sabato 23 maggio 2015

Intellettuali e sinistra italiana: Salvati riabilita il trasformismo, Ichino invoca l'attacco finale al tetto minimo salariale



Se il trasformismo fa bene alle riforme
di Michele Salvati Corriere 23.5.15I nostri politici studieranno i risultati delle imminenti elezioni regionali con lo stesso interesse che gli aruspici romani dedicavano alle viscere dell’animale prescelto per il vaticinio. Dalle regionali si trarranno poi congetture per le più lontane elezioni nazionali: continuerà la resistibile ascesa di Matteo Renzi e il disfacimento di Forza Italia? Riuscirà Salvini a estendere la sua influenza a tutto il Paese? Il disgusto e l’indignazione per la politica continueranno a gonfiare le vele dei Cinque Stelle? Nessuno può negare che si tratti di interrogativi importanti, meritevoli di analisi, sondaggi e vaticini. Credo però che cittadini, politici e commentatori debbano rassegnarsi ad una fase non breve di instabilità e di incertezza, diversa sia dalla facile prevedibilità della Prima Repubblica (prevalenza sicura della Dc e dei suoi alleati), sia da quella della Seconda (vittoria o sconfitta di Berlusconi e alleati contro sinistra e alleati), esito questo meno facile da prevedere ma inquadrato in uno schema bipolare chiaro. Questo schema oggi è in pezzi e quale sia quello che lo sostituirà è per ora ignoto.In un editoriale di grande interesse ( Corriere della Sera , 17 maggio) Ernesto Galli della Loggia vede nel nostro futuro quel che era già avvenuto nel passato, un esito trasformistico, l’impossibilità di organizzare stabilmente la competizione politica sulla base di due schieramenti. Alternativi sì, ma idonei a governare per il rispetto che entrambi nutrono per i principi del liberalismo e della democrazia, per l’adeguatezza dell’analisi dei mali del Paese e delle riforme necessarie a contrastarli, per la qualità delle classi dirigenti che possono mettere in campo: vogliamo chiamarli una destra e una sinistra civili? Il trasformismo di Depretis nasceva proprio dal riconoscimento che, raggiunta l’Unità attraverso il Regno, le vecchie passioni che avevano alimentato il conflitto tra destra monarchica e sinistra repubblicana si andavano attenuando ed entrambe erano disposte a collaborare al compito gravoso di costruire un Paese moderno e rispettato. Collaborare tenendo ai margini le forze antisistema, quelle che si rifiutavano di accettare il fatto compiuto di un Regno laico e conservatore: repubblicani intransigenti, cattolici, socialisti. E, di nuovo, fu trasformistica l’esperienza di un passato più recente, la seconda parte della Prima Repubblica: la necessità di impedire l’accesso al governo del Pci «costrinse» a stare insieme forze politiche che in altri Paesi si alternavano al governo, democristiani e socialisti.
Insomma il trasformismo (in senso sistemico, l’impossibilità di alternanza, non solo il banale cambiar casacca per opportunismo individuale) starebbe nelle corde profonde del nostro Paese e ora riemergerebbe nelle forme del «partito della Nazione», il partito democratico di Renzi. Vedo anch’io le forze che oggi si oppongono ad una democrazia dell’alternanza: Berlusconi ha fallito nel suo compito — ma se l’era mai posto? — di creare un partito di centrodestra capace di buon governo, e che fosse in grado di reggere al declino inevitabile del suo potere carismatico. E non sarà né semplice, né rapido il processo che condurrà all’emersione di uno sfidante serio al Pd, anche a seguito della forza d’attrazione che la sua linea riformatrice e centrista esercita sui ceti più moderati e governativi del centrodestra.
Faccio però fatica a paragonare questa incipiente fase di centrismo con le due lunghe fasi storiche cui Galli della Loggia si riferisce: le forze che impedivano l’alternanza allora erano assai più potenti di quelle che la rendono difficile ora. Oggi il suffragio è universale, la legge elettorale si limita a concedere un premio di maggioranza non diverso da quello che con diversi metodi il partito più votato ottiene in altri Paesi democratici, e non c’è alcuna conventio ad excludendum come quella che ostacolava l’accesso al governo del Pci nella Prima Repubblica: se Grillo o Salvini ottengono più voti di Renzi, governano loro.
Io resto un sostenitore di una democrazia competitiva, che consenta alternanza di governo. E spero che il centrodestra sia in grado di trovare un campione credibile in tempi non biblici. Ma se l’attuale governo soddisfa gli elettori non vedo cosa ci sia di male se esso viene sostenuto da ceti sociali e da politici che in passato avevano appoggiato governi di diverso colore. «Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?»: questa è la famosa frase di Depretis che diede origine all’epiteto di «trasformismo» (G. Sabbatucci, Il trasformismo come sistema , Laterza, 2003). In un italiano più moderno potrebbe averla detta Renzi — di fatto ha spesso sostenuto tesi simili — e la troverei assennata: se la competizione non è esclusa, un po’ di centrismo e di stabilità governativa possono anche favorire un processo riformatore.

