Elena Croce, María Zambrano:
A presto, dunque, e a sempre. Lettere 1955-1990, a cura di Elena Laurenzi, Archinto
Risvolto
Il volume presenta in forma integrale la corrispondenza inedita tra
Elena Croce e María Zambrano: documento straordinario sia del pensiero
della Zambrano, le cui lettere costituiscono un autentico laboratorio
filosofico, sia della scrittura di Elena Croce, di cui le lettere
mettono in luce quelle qualità che la fanno partecipe della migliore
tradizione memorialistica. L’apparato critico ricostruisce l’ordito
delle vicende biografiche, culturali, sociali e politiche su cui
l’epistolario s’intesse, delineando eventi e processi che hanno segnato
la storia del Novecento e che trovano un vivido riflesso nelle
considerazioni appassionate e lucide delle autrici.
María Zambrano e Elena Croce lettere da un’amicizia
Pubblicato l’epistolario delle due intellettuali Una corrispondenza che va dal 1955 al 1990 tra filosofia, memoria, storia e piccoli aneddotidi Roberto Esposito Repubblica 3.6.15
A PRESTO, dunque, e a sempre. Lettere 1955 1-990 è l’intenso titolo,
evocativo di un’amicizia ininterrotta, della corrispondenza, finora
inedita, tra Elena Croce e María Zambrano, pubblicata da Archinto con un
saggio introduttivo e un prezioso apparato critico di Elena Laurenzi.
Quello che la sua lettura produce non è solo uno straordinario aroma
d’epoca – la Roma ancora internazionale, “aperta e segreta”, che accolse
gli esuli spagnoli nella stagione buia della dittatura franchista.
Certo, già i nomi di Croce e Ortega, di Unamuno e Machado, di Zolla e
Bergamín, bastano a rievocare un paesaggio intellettuale di singolare
profondità. Così come i riferimenti alle opere delle due interlocutrici –
L’uomo e il divino e Persona e democrazia di María o In visita e
Periplo italiano di Elena – immettono direttamente nel loro laboratorio
creativo.
Ma ciò che traspare da queste pagine è qualcosa di più, di cui oggi si
avverte la mancanza. Si tratta della maniera, sobria ed elegante, con
cui due grandi protagoniste della cultura europea riescono ad articolare
eventi pubblici e vicende personali, senza mai rompere l’equilibrio di
misura e grazia che connota ogni singola lettera. Diverse per carattere e
scrittura – più lirica e spirituale quella di Zambrano, più limpida e
contenuta quella di Croce – le due donne alternano osservazioni
penetranti sull’Italia liberata e la Spagna ancora prigioniera, sulle
difficoltà degli esuli e su nuovi progetti editoriali, sulla figura dei
Padri e sul destino dei figli. A prevalere, in quest’intreccio di
pensiero e vita, più che punti di vista propriamente filosofici, sono i
contorni delle cose e i profili delle persone, i colori e i sapori
dell’esistenza romana, intessuta in una molteplicità di fili e di
rapporti annodati intorno alla casa di Elena. Anche quando María è ormai
lontana, il suo sguardo resta rivolto a quel punto di luce che neanche
il tempo che passa riesce ad appannare: «Magari potessimo venire a Roma,
o meglio tornare.
– scrive Zambrano dal suo nuovo esilio – Qui è molto bello e tutti ci
trattano molto bene. Ma Roma è la casa, il centro, il nostro luogo
naturale ». È questo senso di appartenenza a ciò che pure è estraneo a
rendere ai suoi occhi l’Italia il Paese più vitale e libero d’Europa,
quando già, alla metà degli anni Settanta, esso si avviava su una strada
di incipiente declino, politico e sociale, ben presente invece allo
sguardo, più critico, di Elena. E tuttavia, sono proprio queste
differenze, di valutazione e di tono, a fare vibrare all’unisono le
corde di un’amicizia davvero stellare.
María Zambrano e Elena Croce Storia di due amiche geniali
Una grande intesa personale e intellettuale nelle lettere raccolte in volume (Archinto)
di Pietro Citati Corriere 8.5.15
Tra il 1955 e il 1990, Elena Croce e María Zambrano scambiarono
moltissime lettere, che ora vengono raccolte in un bel libro curato da
Elena Laurenzi, A presto, dunque, e a sempre (Archinto). Erano molto
diverse: nella mente, nella cultura, nelle inclinazioni; ma tra loro
nacque subito un’amicizia, che affondava nelle regioni più intime e
segrete dell’animo. Erano legate, senza che noi possiamo dirne
esattamente la ragione. Bastava che l’una pronunciasse una parola,
perché nell’altra si risvegliasse un’emozione, a volte quasi estatica,
di cui non finiamo di raccogliere gli echi.
