Se il trasformismo fa bene alle riforme
di Michele Salvati Corriere 23.5.15I nostri politici studieranno i risultati delle imminenti elezioni regionali con lo stesso interesse che gli aruspici romani dedicavano alle viscere dell’animale prescelto per il vaticinio. Dalle regionali si trarranno poi congetture per le più lontane elezioni nazionali: continuerà la resistibile ascesa di Matteo Renzi e il disfacimento di Forza Italia? Riuscirà Salvini a estendere la sua influenza a tutto il Paese? Il disgusto e l’indignazione per la politica continueranno a gonfiare le vele dei Cinque Stelle? Nessuno può negare che si tratti di interrogativi importanti, meritevoli di analisi, sondaggi e vaticini. Credo però che cittadini, politici e commentatori debbano rassegnarsi ad una fase non breve di instabilità e di incertezza, diversa sia dalla facile prevedibilità della Prima Repubblica (prevalenza sicura della Dc e dei suoi alleati), sia da quella della Seconda (vittoria o sconfitta di Berlusconi e alleati contro sinistra e alleati), esito questo meno facile da prevedere ma inquadrato in uno schema bipolare chiaro. Questo schema oggi è in pezzi e quale sia quello che lo sostituirà è per ora ignoto.In un editoriale di grande interesse ( Corriere della Sera , 17 maggio) Ernesto Galli della Loggia vede nel nostro futuro quel che era già avvenuto nel passato, un esito trasformistico, l’impossibilità di organizzare stabilmente la competizione politica sulla base di due schieramenti. Alternativi sì, ma idonei a governare per il rispetto che entrambi nutrono per i principi del liberalismo e della democrazia, per l’adeguatezza dell’analisi dei mali del Paese e delle riforme necessarie a contrastarli, per la qualità delle classi dirigenti che possono mettere in campo: vogliamo chiamarli una destra e una sinistra civili? Il trasformismo di Depretis nasceva proprio dal riconoscimento che, raggiunta l’Unità attraverso il Regno, le vecchie passioni che avevano alimentato il conflitto tra destra monarchica e sinistra repubblicana si andavano attenuando ed entrambe erano disposte a collaborare al compito gravoso di costruire un Paese moderno e rispettato. Collaborare tenendo ai margini le forze antisistema, quelle che si rifiutavano di accettare il fatto compiuto di un Regno laico e conservatore: repubblicani intransigenti, cattolici, socialisti. E, di nuovo, fu trasformistica l’esperienza di un passato più recente, la seconda parte della Prima Repubblica: la necessità di impedire l’accesso al governo del Pci «costrinse» a stare insieme forze politiche che in altri Paesi si alternavano al governo, democristiani e socialisti.
Insomma il trasformismo (in senso sistemico, l’impossibilità di alternanza, non solo il banale cambiar casacca per opportunismo individuale) starebbe nelle corde profonde del nostro Paese e ora riemergerebbe nelle forme del «partito della Nazione», il partito democratico di Renzi. Vedo anch’io le forze che oggi si oppongono ad una democrazia dell’alternanza: Berlusconi ha fallito nel suo compito — ma se l’era mai posto? — di creare un partito di centrodestra capace di buon governo, e che fosse in grado di reggere al declino inevitabile del suo potere carismatico. E non sarà né semplice, né rapido il processo che condurrà all’emersione di uno sfidante serio al Pd, anche a seguito della forza d’attrazione che la sua linea riformatrice e centrista esercita sui ceti più moderati e governativi del centrodestra.
Faccio però fatica a paragonare questa incipiente fase di centrismo con le due lunghe fasi storiche cui Galli della Loggia si riferisce: le forze che impedivano l’alternanza allora erano assai più potenti di quelle che la rendono difficile ora. Oggi il suffragio è universale, la legge elettorale si limita a concedere un premio di maggioranza non diverso da quello che con diversi metodi il partito più votato ottiene in altri Paesi democratici, e non c’è alcuna conventio ad excludendum come quella che ostacolava l’accesso al governo del Pci nella Prima Repubblica: se Grillo o Salvini ottengono più voti di Renzi, governano loro.