“Serve una legge nazionale per avere stipendi meno rigidi”

Ichino: giuste le deroghe sui minimi delle retribuzioni

di Roberto Giovannini La Stampa 23.5.15
Senatore Pietro Ichino, ora nel Partito Democratico, come commenta le parole di Mario Draghi? È vero che le imprese che possono abbassare i salari licenziano di meno?
«C’è una logica stringente nel ragionamento di Draghi. Le strategie neokeynesiane che piacciono alla nostra vecchia sinistra, in una situazione di salari nominali rigidi - rigidità dovuta proprio alla inderogabilità dei contratti nazionali - puntano a ridurre il valore d’acquisto dei salari con l’inflazione, e in questo modo evitare la disoccupazione. Ma noi non disponiamo della leva monetaria, e dunque abbiamo bisogno della flessibilità che ci permette di far fronte alla crisi congiunturale con una flessibilità salariale che consente di evitare di ridurre l’impatto della congiuntura negativa. In altre parole, la possibilità, e la possibilità di contrattare la retribuzione al livello aziendale permette di raggiungere lo stesso risultato di contrasto alla disoccupazione in modo più esplicito».
Dunque, Draghi ha ragione. In che modo si potrebbe adattare questa riflessione al sistema italiano, concretamente?
«Con un nuovo assetto della contrattazione collettiva che preveda la possibilità di deroga rispetto al contratto nazionale di lavoro non soltanto sulla parte normativa ma anche sulla parte salariale, come i minimi tabellari».
Senatore, ma già c’è la norma dell’articolo 8 voluto a suo tempo da Maurizio Sacconi: già si può fare!
«C’è però un problema: è vero che l’articolo 8 dà questa possibilità in linea generale, senza esplicitare che essa si estende anche alla materia retributiva; ma i giudici continuano a interpretare i minimi tabellari come i parametri per l’applicazione dell’art.36 della Costituzione, quello che stabilisce il diritto del lavoratore alla “giusta retribuzione”».
Dunque neanche ci hanno provato, aziende e sindacati, a utilizzare quella norma?
«Nessuno ci ha neanche provato. Anche perché l’accordo interconfederale del 2011 - poi recepito nel “Testo Unico sulla rappresentanza” tra sindacati e Confindustria - esclude la retribuzione dalle materie su cui si può derogare. E in più c’era il rischio che il giudice dicesse che non si può andare sotto il minimo tabellare indicato dal contratto nazionale, perché significherebbe andare sotto il parametro della “giusta retribuzione”».
E quindi? Cosa bisogna fare per seguire l’indicazione del Governatore Draghi, e consentire di poter abbassare liberamente i salari in un contratto aziendale, magari perché si pensa di poter meglio difendere i posti di lavoro?
«Occorre una legge che espliciti questo punto, cioè dica esplicitamente che il contratto collettivo più vicino al luogo di lavoro prevale sul contratto di livello superiore, anche sulla materia della retribuzione. Successivamente, bisogna completare questa manovra con l’introduzione del salario orario minimo, che diventerebbe il vero “minimo dei minimi”, anche per la giustizia del lavoro». 

