giovedì 14 maggio 2015

Cultura umanista & cultura scienziata nella finzione mediatica di un Imbroglione Giovane, cazzaro da televendita notturna

'Buona scuola' alla Camera   diretta tv   Garante: "Scrutini? Sarà precettazione"


In un video pubblicato sul sito del governo il presidente del Consiglio illustra punto per punto il ddl sulla scuola. Nove 'capitoli' per spiegare la riforma


«Spinelli eletta con i nostri voti Vada dove la porta il cuore»
di Alessandro Trocino Corriere 14.5.15
Vendola: i dissidenti pd? Invito chi vuole una sinistra moderna

ROMA Barbara Spinelli lascia la lista Tsipras ma non il Parlamento europeo. «Ricordo che è stata eletta con i nostri voti. Ma, per dirla con la scrittrice: vada dove la porta il cuore». Nichi Vendola, leader di Sel, ha gli occhi altrove. A una situazione politica in fermento, con il renzismo che avanza e una protesta sociale che cresce.
Partiamo dal Pd.
«Il Pd non c’è più. C’è il partito della nazione, che si fonda su due pilastri: populismo dall’alto e trasformismo. Che portano a un cinismo e a una spregiudicatezza contro la quale non basta evocare Cantone».
Non è fisiologico, quando si cerca la maggioranza, allargare l’area del consenso?
«Non è fisiologico imbarcare quadri legati a Cuffaro e Lombardo in Sicilia, seconde file di Scajola in Liguria. Per non parlare della presenza di gomorra, denunciata da Saviano nella Campania di De Luca. Populismo e retorica del cambiamento si saldano con i poteri forti e le piccole nomenclature. È il tramonto della politica come partecipazione, che rinasce come pubblicità e talk».
Anche lei è stato accusato di retorica e populismo.
«Non ho praticato l’arte retorica: ho governato per 10 anni la Puglia, con risultati che dovrebbero essere letti nella lente della Corte dei conti».
Lei crede davvero che Renzi abbia un progetto autoritario e sia un pericolo per la democrazia? Non esagera?
«Bisogna misurare le parole, ma smisurate sono le scelte del governo. L’autoritarismo è un vizietto di Renzi. Cosa rimproveravamo a Berlusconi? Confidenza con la mafia, attacco al mondo del lavoro, alla scuola pubblica, alla democrazia parlamentare. Vedo sinistre somiglianze con lui. E poi la scuola: si costruisce la figura del preside-gerarca e si svalorizza la funzione dell’insegnamento».
E voi? Quale futuro per la sinistra radicale?
«Radicale? C’è bisogno di una sinistra senza aggettivi. Non di una somma algebrica di cespugli, ma di una sinistra plurale, curiosa, che coniughi realismo e utopia. Guardiamo anche all’esempio di Pisapia».
La lista Tsipras aveva questo obiettivo ed è naufragata.
«Allora era importante: il suo limite è stato di essere un cartello elettorale, la rozza sommatoria di un’edificazione last minute. Ora dobbiamo aprire un cantiere dell’innovazione».
Cantiere è una bella parola, ma in concreto come si costruisce? Con chi esce dal Pd?
«La diaspora è importante. Porterà a compimento la mutazione del Pd consentendo di uscire dalla strabiliante ambiguità in cui sguazza Renzi».
Sta invitando Bersani e company a uscire per accelerare il processo?
«Non chiedo a nessuno di entrare in Sel. Mi interessa la partita, non il partito. Invito chi vuole costruire una sinistra moderna a fare un passo avanti. Siamo disponibili a metterci in discussione, a sciogliere i gruppi e costituirne di nuovi».
Quando accadrà e come?
«Dopo le Regionali ci saranno novità interessanti. Sarà importante il contributo della Cgil, per la prima volta motore dell’opposizione sociale. E della Fiom di Landini».
Serviranno anche i 5 Stelle?
«Non mi piacciono quando imboccano la strada dell’urlo populista o della bestemmia salvifica. Ma sono protagonisti importanti della politica. La marcia per il reddito è ossigeno per tutti. Con loro ci possono essere sviluppi interessanti».


