Alberto Asor Rosa: Scrittori e popolo 1965. Scrittori e massa 2015, Einaudi, pagg. 432, euro 32
Risvolto
Rimanendo fedele a un metodo critico sempre attento
all'individuazione di temi, linguaggi e forme, Asor Rosa isola ciò
che non c'è piú e ciò che è profondamente mutato, rintracciandolo
nelle narrazioni di quegli scrittori che ancora vogliono e sanno raccontare
il disagio del nostro tempo senza storia e identità.
In Scrittori e popolo Asor Rosa ricostruiva il quadro storico dello
sviluppo del tema populista nella letteratura italiana del Novecento,
demistificando alcuni dei «luoghi comuni» di quella cultura, riassumibili
nella valorizzazione mitica del «popolo» da un punto di vista
piccolo-borghese, una peculiarità dei gruppi intellettuali italiani
ereditata dall'Ottocento.
Oggi molti aspetti delle vecchie stratificazioni sociali sono andati
perduti, le élite intellettuali hanno perso il loro ruolo egemonico e
al «popolo» si è sostituita la «massa». Sono di conseguenza cambiate
le strutture primarie del sapere, della conoscenza e della creazione
artistica e letteraria. L'ampia generazione di scrittori nati dopo
il 1960 ha per lo piú smesso di dialogare con la tradizione, rinchiudendosi
in un atomismo individualistico. A questo paesaggio
magmatico, l'autore cerca di dare ordine ed espressione in Scrittori
e massa. Rimanendo fedele a un metodo critico sempre attento
all'individuazione di temi, linguaggi e forme, Asor Rosa isola ciò
che non c'è piú e ciò che è profondamente mutato, rintracciandolo
nelle narrazioni di quegli scrittori che ancora vogliono e sanno raccontare
il disagio del nostro tempo senza storia e identità.
Siamo rimasti senza scrittori e senza popoloIntervista ad Alberto Asor Rosa. Torna il suo celebre saggio. Con un sequel
di Simonetta Fiori Repubblica 23.5.15
CINQUANT’ANNI fa con Scrittori e popolo fece piangere i mostri sacri
della sinistra intellettuale. Oggi con Scrittori e massa, che
praticamente ne è un sequel, non fustiga più nessuno. O meglio, non
fustiga più nessuno in particolare, forse per mancanza sia degli autori
che del popolo. Alberto Asor Rosa ridacchia in un angolo della sua
luminosa casa di Borgo Pio, determinato a non accettare provocazioni.
«Il popolo non c’è più, sostituito dalla massa. Ma gli scrittori
resistono, altrimenti non avrei scritto il nuovo libro».
Certo fa effetto leggere tutto di filato l’ opus maximum del 1965, un
attacco radicale alle fondamenta gramsciano-storiciste del sistema
culturale italiano, e il lavoro successivo dedicato al grande mutamento.
In un unico volume (Scrittori e popolo 1965. Scrittori e massa 2015,
Einaudi) è racchiusa la storia culturale di questo paese, incluso il
terremoto degli ultimi decenni. Con qualche risultato paradossale, che
attiene alla biografia di Asor.
Irriverente, severo, anche un po’ aggressivo con Pasolini e Calvino,
Vittorini e Pavese. E rispettoso, attento, misurato con Piccolo, Scurati
e Veronesi, per citare tra i più famosi. Professore, che succede?
«Una prima spiegazione è anagrafica: al giovane spregiudicato e ribelle è
subentrato un vecchio rispettoso del suo prossimo, per un fatto
biologico. E poi m’è parso che nei confronti degli scrittori più recenti
fosse più opportuno un atteggiamento di comprensione ».
Perché?
«Sono stati meno fortunati della nostra generazione. A 30, a 40, forse
anche a 50 anni, non beneficiano di nessuna delle condizioni positive di
cui abbiamo beneficiato noi. Nessuno di loro gode del sostegno di una
società letteraria ormai dissolta».
Devono cavarsela da soli.
«Può sembrare paradossale, ma nella società di massa ognuno è costretto a
cercare da sé. E nell’assenza di aggregati culturali si riempie il
vuoto con una rete di relazioni private. Pensi a quel nuovo genere
letterario che è il ringraziamento. Alla fine di ogni romanzo compaiono
tabulae gratulatorie di impressionante ampiezza: compagni di vita,
editor, amicizie varie. Ma quando mai Moravia o Calvino hanno ritenuto
di dover ringraziare qualcuno?».
E in questa nuova rete l’editor diventa signore assoluto.