Draghi promuove i contratti aziendali
Il presidente della Bce: tagliati meno posti di lavoro rispetto agli accordi nazionalidi Marco Zatterin La Stampa 23.5.15
Elogio delle riforme e della flessibilità, servito insieme con un’abbondante dose di ottimismo per l’economia, «visto che l’outlook dell’Eurozona è il migliore da sette lunghi anni». Mario Draghi prende la parola nel Forum portoghese organizzato dalla Bce a Sintra - la versione europea del summit agostano che la Fed ospita a Jackson Hole nel Wyoming -, e invita a guardare avanti, ad agire sulla competitività e sul mercato del lavoro. Attira l’attenzione quando dice che la contrattazione aziendale delle retribuzioni è da preferire a quella nazionale, fatto che argomenta con alcuni della sua banca. I quali dimostrano, afferma, che chi aveva intese a livello locale ha meglio sfruttato la flessibilità nei tempi difficili, «e ha tagliato i posti meno di chi era vincolate da patti salariali centralizzati».
Il nodo del lavoro
Si cerca una ricetta per correggere il dramma dell’occupazione a due cifre e favorire l’aumento dei giri del motore della ripresa. E’ un tempo in cui il peggio sembra essere alle spalle, eppure gli indicatori più rosei si scontrano con un malessere diffuso fra le famiglie che faticano ad arrivare a fine del mese. Draghi, coerente col passato, batte sul tasto degli interventi strutturali, a tutto campo. E davanti a un pubblico da grande occasione, ricorda che un ritorno durevole alla crescita e alla stabilità richiede che non si interrompa il ciclo degli interventi strutturali. Proseguire lo sforzo gli pare necessario per scatenare il potenziale che non trova uno sbocco. «Prima riformiamo - è il messaggio -, meglio è». Ecco il punto. «Mettiamo l’accento qui non perché gli impegni necessari siano stati ignorati in questi anni - ha spiegato il presidente Bce -, ma perché sappiamo che la capacità di riportare stabilità e benessere non dipende solo dalle politiche cicliche, compresa la monetaria, ma anche da quelle strutturali». Le due azioni «sono dipendenti». Pertanto, l’ex governatore di Bankitalia sottolinea che «ci troviamo in una prima fase della ripresa ciclica: non è un motivo per ritardare le riforme strutturali, ma piuttosto è un’opportunità per accelerarle».
Incognite sulle ripresa
Bisogna insomma evitare l’errore dell’Eurozona, che più volte è stato denunciato allo scoppio della crisi nel 2008, che è quello di non avere capitalizzato abbastanza i tempi buoni vissuti sino ad allora. La politica monetaria «si sta facendo sentire sull’economia e la crescita si riprende», nota il presidente Bce, e «le attese di inflazione si sono riprese». Tuttavia, puntualizza, «non significa affatto che non ci siano sfide da affrontare: la ripresa ciclica non risolve da sola tutti i problemi dell’Europa». Un adeguato livello di flessibilità delle economie nazionali nell’Eurozona «dovrebbe far parte del nostro Dna comune». Al contempo, «molte cose parlano a favore d’una governance sulle riforme esercitata congiuntamente a livello dell’Eurozona». E’ un appello alla collegialità delle riforme, «a livello nazionale ed europeo». Importante essere credibili: «Se c’è incertezza sui tempi dell’attuazione, o sull’impegno dei successivi governi nel mantenerle, ci vorrà di più perché imprese e famiglie adeguino le aspettative e i vantaggi delle riforme slitteranno nel tempo». Il litigioso universo della politica è avvisato. 