María Zambrano aveva una geniale immaginazione filosofica, che cominciò a
sviluppare all’ombra di Ortega y Gasset, e che si nutriva di una ricca
fantasia lirica e ritmica. Per il suo pensiero, la scrittura era
essenziale. «Il tono, il ritmo e la melodia e, se la si ottiene, la
cadenza — la musica, insomma, è essenziale nella comunicazione del
pensiero». Le parole scritte si immergevano nella fluida mobilità della
vita. «Tu sai, scriveva, quanto mi piace immergermi tra la gente,
camminare per le strade, mescolandomi, essere come una spugna che si
imbeve di quel che c’è nell’ambiente». «Quanto ho scritto in vita mia!
Quando trovo una cartella bianca, respiro». Come scriveva Cristina
Campo, era una figura sottile e tragica: aveva qualcosa di Ifigenia e di
Antigone; era una di quelle creature che sulla terra fanno da puro
tramite, perché «in lei non c’era niente (ispirazione, essenza,
ricchezza) che subito non donasse agli altri». Con questo carico
attraversò il mondo: aveva preso parte alla rivoluzione spagnola; e
quando era stata sconfitta, visse in esilio, in Messico, in Francia e in
Italia, per quarantacinque anni. Trascorse dieci anni a Roma; e amava
moltissimo la sua luce: cercava la luce dell’alba e quella delle dieci
di mattina e quella di alcuni gloriosi mezzogiorno, che lei fissava dal
suo piccolo appartamento di piazza del Popolo, Plaza del sol, come la
chiamava.
Sempre, anche quando viveva vicino a Ginevra, esaltava l’Italia, il suo
paesaggio, la sua vita, la sua forza creatrice, con parole che
commuovono un italiano: «L’Italia è forse l’unico luogo dove la storia e
l’uomo possono trovare un punto d’incontro. Fuori dall’Italia non c’è
salvezza». «L’Italia è il paese più vitale che conosco: il più
inimitabile, l’unico originale… sono convinta che l’Italia sia l’unica
realtà ancora viva in Europa». La libertà vi aveva sempre mantenuto,
anche al livello filosofico più elevato, l’aria di essere semplicemente
di casa. Tutto le piaceva: l’opera buffa, le passeggiate, la chiacchera,
l’opera luminosa di Benedetto Croce, gli occhi non meno luminosi di
Elena Croce, sua figlia, che a volte vedeva irradiati da lievissime
lacrime.
Quando la sorella di María, Aracoeli, visitò Elena a Roma, la trovò
piena di grazia, di intelligenza, di eleganza: tutte qualità che Elena
Croce aveva sempre posseduto, ma che ora parevano brillare in lei in
tutta pienezza. Sembrava assente, distante, in confronto agli altri
uomini, così attenti a ciò che accadeva, ma in realtà era proprio lei la
creatura della vita, mentre gli altri erano solo ospiti indiscreti
della realtà. In tutto ciò che faceva e diceva, le parole lasciate
cadere nella conversazione e nelle lettere, aveva un robusto potere di
sintesi, che María Zambrano le invidiava. Come rivelavano i suoi piccoli
libri, era sia profonda sia signora della forma: libera come deve
essere una cristiana. «Il filo d’oro della storia — insisteva la
Zambrano — passa attraverso di te. In ciò che scrivi come nella tua
conversazione o nelle lettere, tutto ciò che tocchi, tutto ciò che
guardi, diventa storia, senza perdere per questo la sua vita singolare,
il suo essere unico». Così la presenza e l’amicizia di Elena Croce
trasmettevano a María Zambrano una «vitalità vibrante»; e diventavano
per lei una delle costanti della sua vita, a cui non avrebbe mai voluto
né potuto volgere le spalle.