L’ordine di scuderia della minoranza dem: niente uscite solitarie
Con Fassina anche Gregori è pronta a lasciaredi Monica Guerzoni Corriere 14.5.15
ROMA L’avviso di sfratto a Fassina è arrivato come una manciata di sale sulle ferite della minoranza Pd. «Se se ne va, è un problema suo» lo ha salutato Renzi, confermando il timore che certe frasi contro la «sinistra masochista» le pronunci per drammatizzare, per isolare i più integralisti costringendoli a lasciare il Pd.

Alla sfida del leader Fassina non replica, impegnato com’è a riformare la riforma della scuola: «Non mi interessa rispondere. Io ho posto un problema politico, mentre lui la butta sul personale». Quando uscirà dal Pd? «La decisione è connessa alle scelte del governo sulla scuola. Se il ddl non cambia nemmeno al Senato, me ne vado». Per ora l’ex viceministro non lascia e deposita tre emendamenti sulla scuola. I «big» della minoranza lo implorano di non andarsene alla spicciolata. Da Bersani alla Bindi, da Speranza a Cuperlo, la linea è «niente uscite solitarie», il fronte antirenziano deve marciare unito e lavorare dall’interno: per spostare a sinistra il timone del Pd, o almeno per segnare qualche punto nelle aule parlamentari. Se poi la minoranza non avrà più margini di manovra il tema di uscire giocoforza si porrà, ma solo quando il progetto di un nuovo partito avrà preso forma.
«Non so pensare un Pd senza Fassina — lo difende Rosy Bindi — Io lo considero essenziale dentro al partito». Monica Gregori dice che «Renzi sbaglia, se Fassina esce è un problema di tutto il partito». Il tormento della deputata di Tivoli sembra senza ritorno: «Ho difficoltà a riconoscermi nel Pd dell’uomo solo al comando. Comincio a pensare che a Renzi farebbe piacere se una parte della minoranza decidesse di uscire... Il Pd è deviato verso una linea di destra e i compagni sul territorio non ce la fanno più. Se continua a toglierci l’aria dovremo uscire, ma andarsene da soli non serve».
Fassina non fa nomi e non dà numeri. «Non sono solo — assicura — ma non credo che alla Camera la cosa possa ambire al nome di scissione». Michela Marzano se ne andrà dopo le unioni civili, lei non è iscritta al Pd e lascerà il Parlamento: «Se non fai parte di una corrente nessuno ti ascolta e ti senti inutile. Fassina è una persona integra e io lo stimo, ma la sinistra di opposizione è priva di coordinamento. Prima si lavora a livello culturale, poi si pensa ai contenitori».
Il disagio è sempre più forte. Come va dicendo Bersani ai suoi, «c’è un limite a tutto». Roberto Speranza è preoccupato per il «disagio profondo della base» e oggi con i fedelissimi farà un punto sulla scuola: «Il Pd senza sinistra non esiste. Ora siamo tutti impegnati per sostenere il simbolo alla regionali, ma dopo servirà una riflessione seria su cosa è il Pd». Fuori, Civati accelera sui nuovi gruppi. Al Senato ha convinto otto esponenti del Misto a passare con lui, «ex cinquestelle ma non solo». E i quattro civatiani? Per ora restano, chi per convenienza e chi per strategia. Lucrezia Ricchiuti si dice «totalmente d’accordo con il referendum di Civati sull’Italicum» e Mineo avverte Renzi sulla scuola: «La maggioranza al Senato se la deve cercare, perché non ce l’ha».


l premier studia la fase 2 pace con la minoranza e un rimpastino a giugno
Nessun ministro sostituito ma in gioco ci sono almeno due sottosegretari e sei presidenti di commissionedi Francesco Bei Repubblica 14.5.15
ROMA Il conto alla rovescia è iniziato: tra meno di un mese, dopo le regionali, Renzi premerà il tasto rosso del “restart”. E darà il via all’ultima fase del governo, quella che lo traghetterà fino alle prossime elezioni. Riforme economiche, delega fiscale, sostegno alle imprese, completamento del Jobs Act e della Buona scuola, e ovviamente nuovo Senato. Nella consapevolezza che, «come avvenuto con Cameron in Inghilterra, anche noi ci giochiamo tutto sulla crescita».

