La pia ipocrisia di Enea eroe di regime
Una rilettura del personaggio virgiliano dall’abbandono di Didone al mito di Augusto
di Gustavo Zagrebelsky Repubblica 14.5.15
SIAMO sinceri! Enea non ci piace. Se dovessimo fare una graduatoria tra i
personaggi dell’epopea troiana, in cima metteremmo probabilmente non lo
spocchioso Achille, ma “il domator di cavalli Ettorre” dell’ Iliade. In
fondo alla graduatoria, metteremmo proprio Enea il “pio”. In mezzo,
l’astuto e inquieto Ulisse. Questo nostro atteggiamento ci dice che sono
mutati i paradigmi. Ciò che piaceva allora, oggi infastidisce. E, in
primo luogo, non ci piace la poesia al servizio del potere. Neppure
Virgilio, infatti, ci è mai troppo piaciuto, perché fece della sua arte
strumento di persuasione politica. Scrive bene, è levigato.
Ma non riusciamo a dimenticare che è stato un poeta di regime,
stipendiato dal committente interessato a farsi tessere panegirici «di
natura quasi mussoliniana» (Canfora). Il suo eroe letterario è Enea, ma
l’eroe politico è Augusto, il destinatario del mito. Instauratore il
primo; restauratore, il secondo, dopo i torbidi delle guerre civili e il
disfacimento della Repubblica. Non una poesia civile, ma una poesia
interessata, dunque, e, perciò malsana.
“Pio” è Enea, anzi di più: la pietas è la ragione della sua esistenza.
Questa pietas è ciò che Virgilio propone come la virtù del principe. Gli
Dei sono sensibili alle prove di pietas e rispondono con due prodigi
archetipici, il fuoco che non brucia e la stella cometa. Entrambi
riguardano il piccolo Ascanio e lo consacrano come il capostipite della
gens di Augusto. Dentro Ascanio c’è dunque il futuro di Roma.
Ma, sulla strada accidentata verso la nuova patria, Enea incontra la
contraddizione maggiore: eros. Eros e pietas sono nemici. Eros impone la
sosta; pietas , la partenza. È la storia con Didone, cui è attribuito
uno spazio capitale nell’architettura del poema. Anche Ulisse, nel
ritorno verso la “petrosa Itaca”, incontra l’amore. È la storia di
Calipso. Dopo la caduta di Troia, tutti e due hanno una missione, ma
molto diversa: il ritorno alla casa di Itaca; la fondazione di un regno
nel Lazio. La differenza è grande. L’ Odissea è l’epopea delle radici;
l’ Eneide, della potenza politica. Odisseo deve ritornare per
ricostruire la sua casa e trovare la sua pace. Il disegno di Enea è
fondare un regno guerriero, sulle rovine d’altri regni. Di più: il
ritorno a Itaca è il compito che Ulisse dà a se stesso da se stesso. Per
Enea è diverso: egli, “profugo del fato”, ma salvato dagli Dei, è
portatore d’un destino che gli è imposto dalla sentenza di Zeus. La sua
pietas è la soggezione fedele a questo destino.
Basta mettere a confronto l’Ulisse nell’isola di Calipso e l’Enea nella
città di Didone. Dopo sette anni di amori, Ulisse è preso dalla
nostalgia della sua casa che Calipso non era riuscita a fargli
dimenticare. Una forza irresistibile nasce dentro di sé, che lo chiama
alla partenza. “Dentro di sé”: Ulisse è artefice delle sue proprie
fortune e sfortune. Piange, Ulisse, in preda a vivo dolore, come quando
la scelta sembra impossibile.
Ben diverso il distacco tragico e lacerante dell’eroe da Didone. Enea è
costretto a lasciare Cartagine e la fuga, che a Didone appare come la
crudele ricompensa del bene ricevuto, non può che essere da lei tacciata
di perfidia: «La lealtà non è più al sicuro», dice la regina. Ma
Virgilio ci fa sentire anche la voce di Enea; e lo fa in un verso
emblematico: «Arde di andarsene via e di lasciare quelle amate regioni».
