Slavoj Zizek: Problemi in paradiso. Il comunismo dopo la fine della storia, Ponte alle Grazie trad. di Carlo Salzani pagg. 266, euro 16
sabato 16 maggio 2015
Il comunismo postmoderno entra tra le barzellette di Zizek
Non c'è pace per la Corea del Nord: dopo le fidanzate cantanti, gli zii dati in pasto ai cani e i generali fucilati dall'artiglieria aerea ci si mette anche Zizek [SGA].
Slavoj Zizek: Problemi in paradiso. Il comunismo dopo la fine della storia, Ponte alle Grazie trad. di Carlo Salzani pagg. 266, euro 16
Slavoj Zizek: Problemi in paradiso. Il comunismo dopo la fine della storia, Ponte alle Grazie trad. di Carlo Salzani pagg. 266, euro 16
Risvolto
La caduta del Muro di Berlino venne descritta
come la fine della Storia, la porta aperta verso un paradiso lastricato
dal capitalismo. Ma che fine ha fatto questo paradiso? Lo vedete da
qualche parte? La crisi globale produce da noi gli eterni precari, la
tragica disoccupazione giovanile la demolizione del welfare, la
gigantesca evasione fiscale, la crescita di povertà e disuguaglianza;
altrove, decine di guerre, centinaia di milioni di schiavi
(letteralmente schiavi, più che in qualsiasi altro periodo dell'umanità)
e miliardi di sfruttati. Slavoj Zizek, secondo molti il più influente
filosofo al mondo, non ha dubbi: è arrivate il momento di svelare le
menzogne del capitalismo e di lavorare per superarlo. Ma come?
Esaminando le caratteristiche della globalità capitalista, le
costrizioni ideologiche entro cui ci dibattiamo ogni giorno, le ben
magre prospettive che la persistenza del sistema lascerebbe all'umanità;
esplorando le potenzialità e le trappole delle nuove lotte
d'emancipazioni sparse per il mondo; sostenendo con forza che una
fuoriuscita dal capitalismo si potrà avere solo attingendo
all'ispirazione, storica e ideale, delle lotte comuniste, socialiste,
comunitarie. È quanto fa in questo libro, immergendo nel fuoco
dell'argomentazione materie così diverse come il Cangnam Style e Marx,
la Thatcher e i film di Hollywood. "Problemi in paradiso" è dunque
un'acuta (e godibile) analisi del mondo in cui viviamo e una felice
prefigurazione di quello che, speriamo, verrà.
Pyongyang e Seul: i due estremi che racchiudono il nostro mondo La Storia ricomincia in Corea
L’una incarna il vicolo cieco del progetto comunista. L’altra il capitalismo sfrenato Lo status ideologico del regime asiatico ricorda la mitica Shangri-la isolata da tutto
di Slavoj Zizek Repubblica 16.5.15
AMO Trouble in Paradise , la vecchia
commedia di Lubitsch. Per questo prendo in prestito il suo titolo. Il
“paradiso”, nel mio caso, si riferisce alla Fine della Storia di Francis
Fukuyama (il capitalismo liberal-democratico come il migliore degli
ordini sociali possibili) e il “guaio” è, naturalmente, l’attuale crisi,
che ha costretto perfino lo stesso Fukuyama a rivedere le sue
posizioni. La Corea divisa non è forse l’espressione più chiara, quasi
clinica, della crisi in cui siamo precipitati dopo la fine della Guerra
fredda? Da una parte, la Corea del Nord incarna il vicolo cieco del
progetto comunista del ventesimo secolo; dall’altra, la Corea del Sud è
al centro di uno sviluppo capitalistico impetuoso che l’ha portata a
livelli strepitosi di prosperità e modernizzazione tecnologica (Samsung
sta minacciando perfino il primato di Apple).
In Europa, la
modernizzazione è avvenuta in un arco temporale di secoli, e dunque è
stato possibile adattarsi alla stessa, ammorbidire il suo impatto
dirompente, attraverso il Kulturarbeit, vale a dire la formazione di
nuove narrazioni e miti sociali; in altri contesti invece – in modo
esemplare nelle società musulmane – l’impatto della modernizzazione è
stato diretto, senza schermi o differimenti, determinando il collasso
del loro universo simbolico: queste società hanno perso il loro
fondamento (simbolico) senza avere il tempo di stabilire un nuovo
equilibrio (simbolico). Non stupisce allora che, in alcuni casi, sia
stato necessario levare lo scudo del “fondamentalismo”, la
riaffermazione psicotico-delirante- incestuosa della religione quale
accesso diretto al Reale divino; il che ha prodotto effetti disastrosi,
in particolare la rivincita dell’oscena divinità superegotica che esige
tributi di sangue. Il dominio del Super-io è uno degli aspetti che
accomuna la permissività postmoderna e il nuovo fondamentalismo. Ciò che
li distingue è il luogo del godimento: nel primo caso, a dover godere
siamo noi; nel fondamentalismo, a godere è Dio.
