E mi domando: se muta il dna di sinistra, sono io che abbandono il Pd o lui che abbandona me? Civati lo osservo, cerco di capire il suo progetto».
Boccia anche il Pd di Bersani. Allora perché si è candidata?
«La vera natura del Pd l’ho capita standoci dentro. Ho capito che si stava sbriciolando quando non hanno preso atto della “non vittoria” del 2013, come fatto dai leader inglesi in queste ore che si sono tutti dimessi».
E Renzi? Lo ha sostenuto alle primarie.
«Non mi pento. Non avrei votato Cuperlo: vedo nella minoranza logiche vecchie. Renzi prometteva un cambiamento radicale, necessario. Però ha raccattato pezzi di Scelta civica, mutando la natura del Pd. Cosa c’è di sinistra nella riforma della scuola? I più bravi, da noi, semplicemente non contano ».
E chi conta, oltre al premier?
«Mi disturba il modo in cui Renzi gestisce il potere. Si circonda di incompetenti e incapaci, così da poter decidere tutto lui. Ma non basta volere per potere. Esistono i limiti del reale che non si piega all’onnipotenza della volontà».
Voterà ancora la fiducia? Sull’Italicum non c’era.
«Ho il senso di appartenenza a un gruppo. Ho detto sì alla fiducia sull’Italicum, ma non c’ero al voto finale. Ero bloccata in aereo».
Ha chiuso con l’Italia e torna in Francia. Non teme di rendersi antipatica?
«“Nemo propheta in patria”, purtroppo. Il problema non è essere antipatica, ma non seguire il mondo come va. Ho lasciato l’Italia con sofferenza, sono tornata con orgoglio per restituire qualcosa. Meglio tornare in Francia se restare implica tradirsi». 

Elly Schlein “Volevo riportare Prodi ma ora non sopporto più le troppe scelte di destra”
“Dagli immigrati ai diritti civili alla fiducia sull’Italicum era insopportabile la perenne contraddizione”intervista di Eleonora Cappelli Repubblica 9.5.15
BOLOGNA «Vale la pena di lottare dentro al partito finché c’è il partito, ma io temo che non esista già più e si sia trasformato in un’altra cosa. Le nostre politiche stanno diventando di centrodestra». L’eurodeputata Elly Schlein lascia il Pd, sulle orme di Pippo Civati. Un anno fa è volata a Strasburgo con oltre 53 mila preferenze, dopo aver dato vita a Bologna a Occupy Pd ed essere andata sotto casa di Romano Prodi a chiedergli di riprendere la tessera dei democratici. Ora l’addio.
Elly Schlein, qual è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso?
«Sono mesi che il governo fa cose in cui non riesco a riconoscermi, ma la fiducia sull’Italicum è stato un vero colpo. L’elenco è lungo: questo è il governo che ha messo fine a Mare Nostrum e io non sono affatto convinta che Triton sia una risposta adeguata. Lotto per i diritti civili e il mio ministro dell’Interno impone la cancellazione delle nozze tra persone dello stesso sesso. Sogno un futuro sostenibile e mi ritrovo le trivelle rimesse in moto dallo Sblocca Italia. Non sopportavo più questa perenne contraddizione ».
Anche “Occupy Pd”, nato sull’onda della delusione del voto del 2013, era una protesta. Però lei ha sempre detto di voler cambiare il partito da dentro.
«Noi occupammo le sedi del partito contro le larghe intese, ma ora sono le larghe intese che stanno occupando noi. Il Pd non è quello che era nato per essere. Comunque deve preoccupare non il mio addio, o quello di Civati, ma le scissioni silenziose dei nostri elettori».
Cosa intende?
«Il mio segretario ha sostenuto che il 37% di affluenza in Emilia alle ultime regionali era un dato secondario. Come si fa a pensare una cosa simile? Io ho sempre lavorato per riportare a votare quelli che non ci andavano. C’è una sofferenza evidente, in tutta Italia: guardiamo in Campania, quello che ha scritto Roberto Saviano, guardiamo la Sicilia e le primarie di Agrigento. Pensiamo alla Liguria. Io non riesco a staccare il locale dal nazionale ».
Lei voleva convincere Prodi a tornare nel Pd, ma alla fine l’ha imitato nel non rinnovare la tessera… «Prodi ha le sue ragioni per essere purtroppo oggi fuori dalla politica, ma lui per me è stato un faro e lo è ancora oggi».