«Il rapporto tra autore e redazioni editoriali s’è fatto sempre più
stretto e il compito di entrambi mi sembra sia quello di costruire trame
che piacciano al pubblico. Naturalmente il rapporto con il mercato non è
sempre così meccanico. Però mi convince l’analisi di Emanuele Trevi: la
letteratura ha smesso di pensare. E l’unico compito che lo scrittore si
assegna è lo story teller ».
Oggi la parola narrazione ha assunto una centralità ossessiva.
«Anche nella politica. E la narrazione deve soddisfare determinati criteri, che sono nel segno della normalizzazione».
È interessante la sua analisi: l’elemento che caratterizza la
generazione di scrittori nati dal 1960 in poi è la rottura con la
tradizione. La ignorano, non la conoscono.
«Hanno scavato un fossato rispetto alle generazioni precedenti. Fino a
qualche tempo fa gli scrittori spendevano parte della ricerca nel
confrontarsi con chi era venuto prima. Pasolini, Fortini e Calvino — gli
ultimi tre classici — radicano la loro novità su una riflessione
intorno al passato. Poi c’è stata la generazione degli eredi, ancora
immersi nel clima culturale precedente: Cerami e Tabucchi, Starnone e
Busi, Tondelli e Mari, per citarne alcuni. Infine la grande massa di
autori degli ultimi decenni: tranne poche eccezioni come Mazzucco,
pensano “il nuovo” come sciolto da qualsiasi debito con il passato».
Con quali conseguenze?
«Lingua e stile nascono dal ripensamento di una lingua e di uno stile di
qualcuno che c’era prima. Se non c’è conoscenza, non può esserci
conflitto. E se non c’è conflitto, non c’è pensiero nuovo. E se non c’è
pensiero nuovo non c’è nuova rappresentazione. L’unico frammento di
tradizione che ogni tanto emerge è quella pasoliniana, ad esempio nel
Saviano della testimonianza etico-politica: io so. Ma il Calvino delle
Lezioni americane che erano un grande lascito per gli scrittori del
nuovo millennio, è scomparso».
Questo cosa comporta?
«Negli scrittori più giovani la riflessione razionale su ciò che
significa scrivere e su come si scrive si è molto indebolita. Il
messaggio calviniano che mescola fantasia e razionalità è inapplicabile.
E insieme a Calvino — cosa ancor più grave — esce di scena la
tradizione occidentale in cui questi elementi si sono mescolati in modo
profondo. È difficile ravvisare nei romanzi degli ultimi vent’anni
l’impronta di Baudelaire o di Kakfa o di Mann. Gli ormeggi si sono
totalmente liberati ».
Lei lamenta la mancanza di follia. A cosa si riferisce?
«La follia è quella che trovi in Pirandello o Svevo, la derogazione
dalle regole. Oggi non ce n’è uno che deroghi dalle regole. E tra
l’assenza di follia e l’assenza di tragedia il nesso è stretto. Per
usare una terminologia infantile, è raro imbattersi in romanzi che
finiscano male. Un’eccezione è nel primo Giordano. Anche Ammaniti che
pure ci presenta storie drammatiche non ce le fa mai leggere come
tragedia, preferendo la commedia».
Un po’ di follia era in Scrittori e Popolo , che prendeva a schiaffi il meglio della cultura progressista.
«Direi meglio, incredibile sfrontatezza».
Cosa aveva in testa? Far saltare il sistema culturale della sinistra?
«Noi pensavamo che si potesse realizzare il progetto politico operaista.
E per fare questo occorreva sgombrare il campo dal principale ostacolo
al rinnovamento che era lo storicismo: una linea culturale — Croce-De
Sanctis- Gramsci — condivisa non solo dal Pci ma da tutta
l’intellettualità italiana del tempo».
Accusava Pasolini e Vittorini, anche un po’ il Calvino de Il sentiero
dei nidi diragno, di essere subalterni alla tradizione che impediva di
creare cose nuove. Agli scrittori di oggi rimprovera il contrario, di
non conoscerla per niente la tradizione. Si ricorda il vecchio detto?
Rivoluzionari a vent’anni, conservatori a ottanta.
«Non c’è dubbio. Ma la differenza di atteggiamento dipende anche dal
diverso clima culturale. All’epoca le spinte al rinnovamento erano
formidabili. Mentre scrivevo quel libro andavo a fare volantinaggio
davanti ai cancelli delle fabbriche e non sentivo alcuna separazione tra
la mia vita da letterato e la milizia politica. Oggi dove ti attacchi?