Io resto un sostenitore di una democrazia competitiva, che consenta alternanza di governo. E spero che il centrodestra sia in grado di trovare un campione credibile in tempi non biblici. Ma se l’attuale governo soddisfa gli elettori non vedo cosa ci sia di male se esso viene sostenuto da ceti sociali e da politici che in passato avevano appoggiato governi di diverso colore. «Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?»: questa è la famosa frase di Depretis che diede origine all’epiteto di «trasformismo» (G. Sabbatucci, Il trasformismo come sistema , Laterza, 2003). In un italiano più moderno potrebbe averla detta Renzi — di fatto ha spesso sostenuto tesi simili — e la troverei assennata: se la competizione non è esclusa, un po’ di centrismo e di stabilità governativa possono anche favorire un processo riformatore.
“Serve una legge nazionale per avere stipendi meno rigidi”
Ichino: giuste le deroghe sui minimi delle retribuzioni
di Roberto Giovannini La Stampa 23.5.15
Senatore Pietro Ichino, ora nel Partito Democratico, come commenta le parole di Mario Draghi? È vero che le imprese che possono abbassare i salari licenziano di meno?
«C’è una logica stringente nel ragionamento di Draghi. Le strategie neokeynesiane che piacciono alla nostra vecchia sinistra, in una situazione di salari nominali rigidi - rigidità dovuta proprio alla inderogabilità dei contratti nazionali - puntano a ridurre il valore d’acquisto dei salari con l’inflazione, e in questo modo evitare la disoccupazione. Ma noi non disponiamo della leva monetaria, e dunque abbiamo bisogno della flessibilità che ci permette di far fronte alla crisi congiunturale con una flessibilità salariale che consente di evitare di ridurre l’impatto della congiuntura negativa. In altre parole, la possibilità, e la possibilità di contrattare la retribuzione al livello aziendale permette di raggiungere lo stesso risultato di contrasto alla disoccupazione in modo più esplicito».
Dunque, Draghi ha ragione. In che modo si potrebbe adattare questa riflessione al sistema italiano, concretamente?
«Con un nuovo assetto della contrattazione collettiva che preveda la possibilità di deroga rispetto al contratto nazionale di lavoro non soltanto sulla parte normativa ma anche sulla parte salariale, come i minimi tabellari».
Senatore, ma già c’è la norma dell’articolo 8 voluto a suo tempo da Maurizio Sacconi: già si può fare!
«C’è però un problema: è vero che l’articolo 8 dà questa possibilità in linea generale, senza esplicitare che essa si estende anche alla materia retributiva; ma i giudici continuano a interpretare i minimi tabellari come i parametri per l’applicazione dell’art.36 della Costituzione, quello che stabilisce il diritto del lavoratore alla “giusta retribuzione”».
Dunque neanche ci hanno provato, aziende e sindacati, a utilizzare quella norma?
«Nessuno ci ha neanche provato. Anche perché l’accordo interconfederale del 2011 - poi recepito nel “Testo Unico sulla rappresentanza” tra sindacati e Confindustria - esclude la retribuzione dalle materie su cui si può derogare. E in più c’era il rischio che il giudice dicesse che non si può andare sotto il minimo tabellare indicato dal contratto nazionale, perché significherebbe andare sotto il parametro della “giusta retribuzione”».
E quindi? Cosa bisogna fare per seguire l’indicazione del Governatore Draghi, e consentire di poter abbassare liberamente i salari in un contratto aziendale, magari perché si pensa di poter meglio difendere i posti di lavoro?
«Occorre una legge che espliciti questo punto, cioè dica esplicitamente che il contratto collettivo più vicino al luogo di lavoro prevale sul contratto di livello superiore, anche sulla materia della retribuzione. Successivamente, bisogna completare questa manovra con l’introduzione del salario orario minimo, che diventerebbe il vero “minimo dei minimi”, anche per la giustizia del lavoro».