Nella prima metà del verso vediamo Enea con gli occhi di Didone: un
uomo che non vede l’ora di andarsene; nella seconda metà del verso,
vediamo invece Enea con gli occhi di Enea stesso: ne è spia un
aggettivo, «amate ( dulcis) regioni», che Virgilio usa tutte le volte
che deve esprimere lo strazio dell’abbandono. Partire, dunque, non è la
sua vera volontà, e l’Italia, checché ne dicano gli Dei, potrà essere la
sua nuova patria, ma non sarà mai veramente il suo amor. E qui sta la
pietas come virtù che sacrifica il singolo e i suoi sentimenti. Il
desiderio di Enea sarebbe un altro, però, e lo dice, cercando di
giustificarsi con Didone viva («non inseguo di mia volontà l’Italia») e
con Didone morta: nell’ultimo e impossibile dialogo con l’ombra della
regina, Enea dirà: «Dalla tua terra, regina, sono partito contro la mia
volontà».
Aleggia, su questa storia, l’ombra dell’ipocrisia. In verità, Enea è
dipinto con i tratti del codardo, al quale importa soltanto di salvare
la faccia: vuole consolare “con giuste parole”, mostra grande amore,
dice che non è colpa sua. Non segue di sua volontà l’Italia. Però, di
nascosto fa preparare la flotta per partire. Sarà pure per evitare
ch’ella faccia bruciare le navi: resta il fatto che è Didone che lo
affronta e, forse, se non l’avesse fatto, se ne sarebbe andato alla
chetichella. La dedizione totale al fato si accompagna al cinismo verso
chi ama. Piacerebbe poter pensare che nell’episodio di Didone sia
nascosto un messaggio a non esagerare nella pietas spietata di cui Enea è
campione: un messaggio rivolto ai potenti dell’Impero.
Didone è solo la prima vittima di una lunga serie di ammazzamenti. Il
progetto della Roma fondata dai discendenti dei Troiani si scontra con
l’ordine dei Latini, ed è la guerra; una guerra che, in certo senso, è
una guerra civile ante litteram, perché i due popoli sono destinati a
fondersi. Il poema si chiude con l’uccisione di Turno, il re dei Rutuli,
rivale di Enea. Turno, vicino a essere ucciso, ricorda a Enea il suo
vecchio padre Anchise. Ed Enea sembra quasi rinunciare a sferrare il
colpo fatale: Turno, infatti, è subiectus, sottomesso; e l’indicazione
che Enea ha ricevuto da Anchise è di «avere pietà di chi si sottomette».
Poi però qualcosa trasforma Enea: l’ultima immagine che ne riceviamo è
quella di lui che, «infiammato di rabbia furibonda» per avere visto il
bàlteo, la cintura di cuoio che era stata di Pallante, il suo alleato,
pendere dalla spalla del suo nemico, l’uccide. Il pio Enea non rifugge
dalla vendetta, dall’inutile crudeltà.
Alla fine, siamo dunque consapevoli del potenziale di violenza che la
fedeltà assoluta alla propria patria, ai propri dei, ai propri penati
implica: una pietas empia per chi sta fuori di quelle cerchie. E che
l’apologeta cristiano del III secolo Lattanzio rimprovera senza mezzi
termini a Virgilio: «Non sapevi che cosa fosse la pietas, e hai ritenuto
che proprio ciò che quello ha compiuto in modo disumano e odioso fosse
un dovere imposto dalla pietà. Chi potrebbe dunque attribuire a Enea
anche un briciolo di valore, lui che si è acceso di rabbia come paglia
dimenticando lo spirito del padre, nel cui nome veniva supplicato, non è
stato capace di tenere a freno l’ira? Non è affatto pius chi uccide
qualcuno che non solo ha deposto le armi, ma gli rivolge una preghiera.
La pietas è quella di chi non conosce guerre, di chi è in armonia con
tutti, di chi è amico anche dei propri nemici, di chi ama tutti gli
uomini come fratelli». Così, entriamo in un nuovo mondo segnato dalla
fratellanza universale, un mondo in cui alla pietas imperiale si
contrappone la charitas cristiana.