Cosa risponde a chi la accusa di voler far perdere il Pd, o di essere conservatrice?
«Io ho compiuto 30 anni tre giorni fa, come fanno a dirmi che non voglio cambiare? Solo che c’è differenza tra cambiare in meglio e in peggio».
Sel le dà in benvenuto a sinistra. E c’è chi la vede protagonista alle comunali di Bologna del 2016.
«No, il mio sguardo oggi è solo ai compagni che lascio». 

Renzi attacca D’Alema e i «ribelli»: c’è una sinistra a cui piace perdere
A Genova con Paita. La replica alle accuse dell’ex premier sul calo di iscrittidi Marco Imarisio Corriere 9.5.15
DAL NOSTRO INVIATO GENOVA Che botte, ragazzi. «Questo è il terreno della partita tra la sinistra che coltiva il desiderio di perdere da sola contro quella che preferisce vincere insieme». Sarà che la Liguria è ormai il ring sul quale voleranno i primi sganassoni, elezioni regionali che all’improvviso hanno assunto il valore di una prova di laboratorio per verificare lo spazio di una possibile esistenza in vita oltre il Pd. Comunque Matteo Renzi ci va pesante con la fronda di Luca Pastorino, deputato europeo uscito dal gruppo ancora prima del suo mentore Pippo Civati per creare una lista che numeri alla mano complica di molto la vita al Partito democratico. «C’è chi vuole cambiare le cose e chi invece si accontenta di perdere e far perdere» dice, quasi un invito mascherato al voto utile.
Ai Magazzini del Cotone nel porto antico di Genova ci sono diversi tipi di sinistra. Il servizio d’ordine è fornito dai camalli della Compagnia unica, armadi a quattro ante con jeans sdrucito e giubbotto di pelle inneggiante al compianto padre nobile Paride Batini che amava definirsi come l’ultimo stalinista, la cui figlia corre però con una lista tutta sua, a sinistra dell’ipersinistra. In platea si fa notare la grisaglia leggermente più riformista di Vittorio Malacalza, fresco primo azionista di Carige, il più lesto ad abbracciare e baciare la candidata del Pd al suo ingresso in sala, seguito da Aldo Spinelli, storico signore della terminalistica portuale e altri pezzi di potere ligure.
Quando si abbassano le luci, la prima a parlare è Paita, portatrice di una candidatura sofferta e di una determinazione che la sta portando a una campagna elettorale molto vivace, poco incline ai compromessi. A lei tocca la bastonatura degli avversari esterni, a cominciare dal centrodestra e da Giovanni Toti, descritto come un candidato riluttante, desideroso di tornare presto alle sue comparsate nei talk show. «L’idea che lui possa battermi spaventa voi ma soprattutto lui».
Al fronte interno ci pensa invece il presidente del Consiglio, che mette insieme vecchi e nuovi concorrenti usando come argomenti a sostegno delle sue tesi anche la disfatta laburista in Inghilterra. Massimo D’Alema, che a mezzo stampa aveva alzato il dito citando il calo di iscritti nel Pd diventa così un campione dei «nostalgici del 25 per cento, quelli che stavano bene quando si perdeva, quelli che hanno avuto la loro occasione e l’hanno persa». L’analisi renziana del voto nel Regno Unito, molto pro domo sua , gioca molto sulla scelta del Miliband sbagliato. I laburisti avevano David, pupillo di Tony Blair, e Ed «molto radicale, capace di diventare segretario con l’aiuto della burocrazia di partito». Scegliendo l’ultimo hanno messo fine all’esperienza del blairismo. Morale a futura memoria della favola albionica: «Quando la sinistra sceglie di non giocare la partita del riformismo, può vincere qualche congresso ma perderà sempre le elezioni».
Londra chiama Bogliasco, paese del quale il reprobo Pastorino è sindaco. «Lo è diventato con i voti del Pd, così come è diventato eurodeputato, poi ha scelto di lasciare il partito senza per altro dimettersi dalle due cariche. Facendo così rappresenta lo spot migliore della sinistra che vuole perdere sempre e comunque». Renzi evita di dirlo, ma oltre al rimpianto per la terza via, elezioni inglesi e liguri hanno in comune anche un numero. «Si è parlato di deriva autoritaria a proposito della nostra riforma elettorale, ma guardate l’Inghilterra dove oggi col 36% dei voti i conservatori hanno la maggioranza assoluta. Con la nostra riforma invece saremmo andati al ballottaggio».
