lunedì 11 maggio 2015

Le lettere di Elena Croce e María Zambrano

A presto, dunque, e a sempreElena Croce, María Zambrano: A presto, dunque, e a sempre. Lettere 1955-1990, a cura di Elena Laurenzi, Archinto

Risvolto
Il volume presenta in forma integrale la corrispondenza inedita tra Elena Croce e María Zambrano: documento straordinario sia del pensiero della Zambrano, le cui lettere costituiscono un autentico laboratorio filosofico, sia della scrittura di Elena Croce, di cui le lettere mettono in luce quelle qualità che la fanno partecipe della migliore tradizione memorialistica. L’apparato critico ricostruisce l’ordito delle vicende biografiche, culturali, sociali e politiche su cui l’epistolario s’intesse, delineando eventi e processi che hanno segnato la storia del Novecento e che trovano un vivido riflesso nelle considerazioni appassionate e lucide delle autrici.
María Zambrano e Elena Croce lettere da un’amicizia
Pubblicato l’epistolario delle due intellettuali Una corrispondenza che va dal 1955 al 1990 tra filosofia, memoria, storia e piccoli aneddotidi Roberto Esposito Repubblica 3.6.15
A PRESTO, dunque, e a sempre. Lettere 1955 1-990 è l’intenso titolo, evocativo di un’amicizia ininterrotta, della corrispondenza, finora inedita, tra Elena Croce e María Zambrano, pubblicata da Archinto con un saggio introduttivo e un prezioso apparato critico di Elena Laurenzi. Quello che la sua lettura produce non è solo uno straordinario aroma d’epoca – la Roma ancora internazionale, “aperta e segreta”, che accolse gli esuli spagnoli nella stagione buia della dittatura franchista. Certo, già i nomi di Croce e Ortega, di Unamuno e Machado, di Zolla e Bergamín, bastano a rievocare un paesaggio intellettuale di singolare profondità. Così come i riferimenti alle opere delle due interlocutrici – L’uomo e il divino e Persona e democrazia di María o In visita e Periplo italiano di Elena – immettono direttamente nel loro laboratorio creativo.
Ma ciò che traspare da queste pagine è qualcosa di più, di cui oggi si avverte la mancanza. Si tratta della maniera, sobria ed elegante, con cui due grandi protagoniste della cultura europea riescono ad articolare eventi pubblici e vicende personali, senza mai rompere l’equilibrio di misura e grazia che connota ogni singola lettera. Diverse per carattere e scrittura – più lirica e spirituale quella di Zambrano, più limpida e contenuta quella di Croce – le due donne alternano osservazioni penetranti sull’Italia liberata e la Spagna ancora prigioniera, sulle difficoltà degli esuli e su nuovi progetti editoriali, sulla figura dei Padri e sul destino dei figli. A prevalere, in quest’intreccio di pensiero e vita, più che punti di vista propriamente filosofici, sono i contorni delle cose e i profili delle persone, i colori e i sapori dell’esistenza romana, intessuta in una molteplicità di fili e di rapporti annodati intorno alla casa di Elena. Anche quando María è ormai lontana, il suo sguardo resta rivolto a quel punto di luce che neanche il tempo che passa riesce ad appannare: «Magari potessimo venire a Roma, o meglio tornare.
– scrive Zambrano dal suo nuovo esilio – Qui è molto bello e tutti ci trattano molto bene. Ma Roma è la casa, il centro, il nostro luogo naturale ». È questo senso di appartenenza a ciò che pure è estraneo a rendere ai suoi occhi l’Italia il Paese più vitale e libero d’Europa, quando già, alla metà degli anni Settanta, esso si avviava su una strada di incipiente declino, politico e sociale, ben presente invece allo sguardo, più critico, di Elena. E tuttavia, sono proprio queste differenze, di valutazione e di tono, a fare vibrare all’unisono le corde di un’amicizia davvero stellare.