Questo però non bisogna dirlo: un vecchio professore non deve essere né
fustigatore né tragicamente pessimista».
Gliela fecero pagare, all’epoca?
«Si arrabbiarono molto. Sull’ Unità uscì un veemente attacco di Carlo
Salinari dall’espressivo titolo: Un piccolo borghese sul piedistallo .
Mentre un giorno sorpresi Sapegno che ridacchiava con il mio libro in
mano: “Queste cose le ho sempre pensate”».
Pasolini non la perdonò.
«Incontrandomi all’Università mi guardò con gli occhi a mirino: Asor, l’uomo che mi ha fatto più male nella vita».
Si è annoiato molto a leggere i giovani contemporanei?
«No, affatto. Non ho mai smesso di farlo pur continuando a studiare
Dante e Boccaccio. Scrivono un po’ troppo, questo sì. Credo che dipenda
dalle potenzialità del computer. Potrei chiedere un provvedimento di
legge perché si torni all’uso della penna».
Romanzieri di oggi, dov’è il conflitto?
Alberto asor rosa, cinquant'anni di «Scrittori e popolo», con aggiornamenti. Riproposto
da Einaudi, l’esordio dell’allievo di Sapegno denuncia tutta l’opacità
sociale e l’individualismo delle «belle storie». Agli autori dice:
«Senza il conflitto non c’è rappresentazione...Massimo Raffaeli il Manifesto 7.6.2015, 2:04
Pochi libri di critica hanno inciso così profondamente nel
senso comune come Scrittori e popolo, uscito cinquant’anni fa da una
piccola editrice romana, Samonà e Savelli, che allora garantiva una
specie di samizdat alla sinistra extraparlamentare. Lo firmava
uno studioso ancora giovanissimo, poco più che trentenne, Alberto
Asor Rosa, allievo di Natalino Sapegno all’università di Roma, attivo
nei «Quaderni Rossi» e compagno di via di Raniero Panzieri.
Quell’esordio, geniale, sorprese per la padronanza di una
strumentazione in cui la capacità di delineare un quadro storico
per ampie campiture e tagli dialettici si integrava a una
microfisica testuale, nel campionario dei testi analizzati, di
secca e persino spietata precisione analitica. Paradossalmente,
non si trattava di un libro ideologico ma di un libro critico,
nell’accezione etimologica, il cui orizzonte d’attesa era di totale
alterità rispetto al quadro convenuto della sinistra
istituzionale e della cosiddetta via italiana al socialismo. In
effetti, Scrittori e popolo era un libro di critica della
«italianità» letteraria analizzata nella lunga durata e con
un’ottica che oggi diremmo annalistica circa una nozione, il
populismo, declinata a destra quale folclore endogeno o clausura
autarchica e dedotta, o meglio diluita, a sinistra nei termini di un
generico o irenico progressismo. Questo era infatti l’incipit
folgorante di quel libro: «L’uso del termine populismo è legittimo
solo quando sia presente nel discorso letterario una valutazione
positiva del popolo, sotto il profilo ideologico oppure
storico-sociale oppure etico. Perché ci sia populismo, è necessario
insomma che il popolo sia rappresentato come un modello».
Diviso in due, la prima parte di Scrittori e popolo tracciava un
quadro storico a maglie fittissime di quella nozione capitale,
dall’Unità alla Resistenza, dalle riflessioni di Gioberti e Oriani ai
Quaderni di Gramsci, cogliendone la vischiosità e l’ambiguità per
esempio tra i «fascisti di sinistra» (Vittorini per primo) quasi
fosse, il populismo, una incombenza ipotecaria fatalmente
ricevuta anche fra i convertiti, nel secondo dopoguerra, al
neorealismo e/o al comunismo (e, qui sia detto per inciso, proprio
tale quadro è in realtà la sinopia dell’altro grande contributo di
Asor Rosa, cioè il quarto volume, tomo secondo della Storia d’Italia
einaudiana, intitolato La cultura che taluni allora presero, nel
’75, per una palinodia); la seconda parte di Scrittori e popolo
contiene invece quelle che l’autore definiva «esercitazioni»,
analisi in vitro della produzione di Cassola e Pasolini,
severissime e tuttavia utili non tanto a un giudizio di valore
complessivo, meno che mai a una loro eversione in blocco, quanto alla
messa a fuoco di una serie di contraddizioni o di aporie
(l’intimismo di Cassola, l’estetismo di Pasolini) da misurare col
metro della produzione grande-borghese, Pirandello, Svevo, Montale.