Con la legge elettorale ligure, invece, quella è la percentuale richiesta per avere il premio di maggioranza necessario a governare. Se non ci arrivi, sei costretto ad alleanze che avrebbero il sapore della resa alla minaccia da sinistra oppure quello del compromesso in odor di patto del Nazareno che darebbe vento alle vele di Civati e dintorni, non solo in Liguria. La posta in gioco è questa. A giudicare dalle carezze rifilate al convitato di pietra Pastorino, in Liguria non si gioca una partita da poco.
L’ex premier: “Non mi preoccupa solo chi esce come Civati, ma chi imbarchiamo” Il premier: “Sei nostalgico del 25%”. E su Miliband: si perde se si va troppo a sinistradi Carlo Bertini La Stampa 9.5.15
Usa la vittoria di Cameron, che chiama al telefono per complimentarsi, per lanciare il segnale che più gli preme alla vigilia di sfide elettorali dove bisogna fare il pieno a largo raggio. «Quando la sinistra rinuncia al riformismo e gioca la carta dell’estremismo può vincere qualche congresso ma perde le elezioni», dice Matteo Renzi per spiegare ad una platea sensibile come quella genovese che la «sinistra masochista preferisce perdere da sola che vincere insieme». Dunque un doppio affondo, prima a Firenze contro gli ex leader che non hanno fatto le riforme al tempo giusto, del lavoro e istituzionali; e poi a Genova, contro una sinistra nostalgica di quando il Pd non superava il 25%: Renzi rievoca la rottamazione, cui allude attaccando in senso lato i suoi predecessori e una sinistra che non cavalca il cambiamento. È una polemica che entra nel vivo dello scontro maturato in queste settimane dentro il Pd sulle riforme, una polemica che tocca il nervo sensibile di chi deve scegliere se stare dalla parte del Pd renziano oppure no. «Bisogna mandare in vacanza i professionisti del “non ce la faremo mai”: sono 20 anni che hanno l’egemonia culturale!».
Lo scontro a distanza
E si consuma infatti uno scontro a distanza con Massimo D’Alema, che da Pisa aveva lanciato bordate pesanti sul Pd che «ha perso 100 mila iscritti» e sull’Italicum che «è una legge di destra». Bordate che il premier non incassa in silenzio. Ingaggiando una polemica durissima proprio nel teatro di una contesa elettorale che si consumerà nel campo della sinistra, quella Liguria messa a rischio dai frondisti, dalle liste del candidato civatiano Luca Pastorino, concorrente della Paita. Che il premier difende, attaccando quelli come Cofferati e Civati che lasciano il partito quando perdono. «Non si tratta solo di Civati. Mi preoccupano quelli che se ne vanno, ma anche quelli che vengono», attacca sferzante D’Alema. Forse riferendosi anche agli imbarcati nelle liste campane che scuotono il Pd. L’ex premier liquida «l’arroganza che fa perdere consensi» e bolla l’Italicum come una legge che relega il coinvolgimento dei cittadini come «contorno al protagonismo del leader». 
Renzi contrattacca prendendosela con i suoi predecessori in senso lato, «se la riforma del lavoro si fosse fatta nel 2004, come in Germania, adesso avremmo una situazione occupazionale diversa. Se la legge elettorale fosse stata fatta prima, sarebbe stato un segnale più forte». E poi affonda il colpo da Genova. «Qualcuno oggi dice che perdiamo iscritti: sono i nostalgici del 25%, quelli che stavano bene quando si perdeva, quelli che hanno avuto la loro occasione e l’hanno persa». Per chiudere con un appello ai militanti a non farsi incantare dalle sirene di una sinistra barricadera, «questa terra non deve limitarsi a essere oggetto di un ricatto politico, il tentativo di una minoranza di impedire alla sinistra di essere maggioranza».
Temi caldi e consenso
Il premier è costretto a saltare da un teatro di voto all’altro, passa anche per Aosta, dove richiama le regioni al principio di solidarietà per gestire l’emergenza profughi. Proprio nei giorni di campagna elettorale infatti deve gestire fronti bollenti, come immigrazione, scuola e pensioni, temi sensibilissimi sul piano del consenso. Così si spiegano gli sforzi dei suoi colonnelli che cercano una mediazione sulla «Buona Scuola»: entro fine maggio andrà votata alla Camera, con un accordo che riesca ad accontentare tutti. 

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