Draghi promuove i contratti aziendali
Il presidente della Bce: tagliati meno posti di lavoro rispetto agli accordi nazionalidi Marco Zatterin La Stampa 23.5.15
Elogio delle riforme e della flessibilità, servito insieme con
un’abbondante dose di ottimismo per l’economia, «visto che l’outlook
dell’Eurozona è il migliore da sette lunghi anni». Mario Draghi prende
la parola nel Forum portoghese organizzato dalla Bce a Sintra - la
versione europea del summit agostano che la Fed ospita a Jackson Hole
nel Wyoming -, e invita a guardare avanti, ad agire sulla competitività e
sul mercato del lavoro. Attira l’attenzione quando dice che la
contrattazione aziendale delle retribuzioni è da preferire a quella
nazionale, fatto che argomenta con alcuni della sua banca. I quali
dimostrano, afferma, che chi aveva intese a livello locale ha meglio
sfruttato la flessibilità nei tempi difficili, «e ha tagliato i posti
meno di chi era vincolate da patti salariali centralizzati».
Il nodo del lavoro
Si cerca una ricetta per correggere il dramma dell’occupazione a due
cifre e favorire l’aumento dei giri del motore della ripresa. E’ un
tempo in cui il peggio sembra essere alle spalle, eppure gli indicatori
più rosei si scontrano con un malessere diffuso fra le famiglie che
faticano ad arrivare a fine del mese. Draghi, coerente col passato,
batte sul tasto degli interventi strutturali, a tutto campo. E davanti a
un pubblico da grande occasione, ricorda che un ritorno durevole alla
crescita e alla stabilità richiede che non si interrompa il ciclo degli
interventi strutturali. Proseguire lo sforzo gli pare necessario per
scatenare il potenziale che non trova uno sbocco. «Prima riformiamo - è
il messaggio -, meglio è». Ecco il punto. «Mettiamo l’accento qui non
perché gli impegni necessari siano stati ignorati in questi anni - ha
spiegato il presidente Bce -, ma perché sappiamo che la capacità di
riportare stabilità e benessere non dipende solo dalle politiche
cicliche, compresa la monetaria, ma anche da quelle strutturali». Le due
azioni «sono dipendenti». Pertanto, l’ex governatore di Bankitalia
sottolinea che «ci troviamo in una prima fase della ripresa ciclica: non
è un motivo per ritardare le riforme strutturali, ma piuttosto è
un’opportunità per accelerarle».
Incognite sulle ripresa
Bisogna insomma evitare l’errore dell’Eurozona, che più volte è stato
denunciato allo scoppio della crisi nel 2008, che è quello di non avere
capitalizzato abbastanza i tempi buoni vissuti sino ad allora. La
politica monetaria «si sta facendo sentire sull’economia e la crescita
si riprende», nota il presidente Bce, e «le attese di inflazione si sono
riprese». Tuttavia, puntualizza, «non significa affatto che non ci
siano sfide da affrontare: la ripresa ciclica non risolve da sola tutti i
problemi dell’Europa». Un adeguato livello di flessibilità delle
economie nazionali nell’Eurozona «dovrebbe far parte del nostro Dna
comune». Al contempo, «molte cose parlano a favore d’una governance
sulle riforme esercitata congiuntamente a livello dell’Eurozona». E’ un
appello alla collegialità delle riforme, «a livello nazionale ed
europeo». Importante essere credibili: «Se c’è incertezza sui tempi
dell’attuazione, o sull’impegno dei successivi governi nel mantenerle,
ci vorrà di più perché imprese e famiglie adeguino le aspettative e i
vantaggi delle riforme slitteranno nel tempo». Il litigioso universo
della politica è avvisato.
di Francesco Verderami Corriere 23.5.15
La camicia bianca non tira più, è in giacca che gli italiani
preferirebbero vedere Renzi. Non è questione di gusti né di moda, è una
richiesta politica vissuta dall’opinione pubblica come un’esigenza, la
volontà di vederlo legato più strettamente al ruolo di presidente del
Consiglio.
L’Italia parla al premier, non solo attraverso i social net-work. La
voce del Paese gli giunge anche attraverso i sondaggi, dai quali risulta
come i cittadini vorrebbero da Renzi un cambio di abito e un cambio di
linguaggio. Rispetto ai tempi in cui conquistò la scena da rottamatore,
l’approccio giovanilista e la tendenza alla battuta creano oggi
distacco, e infatti si chiede al premier un profilo istituzionale.