Cinquant’anni e però sembrano molti di più: questo giova al valore del
libro (pochi testi della nostra critica, dopo tutto, appaiono meno
datati e perciò ancora discutibili, vale a dire saldi nell’impianto
e sicuri nelle soluzioni interpretative) ma questo dice d’altra
parte che il quadro è mutato irreversibilmente, come adesso
attesta la ristampa arricchita da una sua necessaria appendice,
Scrittori e popolo 1965. Scrittori e massa 2015 (Einaudi, «Piccola
Biblioteca Einaudi Ns», pp. VIII — 432, euro 32,00). Asor Rosa nel suo
più recente contributo muove dalla consapevolezza che è venuta
meno, e nei modi di una disintegrazione, l’esistenza stessa di un
«popolo» e con essa delle «élites» che ne interpretavano e insieme
convogliavano le dinamiche sociali e politiche, per dar luogo qui
e ora a una massa assoggettata e reclusa negli spazi di quella che
pure definisce una «democrazia passiva». Ciò ai suoi occhi
comporta una serie di conseguenze capitali, grosso modo a partire
dal passaggio di millennio: il tramonto della modernità quale
spazio del conflitto (di idee, posizioni, organizzazioni); la
rottura del rapporto con una tradizione secolare di testi, valori,
orientamenti; l’obsolescenza della critica e della sua funzione
primordiale che è quella di mirare sempre a una alterità nella
stessa percezione degli oggetti sottoposti al suo vaglio; infine la
presenza ubiquitaria di un’industria culturale che ha saputo
trasformare il mercato e i suoi cicli di produzione e consumo in
un vero e proprio stato di natura. Anche in Scrittori e massa non
interessa allo studioso individuare ritratti monografici
e stilare specifici giudizi di valore ma la messa a fuoco di un
comune orizzonte, di costanti tematiche dentro un campionario che
associa narratori e poeti nati fra gli anni cinquanta e ottanta del
secolo scorso.
Quello che colpisce, con evidenza statistica, è non soltanto la
loro produttività (sollecitata dai ritmi ormai convulsi della
editoria) e la diffusa originalità delle fisionomie testuali
(indotta magari dal ri-uso delle fonti tradizionali o dalla
contaminazione perpetua con i mezzi di comunicazione di massa),
quanto uno stato di isolamento, o peggio, di «atomismo
individualistico» che li obbliga a produrre in una specie di
trance e nello spazio-tempo di un eterno presente. Il che vuol dire che
si chiede loro di produrre delle storie, delle «belle» storie, ma
non di riflettere, di prendere la parola, e di continuo, ma non di
prendere una posizione circa il vivere in società, in questa società,
o sui destini generali come era d’uso viceversa fra gli ultimi grandi
maestri (Pasolini, Fortini, Calvino) per cui dirsi scrittori
e intellettuali era sinonimo. Asor Rosa non rinvia gli scrittori di
oggi alla pratica dell’engagement ma piuttosto individua il tabù
più diffuso, per cui la pratica dello storytelling è appunto la
compensazione del silenzio tombale riguardo ai meccanismi
sociali, al pensiero unico che governa le coscienze, ai grandi poteri
che propongono la globalizzazione e i suoi istituti
economico-finanziari come il solo e il migliore dei mondi possibili.
(Esemplare in tal senso è l’analisi di Gomorra e del caso Saviano nella
intersezione, come nella ambiguità, di testimonianza e fiction).
È probabile che Asor Rosa qui trascuri alcuni segnali in
controtendenza, quali il ritorno della letteratura di reportage
e di docufiction, nonché il redivivo dibattito intorno alla nozione
di «realismo», ma è comunque comprensibile il fatto che colga
nella parola dei più atomizzati e isolati rispetto al contesto,
i poeti e le donne specialmente, tra opacità sociale e vivida
sussultante esperienza del corpo, quei nessi di fertile
contraddizione e quelle verità che ai narratori per lo più sono
inibite o deliberatamente impedite. Così si conclude Scrittori
e massa: «In letteratura, come in qualsiasi altra operazione
storica umana, non c’è disvelamento della verità senza conflitto.
Solo l’‘opposizione’ consente il disvelamento delle apparenze
e l’emergere dei tratti più nuovi del reale – e del pensiero. Se non
c’è conflitto, non c’è pensiero nuovo; e se non c’è pensiero nuovo
non c’è nuova rappresentazione – il mondo resta una veste esteriore
che ricopre a stento, sempre, le vecchie apparenze». Scrittori
e popolo era nato da un’identica persuasione ma oggi è un grido che
risuona, abbastanza disperato, nella nostra pace domestica.