4 commenti:
Non possum reticere, deae, una tentata minima, parziale, improvvisata apologia del povero Enea di fronte a un attacco così virulento di un autorevole intellettuale. Il prestigioso autore mi sembra sinceramente un po' prigioniero di schemi di valutazione triti e ritriti. Naturalmente Enea è un personaggio contraddittorio, per alcuni rispetti discutibile, ma molte attenuanti avrebbe da far valere Virgilio. Prima delle quali, fra l'altro, il non aver potuto compiere il proprio poema. Quanto a Odisseo è simpatico, d'accordo, ma resta pur sempre un simpatico mascalzone. Se Enea è un "ipocrita" solo perché il suo destino di persona è stato incrociato (e distrutto) da un destino 'superiore' cui era chiamato, allora Odisseo? Qualcuno potrebbe forse altrettanto bene mettersi a criticare moralisticamente i cedimenti/le infedeltà di Odisseo, non so quanto meno 'ipocrite' e cristiane degli amori cartaginesi di Enea. Ma questo è e resta un assurdo valutare i personaggi del mito classico con occhi di oggi. E non è che valutarli con gli occhi di Lattanzio porti maggiori frutti. Il povero Enea ha il torto di non essere ancora cristiano? Sarà; comunque, di fronte a Turno ferito non si trova ad "accendersi come paglia" per un semplice moto d'ira, ma è improvvisamente (a causa del balteo) e drammaticamente preda di un conflitto fra due diverse forme di pietas (lo ha chiarito benissimo Alfonso Traina): di qui risparmiare il supplice, di là mantenere la promessa fatta a un altro e più caro supplice, Evandro, che vive ormai solo perché Enea gli renda giustizia (quella del tempo; d'accordo, noi oggi useremmo lo spregiativo "vendetta") per il giovane figlio ucciso spietatamente fra insulti al nemico e infierire sul corpo. Tutta questa presunta lecchineria di Virgilio, poi, andrebbe riconsiderata per bene. Nel III proemio delle Georgiche annunciava poesia di ben altro tenore encomiastico. E' stato fin troppo bravo (e in parte fortunato: Ottaviano aveva risolto di presentarsi ora come eroe di pace) a dribblare gli scogli rovesciando i progetti, e parlando di Enea, con Ottaviano sullo sfondo, e NON PIU' viceversa, come all'inizio sembrava dover fare. D'accordo, avrà accettato alcuni compromessi (e lasciamo stare che tutta una scuola di critici insiste sul fatto che invece sarebbe stato tanto abile da fingere, lasciando costantemente affiorare il proprio dissenso). Ma resta il fatto che aveva una certa vocazione poetica che gli ha permesso di superare il problema e farsi perdonare con ALTRE pagine memorabili. E consola che il "SIAMO sinceri! Enea non ci piace" di Zagrebelski lascia fuori da questo ambizioso "noi" gente che magari non si vedeva pubblicata su La Repubblica, ma andava paazientemente componendo la Commedia. In sostanza: ci sarei andato più cauto. A cosa obbedisce questa vibrata esternazione di topoi consunti? Temo alla logica della provocazione, al gusto di far sbottare la gran sentenza, presunta controcorrente. Rispetto naturalmente quelle di Zagrebelski, come rispetto le opinioni di tutti. Ma in questo caso non so quanto siano nuove, dirompenti, rivoluzionarie, decisive - e soprattutto giuste e corrette nei confronti di un grande poeta e di un suo, forse non pienamente risolto, e tuttavia non piccolo, né poi così mediocre ed ipocrita, personaggio. Non gli (singolare) piace Enea? Verrebbe da commentare "va bene, ce ne faremo una ragione".
Alessandro Fo, Siena
Non credo che Zagrebelsky si intenda di queste cose. Parla tanto per parlare, mi pare.
Non credo che Zagrebelsky si intenda di queste cose. Parla tanto per parlare, mi pare.
Concordo con quanto scritto dal mio amico Alessandro Fo. Non dimentichiamo poi che la "caritas cristiana", che Zagrebelsky contrappone alla "pietas imperiale", è quella che nella Alessandria del quinto secolo ha generato il fenomeno dei parabolani (cristiani), responsabili della morte della studiosa pagana Ipazia. E di molte altre atrocità. In nome della "fratellanza universale".
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