di Alessandra Longo Repubblica 8.5.15
Landini e Civati sposano il “laboratorio Torino”di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa 9.5.15
Una caserma torinese di fine ’800, sede della polizia politica fascista nel 1943 con centinaia di partigiani torturati e fucilati, sede di uffici per l’Olimpiade del 2006, rifugio per profughi nel 2009, poi definitivamente abbandonata. Ora, occupata da tre settimane da un collettivo promosso da Terra del Fuoco, associazione legata a don Ciotti, e allargato a una platea vasta e tutt’altro che estremista, rappresenta il primo esperimento di «coalizione sociale» vagheggiata da Landini in quello che Civati ha definito «lo spazio sconfinato fuori dal Pd». Non è un laboratorio politologico ma sociale, ispirato alla sinistra greca di Tsipras. Nei prossimi giorni sfocerà in un manifesto nazionale con intellettuali, associazioni culturali, sindacati, politici. Non a caso i primi a sposarlo sono stati proprio Landini e Civati.
Il luogo è stato scelto perché carico di storia e altamente simbolico. Lo stato di abbandono penoso. Dal punto di vista giuridico, dopo la vendita dal Demanio alla Cassa Depositi e Prestiti (27 mila metri quadri di superficie a 300 euro al metro quadro), è in attesa di trasformazione urbanistica. Ai primi di aprile, l’associazione Terra del Fuoco chiede di poter ripulire la targa sul muro di fucilazione dei partigiani per celebrare il settantesimo anniversario della Resistenza. Destinatari della lettera la Cdp e Fassino, che ne è consigliere di amministrazione oltre che sindaco di Torino.
In assenza di risposta, il 18 aprile quaranta ragazzi scavalcano i cancelli e occupano. La risposta del Pd è dura, con la minaccia di tagliare i contributi pubblici all'associazione, aderendo a una richiesta della Lega. Ma l’occupazione prosegue. La targa viene mondata dalla polvere che negli anni l’aveva sepolta. E altri 500 metri quadri vengono ripuliti e destinati a varie funzioni: tre mostre sulla Resistenza, sala convegni e dibattiti (con un ricco programma nei giorni del Salone del libro, aperto da Ugo Mattei e chiuso da Matteo Pericoli), cineforum, teatro, biblioteca di quartiere, orto e spazio giochi per bambini, presto sala studio aperta 24 ore su 24, mensa popolare e mini-alloggi per sfrattati causa morosità incolpevole (Torino ne ha registrati 4000 l’anno scorso).
Contemporaneamente, il progetto politico prende forma. Arrivano Landini e Civati oltre al vendoliano Fratoianni, anche Susanna Camusso manifesta interesse, aderiscono i segretari provinciali di Cgil e Cisl e diverse associazioni, si mobilitano docenti universitari, decine di intellettuali come Beatrice Merz, Carlo Petrini e Marco Aime, il presidente dei giovani della comunità ebraica e la Chiesa valdese, si entusiasmano partigiani come Bruno Segre. In tre settimane, quasi 5 mila persone passano dalla caserma Lamarmora. Al pranzo del primo maggio 600 persone. E i volontari si quadruplicano. Lunedì il comitato che si è nel frattempo costituito incontrerà Fassino, quindi riferirà in un’assemblea.
L’idea è di diventare un laboratorio nazionale. Teoria della prassi, si diceva un tempo. Se mai la coalizione sociale smetterà di essere una suggestione, potrebbe partire da qui.
intervista di Tommaso Ciriaco Repubblica 9.5.15
ROMA «Letta e Bersani mi chiesero di entrare in Parlamento per continuare a occuparmi di quanto insegno all’università: i diritti individuali. Dissi sì a un partito di sinistra e ai suoi valori. E invece… ». E invece la deputata del Pd Michela Marzano, una cattedra di filosofa morale a Parigi, è rimasta delusa.
Vuole lasciare il Parlamento?
«Penso di dimettermi, sì. Di tornare al mio lavoro di intellettuale. Di certo non arrivo a fine legislatura, però vorrei restare fino all’approvazione della legge sull’accesso alle origini e sulle unioni civili. Mi do ancora qualche mese per evitare che vengano stravolti».
Si dice delusa. Da cosa, in particolare?
«Dal Pd, da come funziona, da come si allontana sempre di più dai valori di sinistra».
Potrebbe lasciare il Pd per seguire Civati?
«Non lo escludo. Finché resto, il “dove” mi colloco è una questione aperta. E mi domando: se muta il dna di sinistra, sono io che abbandono il Pd o lui che abbandona me? Civati lo osservo, cerco di capire il suo progetto».