Forse il simbolo
supremo della devastata Corea post-storica è l’evento musicale
dell’estate 2012: Gangnam Style di Psy. Il video di questo brano è il
più visto di tutti i tempi, dopo aver superato, su YouTube, il numero di
visualizzazioni di Beauty and a Beat di Justin Bieber. Il 21 dicembre
2012, giorno in cui chi dava credito alle predizioni del calendario maya
si attendeva la fine del mondo, Gangnam Style ha raggiunto il numero
magico di un miliardo di visualizzazioni. È probabile allora che gli
antichi Maya avessero ragione: ciò èeffettivamente il segno del collasso
di una civiltà. Il testo della canzone e l’allestimento scenico del
video si prendono gioco dell’insensatezza e della vacuità dello Gangnam
Style (secondo alcuni, con intento sottilmente rivoluzionario); malgrado
questo, è difficile non farsi catturare dal demenziale ritmo da
marcetta, riprodurlo in modo puramente mimetico. Il Gangnam Style è un
prodotto ideologico in virtù della distanza ironica che stabilisce con
il suo contenuto. Molti spettatori trovano la canzone disgustosamente
seducente, e cioè «amano odiarla», o, piuttosto, amano trovarla
ripugnante, e così la ascoltano ripetutamente per prolungare il disgusto
– questa natura compulsiva dell’oscena jouissance è ciò da cui la vera
arte dovrebbe liberarci. Ma non dovremmo allora osare un parallelo tra
un concerto di Psy in un grande stadio di Seul e gli spettacoli
allestiti non molto lontano, oltre la frontiera, a Pyongyang, per
celebrare gli amati leader nordcoreani? In entrambi i casi, non siamo
forse di fronte a rituali neosacri indirizzati a una jouissance oscena?
Si
potrebbe ritenere che in Corea, come altrove, sopravvivano numerose
forme di saggezza tradizionale in grado di mitigare l’impatto traumatico
della modernizzazione. Tuttavia, è facile riconoscere come queste
vestigia della tradizione siano già state trans-funzionalizzate,
tradotte in strumenti ideologici volti ad accelerare la modernizzazione
stessa. Questa impressione trova conferma nella cosiddetta spiritualità
orientale (il buddhismo), che invita a stabilire un rapporto più
“gentile”, equilibrato, olistico ed ecologico con il mondo. Non basta
affermare che il buddhismo occidentale – questo fenomeno pop che predica
l’indifferenza verso le frenetiche e competitive dinamiche del mercato –
è verosimilmente la via più efficace per prendere parte alla società
capitalistica preservando l’apparenza della salute mentale (in breve,
che è l’ideologia paradigmatica del tardo capitalismo); occorre anche
aggiungere che non è più possibile contrapporre questo buddhismo
occidentale alla sua “autentica” versione orientale.
La mia analisi
sembra essere confermata da Propaganda, un documentario del 2012
(facilmente reperibile in rete) sul capitalismo, l’imperialismo e la
mercificazione della cultura di massa in Occidente, in particolare sugli
effetti pervasivi di questi fattori in ogni aspetto della vita delle
moltitudini beatamente istupidite e zombificate. Si tratta di un
mockumentary, una parodia che finge di essere nordcoreana, mentre in
realtà è stata girata da un gruppo di neozelandesi. Vengono illustrati
l’uso della paura e della religione per manipolare le masse e il ruolo
dei media nel distogliere l’attenzione dai problemi cruciali attraverso
una varietà di diversivi. Uno dei pregi del film è il modo in cui
demolisce il culto della celebrità: affermando che Madonna o Brad e
Angelina «vanno a fare shopping di bambini nei paesi del Terzo mondo »;
analizzando l’ossessione occidentale per la vita “glamour” dei vip e
l’individualismo, unitamente all’indifferenza per le condizioni di vita
dei senzatetto e in generale di chi soffre; raffigurando i vip come
strumenti di mercificazione, anche inconsapevoli, ruolo che spesso li
conduce sull’orlo della follia – tutto questo è trattato in modo
talmente puntuale da risultare spaventoso: è il mondo attorno a noi. Il
documentario, in particolare la parte dedicata a Michael Jackson – uno
sguardo su «cosa ha fatto l’America a quest’uomo» –, sa raccontare
verità difficili da digerire.
Se cancellassimo quegli spezzoni in cui
si esalta la saggezza del grande e amato leader ecc., Propaganda
verrebbe a coincidere con una classica critica del consumismo, della
mercificazione e della Kulturindustrie – specificamente nello stile del
marxismo occidentale della Scuola di Francoforte. Ma si deve prestare
attenzione a un’avvertenza all’inizio del film: la voce narrante rivela
agli spettatori che, per quanto ciò che vedranno potrebbe imbarazzarli e
scioccarli, il grande e amato Leader confida sul fatto che siano
abbastanza maturi da sopportare l’orribile verità sul mondo esterno –
parole che un’autorità benevola, protettrice e materna userebbe per
comunicare a un bambino un evento spiacevole.
Per comprendere lo
speciale status ideologico della Corea del Nord non possiamo evitare di
chiamare in causa la mitica Shangri- la del romanzo di James Hilton
Orizzonte perduto: una valle tibetana in cui la gente conduce una vita
modesta ma felice, totalmente isolata dalla corrotta civiltà globale e
sotto il comando benevolo di una élite erudita. La Corea del Nord è
quanto di più simile a Shangri-la ci sia nel mondo reale. Nonostante la
loro distanza abissale, la Corea del Nord e del Sud condividono una
caratteristica di fondo: sono entrambe società post-patriarcali. Se il
film Propaganda riesce a mostrare verità indigeribili, non è
semplicemente a causa del fatto che un ingenuo sguardo straniero è in
grado di cogliere aspetti nella nostra cultura che noi stessi, dato che
vi siamo immersi, ignoriamo, ma piuttosto perché la radicale opposizione
tra Corea del Nord e del Sud è sostenuta da un’identità di fondo
segnalata dal titolo del film: si tratta di due forme estreme di
atemporalità, di sospensione della storicità vera e propria.
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