María Zambrano e Elena Croce Storia di due amiche geniali
Una grande intesa personale e intellettuale nelle lettere raccolte in volume (Archinto)

di Pietro Citati Corriere 8.5.15
Tra il 1955 e il 1990, Elena Croce e María Zambrano scambiarono moltissime lettere, che ora vengono raccolte in un bel libro curato da Elena Laurenzi, A presto, dunque, e a sempre (Archinto). Erano molto diverse: nella mente, nella cultura, nelle inclinazioni; ma tra loro nacque subito un’amicizia, che affondava nelle regioni più intime e segrete dell’animo. Erano legate, senza che noi possiamo dirne esattamente la ragione. Bastava che l’una pronunciasse una parola, perché nell’altra si risvegliasse un’emozione, a volte quasi estatica, di cui non finiamo di raccogliere gli echi.

María Zambrano aveva una geniale immaginazione filosofica, che cominciò a sviluppare all’ombra di Ortega y Gasset, e che si nutriva di una ricca fantasia lirica e ritmica. Per il suo pensiero, la scrittura era essenziale. «Il tono, il ritmo e la melodia e, se la si ottiene, la cadenza — la musica, insomma, è essenziale nella comunicazione del pensiero». Le parole scritte si immergevano nella fluida mobilità della vita. «Tu sai, scriveva, quanto mi piace immergermi tra la gente, camminare per le strade, mescolandomi, essere come una spugna che si imbeve di quel che c’è nell’ambiente». «Quanto ho scritto in vita mia! Quando trovo una cartella bianca, respiro». Come scriveva Cristina Campo, era una figura sottile e tragica: aveva qualcosa di Ifigenia e di Antigone; era una di quelle creature che sulla terra fanno da puro tramite, perché «in lei non c’era niente (ispirazione, essenza, ricchezza) che subito non donasse agli altri». Con questo carico attraversò il mondo: aveva preso parte alla rivoluzione spagnola; e quando era stata sconfitta, visse in esilio, in Messico, in Francia e in Italia, per quarantacinque anni. Trascorse dieci anni a Roma; e amava moltissimo la sua luce: cercava la luce dell’alba e quella delle dieci di mattina e quella di alcuni gloriosi mezzogiorno, che lei fissava dal suo piccolo appartamento di piazza del Popolo, Plaza del sol, come la chiamava.
Sempre, anche quando viveva vicino a Ginevra, esaltava l’Italia, il suo paesaggio, la sua vita, la sua forza creatrice, con parole che commuovono un italiano: «L’Italia è forse l’unico luogo dove la storia e l’uomo possono trovare un punto d’incontro. Fuori dall’Italia non c’è salvezza». «L’Italia è il paese più vitale che conosco: il più inimitabile, l’unico originale… sono convinta che l’Italia sia l’unica realtà ancora viva in Europa». La libertà vi aveva sempre mantenuto, anche al livello filosofico più elevato, l’aria di essere semplicemente di casa. Tutto le piaceva: l’opera buffa, le passeggiate, la chiacchera, l’opera luminosa di Benedetto Croce, gli occhi non meno luminosi di Elena Croce, sua figlia, che a volte vedeva irradiati da lievissime lacrime.
Quando la sorella di María, Aracoeli, visitò Elena a Roma, la trovò piena di grazia, di intelligenza, di eleganza: tutte qualità che Elena Croce aveva sempre posseduto, ma che ora parevano brillare in lei in tutta pienezza. Sembrava assente, distante, in confronto agli altri uomini, così attenti a ciò che accadeva, ma in realtà era proprio lei la creatura della vita, mentre gli altri erano solo ospiti indiscreti della realtà. In tutto ciò che faceva e diceva, le parole lasciate cadere nella conversazione e nelle lettere, aveva un robusto potere di sintesi, che María Zambrano le invidiava. Come rivelavano i suoi piccoli libri, era sia profonda sia signora della forma: libera come deve essere una cristiana. «Il filo d’oro della storia — insisteva la Zambrano — passa attraverso di te. In ciò che scrivi come nella tua conversazione o nelle lettere, tutto ciò che tocchi, tutto ciò che guardi, diventa storia, senza perdere per questo la sua vita singolare, il suo essere unico». Così la presenza e l’amicizia di Elena Croce trasmettevano a María Zambrano una «vitalità vibrante»; e diventavano per lei una delle costanti della sua vita, a cui non avrebbe mai voluto né potuto volgere le spalle.