Boccia anche il Pd di Bersani. Allora perché si è candidata?
«La vera natura del Pd l’ho capita standoci dentro. Ho capito che si stava sbriciolando quando non hanno preso atto della “non vittoria” del 2013, come fatto dai leader inglesi in queste ore che si sono tutti dimessi».
E Renzi? Lo ha sostenuto alle primarie.
«Non mi pento. Non avrei votato Cuperlo: vedo nella minoranza logiche vecchie. Renzi prometteva un cambiamento radicale, necessario. Però ha raccattato pezzi di Scelta civica, mutando la natura del Pd. Cosa c’è di sinistra nella riforma della scuola? I più bravi, da noi, semplicemente non contano ».
E chi conta, oltre al premier?
«Mi disturba il modo in cui Renzi gestisce il potere. Si circonda di incompetenti e incapaci, così da poter decidere tutto lui. Ma non basta volere per potere. Esistono i limiti del reale che non si piega all’onnipotenza della volontà».
Voterà ancora la fiducia? Sull’Italicum non c’era.
«Ho il senso di appartenenza a un gruppo. Ho detto sì alla fiducia sull’Italicum, ma non c’ero al voto finale. Ero bloccata in aereo».
Ha chiuso con l’Italia e torna in Francia. Non teme di rendersi antipatica?
«“Nemo propheta in patria”, purtroppo. Il problema non è essere antipatica, ma non seguire il mondo come va. Ho lasciato l’Italia con sofferenza, sono tornata con orgoglio per restituire qualcosa. Meglio tornare in Francia se restare implica tradirsi».
“Dagli immigrati ai diritti civili alla fiducia sull’Italicum era insopportabile la perenne contraddizione”intervista di Eleonora Cappelli Repubblica 9.5.15
BOLOGNA «Vale la pena di lottare dentro al partito finché c’è il partito, ma io temo che non esista già più e si sia trasformato in un’altra cosa. Le nostre politiche stanno diventando di centrodestra». L’eurodeputata Elly Schlein lascia il Pd, sulle orme di Pippo Civati. Un anno fa è volata a Strasburgo con oltre 53 mila preferenze, dopo aver dato vita a Bologna a Occupy Pd ed essere andata sotto casa di Romano Prodi a chiedergli di riprendere la tessera dei democratici. Ora l’addio.
Elly Schlein, qual è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso?
«Sono mesi che il governo fa cose in cui non riesco a riconoscermi, ma la fiducia sull’Italicum è stato un vero colpo. L’elenco è lungo: questo è il governo che ha messo fine a Mare Nostrum e io non sono affatto convinta che Triton sia una risposta adeguata. Lotto per i diritti civili e il mio ministro dell’Interno impone la cancellazione delle nozze tra persone dello stesso sesso. Sogno un futuro sostenibile e mi ritrovo le trivelle rimesse in moto dallo Sblocca Italia. Non sopportavo più questa perenne contraddizione ».
Anche “Occupy Pd”, nato sull’onda della delusione del voto del 2013, era una protesta. Però lei ha sempre detto di voler cambiare il partito da dentro.
«Noi occupammo le sedi del partito contro le larghe intese, ma ora sono le larghe intese che stanno occupando noi. Il Pd non è quello che era nato per essere. Comunque deve preoccupare non il mio addio, o quello di Civati, ma le scissioni silenziose dei nostri elettori».
Cosa intende?
«Il mio segretario ha sostenuto che il 37% di affluenza in Emilia alle ultime regionali era un dato secondario. Come si fa a pensare una cosa simile? Io ho sempre lavorato per riportare a votare quelli che non ci andavano. C’è una sofferenza evidente, in tutta Italia: guardiamo in Campania, quello che ha scritto Roberto Saviano, guardiamo la Sicilia e le primarie di Agrigento. Pensiamo alla Liguria. Io non riesco a staccare il locale dal nazionale ».
Lei voleva convincere Prodi a tornare nel Pd, ma alla fine l’ha imitato nel non rinnovare la tessera… «Prodi ha le sue ragioni per essere purtroppo oggi fuori dalla politica, ma lui per me è stato un faro e lo è ancora oggi».
Cosa risponde a chi la accusa di voler far perdere il Pd, o di essere conservatrice?
«Io ho compiuto 30 anni tre giorni fa, come fanno a dirmi che non voglio cambiare? Solo che c’è differenza tra cambiare in meglio e in peggio».