Perché il premier ora apprezza la lezione inglese
di Francesco Verderami Corriere 23.5.15

La camicia bianca non tira più, è in giacca che gli italiani preferirebbero vedere Renzi. Non è questione di gusti né di moda, è una richiesta politica vissuta dall’opinione pubblica come un’esigenza, la volontà di vederlo legato più strettamente al ruolo di presidente del Consiglio.
L’Italia parla al premier, non solo attraverso i social net-work. La voce del Paese gli giunge anche attraverso i sondaggi, dai quali risulta come i cittadini vorrebbero da Renzi un cambio di abito e un cambio di linguaggio. Rispetto ai tempi in cui conquistò la scena da rottamatore, l’approccio giovanilista e la tendenza alla battuta creano oggi distacco, e infatti si chiede al premier un profilo istituzionale.
Fossero questi i guai, Renzi indosserebbe lo smoking ad ogni conferenza stampa. I nodi sono altri, tutti attorcigliati nella matassa ingarbugliata della crisi: un recente report riservato di Swg, per esempio, segnala al capo del governo come si sia allargata di altri quattro punti la forbice tra chi si sente escluso (73%) e chi si sente incluso (27%) «rispetto al contesto sociale ed economico nazionale». Una frattura clamorosa che accompagna i dati sulle «principali preoccupazioni» degli italiani, legate alla «disoccupazione» (42%), alle «tasse» (33%) e alle «prospettive per i giovani» (32%).
È chiaro che tutto ciò si riflette sul consenso del premier, del suo governo e del suo partito, in uno scenario politico che — a detta di Renzi — mostra un elettorato fluido, ormai fuori dai vecchi recinti ideologici e che non risponde più ai richiami delle forze politiche: «Sono cambiati gli elettori, che ci consegnano nuove domande». Tutto oggi si scompone e si ricompone in fretta. Sembra passato un secolo, e invece non è passato nemmeno un anno da quando il leader del Pd, analizzando i flussi del voto europeo, spiegò al suo stato maggiore che «si è ridefinita la base sociale del nostro partito».
In effetti il 40% degli elettori che aveva portato il Pd al 40,8% proveniva da altre formazioni: Forza Italia, Lega, M5S, Scelta civica. Il profilo dei Democratici era mutato: più interclassista e con un consenso omogeneo sull’intero territorio nazionale. Era il partito della nazione, appunto, frutto di un programma che abbatteva i vecchi totem sul Jobs act, sulla riforma della Costituzione, sulla responsabilità civile dei magistrati, sul rapporto con i sindacati.
Oggi però — secondo le indagini demoscopiche — un terzo di quel 40% di elettori se n’è andato: una parte (minima) si è spostata a sinistra, la maggioranza invece è rifluita verso l’astensionismo. È il segno che Renzi continua a non aver rivali, ma che la luna di miele è terminata e si è arrestato il trend positivo. Gli analisti ritengono che la flessione si registri soprattutto tra gli elettori in difficoltà economica e che confidavano in un’immediata ripresa: paradossalmente gli 80 euro avrebbero creato un’eccessiva aspettativa.
Non a caso il premier — che presta attenzione a questi dati più di quanto ne riservi alle percentuali dei partiti — ha battuto negli ultimi tempi il tasto sugli «aiuti» da dare «ai più poveri»: avvertiva (e avverte) la loro delusione, e così mirava a contrastare (anche) l’offensiva dei grillini, che drenano consensi proprio in quelle fasce di elettorato con l’idea del reddito di cittadinanza. Ma la maledizione del tesoretto si è abbattuta anche su Renzi per mano della Consulta e della sentenza sulle pensioni.
L’elemento critico nel rapporto con l’opinione pubblica è il tempo d’attesa — legato ai tempi della crisi — che finisce per influire sui giudizi: un anno la maggioranza assoluta dei cittadini era favorevole all’Italicum, un anno dopo i numeri si sono ribaltati. Si palesa così — raccontano i sondaggi — un Paese schizofrenico a seconda del contesto. E non c’è dubbio che «il contesto» stia giocando un ruolo sull’accoglienza della riforma scolastica da parte degli elettori. Il «contesto» crea difficoltà al premier persino nella sua narrazione dell’Italia che verrà, perché le riforme vengono percepite come segmenti a se stanti, non come pezzi di un unico puzzle.
Ecco il quadro, ed ecco il motivo per cui il leader del Pd punta alle urne nel 2018. Il voto inglese l’ha rafforzato nel convincimento, «è stato un’autentica lezione», non solo per la sconfitta della sinistra di Miliband ma soprattutto «per il successo di Cameron, che ha potuto spendere in campagna elettorale i risultati economici del suo governo». Perciò Renzi legge i sondaggi e li interpreta inseriti nel «contesto», perciò si dice proiettato verso la fine naturale della legislatura, dove conta di presentarsi senza più camicia sbottonata e senza parlare più di rottamazione. Ma con il saldo positivo delle sue riforme.