Funzionale a questa “fase due” è anche l’operazione che a palazzo Chigi stanno studiando a tavolino. Quella di un rafforzamento interno, soprattutto della base parlamentare del Pd. È un piano che passa da un “rimpastino”, per offrire a quella parte di minoranza dialogante un coinvolgimento diretto nella nuova “Srl renziana” che ha preso il posto della vecchia Ditta di Bersani. Ma il premier non pensa a sostituzioni nella squadra di governo, i ministri resteranno quelli. Anche Stefania Giannini, data in partenza fino a qualche mese fa, è ormai salda in sella a combattere in prima linea per la riforma della scuola. Lo tsunami investirà invece le commissioni parlamentari, dove ben sei presidenti — con tutti i loro poteri e la visibilità mediatica — saranno spazzati via. Presidenti di Forza Italia, ovviamente. Che hanno iniziato la legislatura in maggioranza e sono passati da un anno e mezzo all’opposizione. Un’anomalia parlamentare — i presidenti delle commissioni, proprio per il loro ruolo delicato, appartengono sempre alla coalizione di governo — che il premier intende sanare subito dopo il voto. Tanto più che il 7 maggio sono scaduti i due anni canonici, al termine dei quali i presidenti di commissione vanno riconfermati.
La prassi parlamentare prevede una conferma scontata e la decapitazione dei sei forzisti sarebbe senza precedenti. E tuttavia senza precedenti, fanno notare i renziani, è anche la presenza di presidenti d’opposizione. Dunque alla Camera dovranno lasciare il proprio ufficio Francesco Sisto alla affari costituzionali, Elio Vito alla Difesa, Daniele Capezzone alla Finanze, mentre Galan alla Cultura è stato fatto fuori dai giudici ma il suo posto non è stato ancora riassegnato. A palazzo Madama rischiano invece Francesco Nitto Palma alla Giustizia e Altero Matteoli alla Lavori Pubblici.
Se questa è la situazione in Parlamento, per il governo il premier prevede solo minimi ritocchi. Chi è andato via sarà sostituito ma nulla di più. Al posto della Lanzetta al ministero degli Affari regionali si riparla di Gaetano Quagliariello; la poltrona di viceministro allo Sviluppo economico che era di Claudio De Vincenti, diventato sottosegretario alla presidenza, dovrebbe andare a Scelta civica (che ha perso, con il passaggio della Giannini al Pd, l’unico posto in Consiglio dei ministri); a Ncd andrà un sottosegretario alle Infrastrutture, per coprire il posto lasciato da Antonio Gentile.
Se è chiaro chi se ne andrà, resta ancora aperta la partita di chi sarà eletto al posto dei forzisti sacrificati. Se la Affari costituzionali della Camera, una commissione chiave, dovrebbe essere coperta da un renziano di provata fede come Emanuele Fiano e alla Cultura si pensa da tempo alla renziana Flavia Piccoli Nardelli, per le altre presidenze il leader del Pd guarda piuttosto alla minoranza più dialogante. E sarà tra quella quarantina di deputati di Area riformista, che ieri si sono incontrati alla Camera per disconoscere la leadership di Roberto Speranza, che andranno cercati le nuove guide delle commissioni. Quanto al Senato, molto dipenderà anche da quello che accadrà a Forza Italia dopo le regionali. «Se davvero ci sarà il Big Bang che ci hanno preannunciato — spiffera un renziano della cerchia stretta — allora non è escluso che una o due presidenze di commissione possano restare a quelli tra loro che sceglieranno di sostenere il governo». Altrimenti per il posto di Nitto Palma già si parla di Beppe Lumia.
In questa girandola di poltrone, c’è n’è però una che resterà ferma. È quella del capogruppo facente funzioni Ettore Rosato, franceschiniano e fedele alla linea di palazzo Chigi. L’assemblea per eleggerlo è stata spostata a dopo le regionali, perché anche la sua conferma è un tassello dell’operazione per accontentare le varie anime del partito. E arrivare al Congresso prima delle elezioni con il vento in poppa.