Fossero questi i guai, Renzi indosserebbe lo smoking ad ogni conferenza
stampa. I nodi sono altri, tutti attorcigliati nella matassa
ingarbugliata della crisi: un recente report riservato di Swg, per
esempio, segnala al capo del governo come si sia allargata di altri
quattro punti la forbice tra chi si sente escluso (73%) e chi si sente
incluso (27%) «rispetto al contesto sociale ed economico nazionale». Una
frattura clamorosa che accompagna i dati sulle «principali
preoccupazioni» degli italiani, legate alla «disoccupazione» (42%), alle
«tasse» (33%) e alle «prospettive per i giovani» (32%).
È chiaro che tutto ciò si riflette sul consenso del premier, del suo
governo e del suo partito, in uno scenario politico che — a detta di
Renzi — mostra un elettorato fluido, ormai fuori dai vecchi recinti
ideologici e che non risponde più ai richiami delle forze politiche:
«Sono cambiati gli elettori, che ci consegnano nuove domande». Tutto
oggi si scompone e si ricompone in fretta. Sembra passato un secolo, e
invece non è passato nemmeno un anno da quando il leader del Pd,
analizzando i flussi del voto europeo, spiegò al suo stato maggiore che
«si è ridefinita la base sociale del nostro partito».
In effetti il 40% degli elettori che aveva portato il Pd al 40,8%
proveniva da altre formazioni: Forza Italia, Lega, M5S, Scelta civica.
Il profilo dei Democratici era mutato: più interclassista e con un
consenso omogeneo sull’intero territorio nazionale. Era il partito della
nazione, appunto, frutto di un programma che abbatteva i vecchi totem
sul Jobs act, sulla riforma della Costituzione, sulla responsabilità
civile dei magistrati, sul rapporto con i sindacati.
Oggi però — secondo le indagini demoscopiche — un terzo di quel 40% di
elettori se n’è andato: una parte (minima) si è spostata a sinistra, la
maggioranza invece è rifluita verso l’astensionismo. È il segno che
Renzi continua a non aver rivali, ma che la luna di miele è terminata e
si è arrestato il trend positivo. Gli analisti ritengono che la
flessione si registri soprattutto tra gli elettori in difficoltà
economica e che confidavano in un’immediata ripresa: paradossalmente gli
80 euro avrebbero creato un’eccessiva aspettativa.
Non a caso il premier — che presta attenzione a questi dati più di
quanto ne riservi alle percentuali dei partiti — ha battuto negli ultimi
tempi il tasto sugli «aiuti» da dare «ai più poveri»: avvertiva (e
avverte) la loro delusione, e così mirava a contrastare (anche)
l’offensiva dei grillini, che drenano consensi proprio in quelle fasce
di elettorato con l’idea del reddito di cittadinanza. Ma la maledizione
del tesoretto si è abbattuta anche su Renzi per mano della Consulta e
della sentenza sulle pensioni.
L’elemento critico nel rapporto con l’opinione pubblica è il tempo
d’attesa — legato ai tempi della crisi — che finisce per influire sui
giudizi: un anno la maggioranza assoluta dei cittadini era favorevole
all’Italicum, un anno dopo i numeri si sono ribaltati. Si palesa così —
raccontano i sondaggi — un Paese schizofrenico a seconda del contesto. E
non c’è dubbio che «il contesto» stia giocando un ruolo
sull’accoglienza della riforma scolastica da parte degli elettori. Il
«contesto» crea difficoltà al premier persino nella sua narrazione
dell’Italia che verrà, perché le riforme vengono percepite come segmenti
a se stanti, non come pezzi di un unico puzzle.
Ecco il quadro, ed ecco il motivo per cui il leader del Pd punta alle
urne nel 2018. Il voto inglese l’ha rafforzato nel convincimento, «è
stato un’autentica lezione», non solo per la sconfitta della sinistra di
Miliband ma soprattutto «per il successo di Cameron, che ha potuto
spendere in campagna elettorale i risultati economici del suo governo».
Perciò Renzi legge i sondaggi e li interpreta inseriti nel «contesto»,
perciò si dice proiettato verso la fine naturale della legislatura, dove
conta di presentarsi senza più camicia sbottonata e senza parlare più
di rottamazione. Ma con il saldo positivo delle sue riforme.
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