Economia e astensionismo, le incognite sulle Regionali
di Massimo Franco Corriere 23.5.15

Le parole usate ieri da Matteo Renzi in vista delle elezioni di fine maggio sono stranamente caute. Fanno intuire che il premier nutre qualche incertezza sulla possibilità di conquistare tutte o quasi le sette regioni in cui si vota; e che il suo timore principale è dato dai possibile effetti dello scontro all’interno del suo stesso partito. Così, quando dice che «non deve contare il numero delle regioni vinte ma quanti posti di lavoro riusciremo a mettere in piedi», schiva i sondaggi. E quando spiega che l’Italia ce la farà «se smettiamo di occuparci di polemiche interne», alludendo al Pd, invita ad un’unità interna non scontata.
Ha ancora dalla sua la vittoria alle europee dello scorso anno: quel 40,8 per cento storico, che magari si sarà assottigliato ma «puntiamo a vincere dovunque», azzarda il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi. Renzi ricorda con un filo di cattiveria quando, ad ogni sconfitta, nel Pd si faceva «terapia di gruppo come per gli alcolisti anonimi». Non è un caso che abbia parlato in questi termini a Salerno, davanti al candidato governatore della Campania, Vincenzo De Luca: un esponente condannato in primo grado e in teoria non legittimato ad assumere l’incarico anche se eletto.
Per di più, De Luca è appoggiato da liste nelle quali figurerebbero degli «impresentabili». A definirli così è stato lo stesso Renzi, nei giorni scorsi. E nel Pd i suoi avversari adesso usano l’argomento contro di lui. Critiche in buona parte strumentali, ma che si saldano con i dubbi delle settimane scorse su un eventuale successo di De Luca. Ieri il premier lo ha sostenuto pubblicamente: la possibilità di strappare la Campania al centrodestra fa passare in secondo piano le remore.
A sospendere la sua entrata in carica, infatti, dovrebbe essere Renzi stesso, in quanto presidente del Consiglio: a meno che la legge non venga cambiata in corsa. La preoccupazione non è tanto per il centrodestra. A parte il Veneto, dove è molto probabile una vittoria leghista, altrove le truppe berlusconiane appaiono sbandate. Silvio Berlusconi sta cercando di aumentare il livello dello scontro con il premier. Lo accusa di trovarsi a palazzo Chigi senza essere stato eletto. Eppure, fino all’elezione del capo dello Stato, il problema sembrava marginale, e questo indebolisce la sua polemica.
Le vere incognite che Renzi sa di dover fronteggiare sono altre. Intanto, un astensionismo aggravato dalle liti a sinistra e a destra, che potrebbe avvantaggiare il M5S. E poi, al solito, l’economia. Palazzo Chigi non può allineare i risultati ottenuti come avrebbe voluto. La sentenza della Corte costituzionale sui rimborsi ai pensionati ha asciugato il «tesoretto» annunciato in vista di misure per la ripresa. E Renzi ha dovuto correggere l’irritazione del ministro Pier Carlo Padoan, ribadendo massimo rispetto per la Consulta.