Le regionali di Renzi: una prova di leadership
Ogni volta che le riforme toccano la vita dei cittadini è il premier a rischiare in prima personadi Stefano Folli Repubblica 14.5.15
DICE molto l’immagine di Renzi in piedi davanti a una lavagna tradizionale — non una “slide” — con in mano un gessetto per spiegare agli italiani la riforma della scuola. Un’iconografia pedagogica per parlare all’opinione pubblica in un momento in cui il termine “riforma” evoca resistenze e barricate. Il premier ha capito che la grana spetta a lui, non può essere delegata a nessun altro. E si capisce perché. La scuola é il terreno su cui si saldano gli avversari politici e sindacali della stagione “renziana”. Ma è anche il terreno in cui gli esperimenti innovatori e meritocratici sono più ardui, per la semplice ragione che gli insegnanti votano in prevalenza per il centrosinistra. E dunque tocca al presidente del Consiglio farsi avanti, mediare e mettere in gioco se stesso.

La storia si ripete, sotto diverse latitudini. Ogni volta che le riforme toccano sul serio la vita delle persone, è il capo del governo a dover rischiare in prima persona. E si parla di riforme economiche, sociali, professionali. Un altro genere di cambiamento, dalla legge elettorale agli aspetti istituzionali, coinvolge poco gli elettori e gli effetti si misurano nell’arco di anni. Quel che conta sono le riforme il cui impatto riguarda immediatamente i cittadini. Schroeder in Germania mise mano a un paese che allora era «il malato d’Europa», lo riformò, ma perse le elezioni a vantaggio di Angela Merkel. In Gran Bretagna invece la Thatcher prima e Blair poi trasformarono la nazione e restarono al potere svariati anni.
Il rischio c’è sempre, l’esito non è scontato. Renzi aveva cominciato promettendo con ottimismo una riforma al mese e ora si accorge di quanto sia faticoso il cammino, costellato di ostacoli e trabocchetti (ad esempio il sabotaggio dei test “invalsi”, per restare alla scuola). La riforma elettorale è contrastata da segmenti del ceto politico, ma suscita sostanziale indifferenza nel cosiddetto paese reale. Viceversa la scuola, le pensioni, il fisco sono temi che toccano interessi e scatenano passioni. Ed è tutto più difficile.
Vedremo presto quali saranno i riflessi sul piano elettorale delle polemiche sulla scuola e delle inquietudini suscitate in milioni di pensionati dalla sentenza della Corte Costituzionale. Ma è chiaro un punto. Così come Renzi ha preso il gesso per avviare la sua personale controffensiva sulla riforma scolastica, allo stesso modo egli dovrà gestire in prima persona la campagna elettorale nelle regioni in cui si vota. Almeno là dove egli ritiene che valga la pena vincere. L’immagine del premier che se ne resta a Palazzo Chigi perché in fondo si tratta di votazioni locali, non regge alla prova dei fatti. Non in Italia, dove le elezioni assumono sempre un significato politico generale. Ne sa qualcosa D’Alema che si dimise da premier dopo la sconfitta nelle regionali del 2000. E anche Veltroni concluse la sua esperienza alla guida del Pd dopo il voto della Sardegna nel 2009.
Oggi si vota solo in sette regioni, ma la sostanza non cambia: il risultato sarà caricato di significati politici generali. È quasi inevitabile che si tenti di leggerlo come un referendum su Renzi e la qualità del suo riformismo. Quindi al premier conviene raccogliere la sfida, prendersi i suoi rischi e andare a raccogliere personalmente i voti. Se circa il 34 per cento degli italiani si prepara a dare sostegno alle liste anti-sistema, da Grillo che irrompe nell’assemblea dell’Eni a Salvini che non disdegna Casa Pound, vuol dire che un serio turbamento ribolle nel fondo del paese. Un turbamento che nemmeno i primi dati indicanti una timida ripresa economica sembrano in grado di placare. Ne deriva che per Renzi è giunta l’ora di mettere in campo il proprio patrimonio di popolarità e credibilità: dalla Liguria al Veneto, dalla Toscana alle Marche, eccetera. Ovviamente fino alla Campania, se il premier ritiene davvero che sia conveniente spezzare una lancia per De Luca. Mai come oggi il partito del premier richiede una prova di leadership che offra agli italiani la prova evidente che qualcosa a Roma sta cambiando. 

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