Mentre María Zambrano contemplava, Elena Croce agiva: agiva a favore di María, procurandole lavoro, case reali e simboliche. Certo, spesso agiva perseguitata «dal fare tutto fuorché quello che desiderava»: invece di scrivere, dedicava molto del suo tempo a iniziative pratiche, di cui poi era scontenta. «Io non riesco a scrivere — diceva — perché sono appesantita da un senso di attivismo confuso, di cui sono scontenta e scontenta dello scontento». Non riusciva a simpatizzare col proprio ego, che anzi detestava. Ma si guardava attorno, scrutando a lungo i suoi visitatori. Cercava di capire se erano intelligenti. Aveva un dono rabdomantico per cogliere questa qualità, alla quale più tardi diede meno importanza: ne avvertiva la presenza, come si può scoprire con la lingua una combinazione chimica o un sapore del cibo. Davanti a qualsiasi nuova conoscenza, entrava in uno stato di trance: il suo sguardo demoniaco guardava le persone, ne percorreva il corpo, gli occhi, i vestiti, i gesti, ne ascoltava la conversazione, ne indovinava i sentimenti e le sensazioni, ne scopriva le virtù e i vizi. Qualche volta, era perfida: davanti a lei si tremava. Ma la sua perfidia era sopratutto una sonda, per recuperare sentimenti e passioni nascoste; e poi tutto si trasformava nella mirabile precisione oggettiva del suo sguardo, che coglieva le qualità storiche di ogni elemento.
Era un diamante fragile: tanto dura, perentoria, estrema nei gesti, quanto indifesa davanti alla vita. Aveva bisogno di protezione: ma nessuno riuscì mai a proteggerla nel modo giusto. Si sentiva esclusa, incapace di muoversi nella realtà: non sapeva sciogliersi, donarsi e abbandonarsi, come il suo immenso bisogno di dedizione avrebbe voluto. Aveva un temperamento tragico. Cosa cercò in tutta la vita con quei grandi occhi fissi che ogni tanto si accigliavano e poi si scioglievano in un sorriso soave? Inseguiva l’assoluto: anche se lei non avrebbe mai usato questa parola.
Non era contenta della sua vita. Non si amava affatto, e avrebbe voluto essere un’altra, un inattingibile modello romantico, che le serviva sopratutto per infliggere nuovi colpi di coltello nelle sue ferite. Nutriva rossori, pentimenti, sensi di colpa per non essere stata ciò che avrebbe voluto e dovuto. Come il padre, era impaziente: ma mentre l’impazienza del padre si fermava davanti all’opera, la sua impazienza non si fermava davanti a nulla. Inseguiva nobili impulsi e imprese generose. Come quelle di Don Chisciotte, le sue imprese erano spesso votate all’insuccesso: lei non si illudeva: non le importava nulla del risultato; e ogni volta si gettava in una nuova impresa con un furore incandescente.
In una delle ultime lettere, María Zambrano confessò di non stare bene. Era come se stesse sull’orlo di un pozzo oscuro in cui, a forza di guardare, intravedeva un’acqua chiara. Ma, se scrutava l’orizzonte, non vedeva nulla: o forse solo un ineffabile chiarore. La forma le sfuggiva: la storia le appariva assente; e il pensiero si salvava solo attraverso l’ironia. Quanto a Elena Croce, a volte sembrava abitare tra fantasmi di cui non poteva parlare. Poi venne aggredita da una malattia che la colpì in quello che era il suo dono: la memoria, la smagliante associazione di idee, l’arte di comprendere gli altri. Qualche anno fa, un amico che l’amava molto mi raccontò un sogno. Aveva sognato che la nostra amica si era trasformata in un pesce, che scendeva profondamente in un lago. Lui era un altro pesce e la inseguiva e le gridava di fermarsi e di aspettarlo, perché l’avrebbe riportata in alto. Entrambi avrebbero potuto vivere alla superficie del lago, insieme agli altri pesci. Ma lei non si voltò: discese sempre più rapidamente verso l’abisso, come se quello fosse il suo vero luogo, e non desiderasse che silenzio, solitudine e perdizione. 