Il paese reale che la politica non capisce
di Mario Deaglio La Stampa 23.5.15

Sono circa 23 milioni – un po’ meno di un elettore su due – gli italiani chiamati a votare, nelle elezioni locali che si terranno domenica 31 in sette regioni e in oltre mille Comuni d’Italia: un’occasione molto importante per capire com’è veramente fatto e che cosa si deve fare per questo Paese, nella prospettiva di una risalita della produzione che sembra finalmente arrivata, ma si manifesta sul territorio con molta irregolarità ed eccessiva lentezza. Un Paese diventato, con il passare degli anni, sempre più sfuggente, sempre più enigmatico e sempre meno in sintonia con i politici, come dimostrano, tra l’altro, gli elevati livelli di astensione nelle recenti prove elettorali.
Per questo motivo, il «Rapporto Annuale 2015» sulla situazione del Paese, preparato dall’Istat e presentato a Roma mercoledì scorso, riveste un’importanza particolare. Si tratta, come lo definisce lo stesso Istat, di una «riflessione documentata sui cambiamenti economici e sociali in atto» ossia di quelle valutazioni per le quali le forze politiche sembrano non aver mai tempo.
Questa «riflessione documentata» è condotta con metodi nuovi: si basa sull’esame di quelli che il Rapporto definisce «sistemi urbani giornalieri», ossia delle reti che si formano grazie agli spostamenti degli italiani per andare e tornare dal loro luogo di lavoro e definiscono, di fatto, un territorio con le sue potenzialità e le sue esigenze. Il che ha consentito, secondo l’Istat, di approntare nuove mappe per leggere il «Paese reale». Si tratta precisamente di quel «Paese reale» con il quale la politica ha una crescente difficoltà a mettersi in sintonia e di una visione per lo meno complementare, forse sostitutiva, di quella tradizionale, basata su entità geografico-amministrative, come sono le regioni, i comuni e le città metropolitane.
Sotto la lente dell’Istat, l’Italia si rivela economicamente molto più variegata di come viene normalmente presentata. Esiste un «altro Sud» fatto di quasi mille comuni che comprende quasi tutta la Sardegna, il Salento, le coste della Sicilia e della Calabria e quasi 7 milioni di abitanti che può vantare un certo dinamismo e discrete prospettive future; il modello della «città diffusa», presente soprattutto nella pianura lombardo-veneta, ma anche in varie zone del Centro, conta complessivamente 12 milioni di abitanti e 1500 Comuni e sembra contrapporsi, non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello dello stile di vita, alle «grandi città del Nord» che vantano 18 milioni di abitanti. L’elenco potrebbe continuare, mettendo in luce una varietà che quasi certamente non ha paragone al mondo.
L’Italia è stata sovente paragonata a un vestito da Arlecchino: il numero delle «pezze» che compongono questo vestito risulta molto superiore a quello che ci saremmo potuti attendere. E mentre il Mezzogiorno è praticamente scomparso dal dibattito sulla politica economica (un dibattito, peraltro, che diventa sempre più asfittico) tocca all’Istat sottolineare che la crescita dell’occupazione ha riguardato soltanto il Centro-Nord mentre il numero degli occupati al Sud si è ridotto fortemente durante la crisi. Ed è l’«Economist», noto settimanale inglese a scrivere «il Nord va avanti zoppicando, ma il Sud collassa», lanciando, pochi giorni prima dell’uscita di questo Rapporto, un grido d’allarme per questo divario sul quale troppo facilmente in Italia si chiudono gli occhi. Eppure il Mezzogiorno non è affatto privo di potenzialità e dispone di sistemi locali che potrebbero abbastanza facilmente essere rilanciati.
Alle diversità si accompagnano elementi tipicamente italiani di uniformità. Dal punto di vista economico, uno dei più importanti è dato dalla struttura imprenditoriale: le «microimprese», ossia quelle con meno di 10 addetti, rappresentano quasi la metà dell’occupazione complessiva, contro meno di un terzo della media europea. Le imprese con più di 250 addetti rappresentano solo un quinto dell’occupazione complessiva. Se le imprese piccole diventassero un po’ meno piccole, sarebbero probabilmente più produttive e la ripresa del Paese poggerebbe su gambe più solide.
Da tutto ciò si può trarre una conclusione: i segnali di ripresa – o meglio di rimbalzo – visibili oggi nell’economia italiana vanno nella direzione giusta ma non serviranno a nulla se non si va incontro a questa realtà frammentata che, in un modo o nell’altro, ha superato la crisi e mostra una vitalità non piccola. A questo dovrebbero pensare le forze politiche che si sfideranno domenica prossima in sette regioni d’Italia; e prima di valutare la percentuale del loro consenso elettorale dovrebbero guardare alla percentuale degli astenuti.