Sel le dà in benvenuto a sinistra. E c’è chi la vede protagonista alle comunali di Bologna del 2016.
«No, il mio sguardo oggi è solo ai compagni che lascio».
A Genova con Paita. La replica alle accuse dell’ex premier sul calo di iscrittidi Marco Imarisio Corriere 9.5.15
DAL NOSTRO INVIATO GENOVA Che botte, ragazzi. «Questo è il terreno della partita tra la sinistra che coltiva il desiderio di perdere da sola contro quella che preferisce vincere insieme». Sarà che la Liguria è ormai il ring sul quale voleranno i primi sganassoni, elezioni regionali che all’improvviso hanno assunto il valore di una prova di laboratorio per verificare lo spazio di una possibile esistenza in vita oltre il Pd. Comunque Matteo Renzi ci va pesante con la fronda di Luca Pastorino, deputato europeo uscito dal gruppo ancora prima del suo mentore Pippo Civati per creare una lista che numeri alla mano complica di molto la vita al Partito democratico. «C’è chi vuole cambiare le cose e chi invece si accontenta di perdere e far perdere» dice, quasi un invito mascherato al voto utile.
Ai Magazzini del Cotone nel porto antico di Genova ci sono diversi tipi di sinistra. Il servizio d’ordine è fornito dai camalli della Compagnia unica, armadi a quattro ante con jeans sdrucito e giubbotto di pelle inneggiante al compianto padre nobile Paride Batini che amava definirsi come l’ultimo stalinista, la cui figlia corre però con una lista tutta sua, a sinistra dell’ipersinistra. In platea si fa notare la grisaglia leggermente più riformista di Vittorio Malacalza, fresco primo azionista di Carige, il più lesto ad abbracciare e baciare la candidata del Pd al suo ingresso in sala, seguito da Aldo Spinelli, storico signore della terminalistica portuale e altri pezzi di potere ligure.
Quando si abbassano le luci, la prima a parlare è Paita, portatrice di una candidatura sofferta e di una determinazione che la sta portando a una campagna elettorale molto vivace, poco incline ai compromessi. A lei tocca la bastonatura degli avversari esterni, a cominciare dal centrodestra e da Giovanni Toti, descritto come un candidato riluttante, desideroso di tornare presto alle sue comparsate nei talk show. «L’idea che lui possa battermi spaventa voi ma soprattutto lui».
Al fronte interno ci pensa invece il presidente del Consiglio, che mette insieme vecchi e nuovi concorrenti usando come argomenti a sostegno delle sue tesi anche la disfatta laburista in Inghilterra. Massimo D’Alema, che a mezzo stampa aveva alzato il dito citando il calo di iscritti nel Pd diventa così un campione dei «nostalgici del 25 per cento, quelli che stavano bene quando si perdeva, quelli che hanno avuto la loro occasione e l’hanno persa». L’analisi renziana del voto nel Regno Unito, molto pro domo sua , gioca molto sulla scelta del Miliband sbagliato. I laburisti avevano David, pupillo di Tony Blair, e Ed «molto radicale, capace di diventare segretario con l’aiuto della burocrazia di partito». Scegliendo l’ultimo hanno messo fine all’esperienza del blairismo. Morale a futura memoria della favola albionica: «Quando la sinistra sceglie di non giocare la partita del riformismo, può vincere qualche congresso ma perderà sempre le elezioni».
Londra chiama Bogliasco, paese del quale il reprobo Pastorino è sindaco. «Lo è diventato con i voti del Pd, così come è diventato eurodeputato, poi ha scelto di lasciare il partito senza per altro dimettersi dalle due cariche. Facendo così rappresenta lo spot migliore della sinistra che vuole perdere sempre e comunque». Renzi evita di dirlo, ma oltre al rimpianto per la terza via, elezioni inglesi e liguri hanno in comune anche un numero. «Si è parlato di deriva autoritaria a proposito della nostra riforma elettorale, ma guardate l’Inghilterra dove oggi col 36% dei voti i conservatori hanno la maggioranza assoluta. Con la nostra riforma invece saremmo andati al ballottaggio».
Con la legge elettorale ligure, invece, quella è la percentuale richiesta per avere il premio di maggioranza necessario a governare. Se non ci arrivi, sei costretto ad alleanze che avrebbero il sapore della resa alla minaccia da sinistra oppure quello del compromesso in odor di patto del Nazareno che darebbe vento alle vele di Civati e dintorni, non solo in Liguria. La posta in gioco è questa. A giudicare dalle carezze rifilate al convitato di pietra Pastorino, in Liguria non si gioca una partita da poco.
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