Elena Croce e Zambrano, due donne per la libertà
di Angela Bianchini La Stampa TuttoLibri 13.6.15
Un libro bellissimo, a cominciare dal titolo, altamente simbolico, A presto, dunque, e a sempre. Lettere 1955-1990 (a cura di Elena Laurenzi) e, vorrei dire quasi unico nel suo genere. Abbiamo qui in forma integrale la lunga corrispondenza intercorsa tra due grandi donne che vissero per un lungo periodo nella stessa città: Roma o per lo meno in Italia e continuarono a scriversi anche nei periodi in cui María Zambrano dovette lasciare Roma per poi tornarci. Da una parte Elena, la figlia di Benedetto Croce scrittrice, fondatrice di riviste, e di circoli culturali, autrice di libri fondamentali sulla cultura italiana, e particolarmente su quella napoletana del dopoguerra, dall’altra María Zambrano, una delle figure più originali del panorama filosofico del 900, colei che ebbe parte attiva nella guerra civile spagnola e , dopo la disfatta repubblicana, prese la via di un lungo esilio durato 45 anni di cui 10 passati a Roma.
Queste due donne, che, di primo acchito, potevano sembrare diverse, avevano in comune il culto della libertà, l’anticonformismo, la tradizione liberale dalle radici umanistiche cristiane, dedicata al «valore della persona», come osserva Elena Laurenzi, l’attenta redattrice e studiosa di quella che chiama «una amicizia essenziale».
Per comprendere l’originalità e la profondità di questo rapporto occorre rifarsi non soltanto alla storia intellettuale di ognuna delle protagoniste, ma anche al clima particolare che accolse María Zambrano e sua sorella Araceli nel giugno 1953. Roma era una città , al tempo stesso, aperta e segreta, animata da uno «spirito vividamente internazionale». E di questo clima la rappresentante più vivace e più generosa era proprio Elena Croce. Per questo motivo si stabilì la solidarietà tra Elena e María. María Zambrano, che aveva appassionatamente difeso la libertà repubblicana dal franchismo e sentiva di essere destinata a un lunghissimo esilio, trovò proprio a Roma, come dice giustamente Elena Laurenzi «un porto - se non sicuro almeno accogliente – il calore di una sorta di famiglia».
A rendere unico il clima di questa amicizia era non soltanto la presenza di coloro che Elena Croce chiamava «gli spagnoli nostri», vale a dire il poeta Diego de Mesa, il poeta Enrique de Rivas, nipote del presidente repubblicano Manuel Azaña, il pittore e saggista Ramón Gaya e il poeta José Bergamín, ma anche di altri rifugiati provenienti dalla Germania hitleriana, dalla Grecia dei colonnelli e più tardi anche dall’Impero Sovietico e dalle dittature sudamericane. Per ricreare il clima di questa amicizia unica, che non conobbe mai alti e bassi, ma soltanto difficoltà dovute alla difficile posizione di esuli di María e di sua sorella, conviene ricordare le tante attività culturali promosse da Elena Croce che includevano individualità e anche luoghi molto vari. A contare era soprattutto la sua straordinaria vitalità che trovò riscontro in una persona come María seppur diversa.
Chi scrive ebbe la fortuna di conoscere da vicino la casa di Elena, che non fu mai un salotto bensì uno straordinario punto di incontro dove passato e presente si proiettavano sulle speranze dell’avvenire e dove i ricordi della «patria napoletana» sembravano rianimarsi e prendere nuova vita. Nessuna difficoltà, dunque, a immaginare la forza di un’ amicizia che dopo tanti anni ancora ci commuove e ci anima, ridandoci fiducia nella forza delle idee, nel libero scambio di pensieri e speranze. Un’amicizia che in ogni momento, anche i più difficili, sapeva di poter sopravvivere anzi di rimanere immortale. 

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