La “Generazione Millenials” in pensione con meno di 500 euro

La bomba sociale esploderà nel 2050: i giovani precari e collaboratori diventeranno gli anziani poveri di domani

di Paolo Baroni La Stampa 23.5.15

La «bomba» è destinata ad esplodere attorno al 2050. Ma questa volta non sarà tanto un problema di tenuta dei conti, visto che più o meno la spesa previdenziale resterà stabile attorno al 16% del Pil nonostante l’invecchiamento della popolazione. Sarà una bomba sociale, che avrà come protagonista l’attuale «generazione mille euro», che quando andrà in pensione percepirà una pensione che sarà molto più bassa del salario già misero che percepisce oggi. Nei casi più estremi, infatti, non arriveranno a 400 euro netti al mese.
Millenials nei guai
Il Censis stima che il 65% dei giovani (25-34 anni) occupati dipendenti di oggi, ovvero due su tre, avrà una pensione sotto i mille euro, pur con avanzamenti di carriera medi assimilabili a quelli delle generazioni che li hanno preceduti, considerando l’abbassamento dei tassi di sostituzione. E la previsione riguarda i più «fortunati», cioè i 3,4 milioni di giovani oggi ben inseriti nel mercato del lavoro, con contratti standard. Poi ci sono altri 890 mila giovani autonomi o con contratti di collaborazione e quasi 2,3 milioni di Neet, ragazzi che non studiano né lavorano, che avranno ancora meno. «Se continua così, i giovani precari di oggi diventeranno gli anziani poveri di domani» segnala nelle scorse settimane il Censis. Dunque, se in prospettiva un problema di previdenza si pone, riguarda innanzitutto quella «solidarietà tra generazioni», evocata tra l’altro giusto ieri Matteo Renzi.
L’effetto contributivo
Il regime contributivo puro, che dalla riforma Fornero in poi si applica a tutti, secondo il Censis «cozza con la reale condizione dei millennials». E non a caso il 53% di loro pensa che la loro pensione arriverà al massimo al 50% del reddito da lavoro. La loro pensione dipenderà dalla capacità che avranno di versare contributi presto e con continuità. Ma il 61% di loro ha avuto finora una contribuzione pensionistica intermittente, perché sono rimasti spesso senza lavoro o perché hanno lavorato in nero. Per avere pensioni migliori, con la previdenza integrativa che stenta a decollare, l’unica soluzione è lavorare fino ad età avanzata. Ma non è detto che il mercato del lavoro degli anni a venire lo consenta: per ora i dati sull’occupazione ci dicono che il percorso è tutto in salita, visto che tra il 2004 ed il 2014 l’occupazione degli under 34 è scesa del 10,7% bruciando 1,8 milioni di posti.
Genitori e fratelli maggiori della «generazione mille euro», comunque, non se la caveranno tanto meglio. Secondo calcoli recenti della Ragioneria dello Stato anche chi andrà in pensione dal 2020 in poi avrà una pensione decisamente ridotta rispetto a quanti hanno lasciato il lavoro nel decennio precedente. In molti casi il loro assegno non supererà il 60% dell’ultimo stipendio. percentuale che scende addirittura sotto al 50% per gli autonomi.
L’equità possibile
Come rimediare? L’idea che Tito Boeri ha lanciato su lavoce.info a gennaio, prima insomma di prendere la guida dell’Inps, è quella di introdurre un contributo di solidarietà a carico di quel milione e 800 mila pensionati che oggi percepisce un assegno che supera i 2000 euro netti tenendo conto dello scostamento fra pensione effettiva e contributi versati. Il taglio dei trattamenti, attraverso una serie di aliquote progressive,, sarebbe compreso tra il 3 ed il 7% e frutterebbe circa 4,2 miliardi. Che secondo un esperto di previdenza come Alberto Brambilla potrebbe venire destinati ad una maggiore defiscalizzazione della previdenza complementare dei lavoratori più giovani. In maniera tale, come auspica anche Boeri, si avvicinare un poco padri. e figli.

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