Solo lettori massa?
Cesare De Michelis Domenicale 13 9 2015
Al vertice c’era la classe operaia che, sovvertito l’ordine capitalista, avrebbe governato la società comunista degli eguali, più sotto il popolo, privo di coscienza rivoluzionaria, che conservava i valori della millenaria civiltà contadina in una prospettiva moralistica che si reggeva sul rispetto della tradizione e il rifiuto «di qualsiasi avventura avanguardistica e novecentesca», e, ancora più sotto, la massa, che, azzerando ogni individualità, subisce ottusa il trionfo di un consumismo privo di valore e valori: questo è l’itinerario nel degrado della cultura letteraria italiana che Alberto Asor Rosa ha compiuto durante cinquant’anni, tra la prima edizione di Scrittori e popolo (1965) e il recente Scrittori e massa. Dopo una spregiudicata rilettura dei mitici anni Sessanta, nei quali un impetuoso sviluppo economico (il boom), il radicalismo operaio (Quaderni Rossi) e una “seria” iniziativa riformista (il primo centro-sinistra) avrebbero marciato per oltre un decennio «nella medesima direzione, o per lo meno affiancati, se non solidali», Asor, tirando le somme, constata amaramente che «ora di tutto questo non resta più niente»: classe e popolo si sono dissolti e con essi «anche la democrazia, o, meglio, il funzionamento del sistema democratico si è fortemente indebolito».
La classe era rivoluzionaria, il popolo democratico, la massa inesorabilmente post-democratica, perché «son venuti meno i capisaldi di quello che, in altri tempi, si sarebbe definito un sistema democratico-culturale fondato sul moderno» e con esso sono finite la tradizione, la società e la teoria letteraria, o la critica: in questo vuoto traumatico la cultura di massa è obbligata a soddisfare i “bisogni” di un destinatario ottuso e uniforme, mentre della libertà non resta quasi più traccia.
La narrativa di questa prima stagione post-novecentesca ha rinunciato a qualsiasi proposito di interpretazione del reale, a qualsiasi analisi delle contraddizioni sociali e, in definitiva, a qualsiasi ambizione di conoscenza; i suoi sforzi si riducono a “intrattenere” un pubblico che ignora la Storia è consuma un’infinità di storie sempre più futili ed effimere: Asor scopre solo ora che la narrativa è diventata conservatrice, giungendo così paradossalmente a confermare le conclusioni del suo studio originario con più rassegnata disperazione, sempre senza prendere in considerazione le buone ragioni di questo antimodernismo letterario che attraversa intero il secolo passato e resta tuttora senza alternativa in questa fase di crisi irrisolta che non riesce a intravvedere all’orizzonte un diverso destino. In fondo il successo diffusionale della narrativa di genere e intrattenimento comincia già nelle metropoli del secondo Ottocento dove il moderno celebrava spavaldo l’avvento e il trionfo dell’innovazione tecnologica e inseguiva una sorta di celebrazione del nuovo che finiva col coincidere con le ardite sperimentazioni dell’avanguardia: per un verso, dunque, del futuro si disegnava un profilo immaginario e per l’altro si abbandonava il passato come un imbarazzante e superfluo bagaglio.
La letteratura si affannava a preservare la memoria di un mondo che intanto languiva e giorno dopo giorno spariva abbandonato: c’era poco da capire e ancor meno su cui confidare, bastava, per non perdersi, conservare i valori di una tradizione secolare, nella quale l’uomo era stato al centro e la sua cultura aveva progressivamente integrato in un disegno unitario ogni successivo apporto della conoscenza; che poi i feuilleton consolassero i lettori e li intrattenessero, distogliendone l’attenzione dalle ansie e dalle minacce del futuro, ripetendo intrecci e schemi sperimentati, era persino rassicurante, perché non bisognava cedere alla paura e allo sconforto.
L’attuale disperazione di Asor che liquida tutto il presente facendo di ogni erba un fascio, anche se poi si affanna a stilare classifiche e a mettere in salvo qualcosa, evoca il monito che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e suggerisce l’invito ad affinare l’udito: nel tempo della discontinuità bisogni esercitarsi a distinguere lasciando che l’effimero svanisca, ma anche con la certezza che in qualche testo il vero, il buono e il bello resistono anticipando il divenire.
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