Mentre María Zambrano contemplava, Elena Croce agiva: agiva a favore di
María, procurandole lavoro, case reali e simboliche. Certo, spesso agiva
perseguitata «dal fare tutto fuorché quello che desiderava»: invece di
scrivere, dedicava molto del suo tempo a iniziative pratiche, di cui poi
era scontenta. «Io non riesco a scrivere — diceva — perché sono
appesantita da un senso di attivismo confuso, di cui sono scontenta e
scontenta dello scontento». Non riusciva a simpatizzare col proprio ego,
che anzi detestava. Ma si guardava attorno, scrutando a lungo i suoi
visitatori. Cercava di capire se erano intelligenti. Aveva un dono
rabdomantico per cogliere questa qualità, alla quale più tardi diede
meno importanza: ne avvertiva la presenza, come si può scoprire con la
lingua una combinazione chimica o un sapore del cibo. Davanti a
qualsiasi nuova conoscenza, entrava in uno stato di trance: il suo
sguardo demoniaco guardava le persone, ne percorreva il corpo, gli
occhi, i vestiti, i gesti, ne ascoltava la conversazione, ne indovinava i
sentimenti e le sensazioni, ne scopriva le virtù e i vizi. Qualche
volta, era perfida: davanti a lei si tremava. Ma la sua perfidia era
sopratutto una sonda, per recuperare sentimenti e passioni nascoste; e
poi tutto si trasformava nella mirabile precisione oggettiva del suo
sguardo, che coglieva le qualità storiche di ogni elemento.
Era un diamante fragile: tanto dura, perentoria, estrema nei gesti,
quanto indifesa davanti alla vita. Aveva bisogno di protezione: ma
nessuno riuscì mai a proteggerla nel modo giusto. Si sentiva esclusa,
incapace di muoversi nella realtà: non sapeva sciogliersi, donarsi e
abbandonarsi, come il suo immenso bisogno di dedizione avrebbe voluto.
Aveva un temperamento tragico. Cosa cercò in tutta la vita con quei
grandi occhi fissi che ogni tanto si accigliavano e poi si scioglievano
in un sorriso soave? Inseguiva l’assoluto: anche se lei non avrebbe mai
usato questa parola.
Non era contenta della sua vita. Non si amava affatto, e avrebbe voluto
essere un’altra, un inattingibile modello romantico, che le serviva
sopratutto per infliggere nuovi colpi di coltello nelle sue ferite.
Nutriva rossori, pentimenti, sensi di colpa per non essere stata ciò che
avrebbe voluto e dovuto. Come il padre, era impaziente: ma mentre
l’impazienza del padre si fermava davanti all’opera, la sua impazienza
non si fermava davanti a nulla. Inseguiva nobili impulsi e imprese
generose. Come quelle di Don Chisciotte, le sue imprese erano spesso
votate all’insuccesso: lei non si illudeva: non le importava nulla del
risultato; e ogni volta si gettava in una nuova impresa con un furore
incandescente.
In una delle ultime lettere, María Zambrano confessò di non stare bene.
Era come se stesse sull’orlo di un pozzo oscuro in cui, a forza di
guardare, intravedeva un’acqua chiara. Ma, se scrutava l’orizzonte, non
vedeva nulla: o forse solo un ineffabile chiarore. La forma le sfuggiva:
la storia le appariva assente; e il pensiero si salvava solo attraverso
l’ironia. Quanto a Elena Croce, a volte sembrava abitare tra fantasmi
di cui non poteva parlare. Poi venne aggredita da una malattia che la
colpì in quello che era il suo dono: la memoria, la smagliante
associazione di idee, l’arte di comprendere gli altri. Qualche anno fa,
un amico che l’amava molto mi raccontò un sogno. Aveva sognato che la
nostra amica si era trasformata in un pesce, che scendeva profondamente
in un lago. Lui era un altro pesce e la inseguiva e le gridava di
fermarsi e di aspettarlo, perché l’avrebbe riportata in alto. Entrambi
avrebbero potuto vivere alla superficie del lago, insieme agli altri
pesci. Ma lei non si voltò: discese sempre più rapidamente verso
l’abisso, come se quello fosse il suo vero luogo, e non desiderasse che
silenzio, solitudine e perdizione.
Elena Croce e Zambrano, due donne per la libertàdi Angela Bianchini La Stampa TuttoLibri 13.6.15
Un libro bellissimo, a cominciare dal titolo, altamente simbolico, A
presto, dunque, e a sempre. Lettere 1955-1990 (a cura di Elena Laurenzi)
e, vorrei dire quasi unico nel suo genere. Abbiamo qui in forma
integrale la lunga corrispondenza intercorsa tra due grandi donne che
vissero per un lungo periodo nella stessa città: Roma o per lo meno in
Italia e continuarono a scriversi anche nei periodi in cui María
Zambrano dovette lasciare Roma per poi tornarci. Da una parte Elena, la
figlia di Benedetto Croce scrittrice, fondatrice di riviste, e di
circoli culturali, autrice di libri fondamentali sulla cultura italiana,
e particolarmente su quella napoletana del dopoguerra, dall’altra María
Zambrano, una delle figure più originali del panorama filosofico del
900, colei che ebbe parte attiva nella guerra civile spagnola e , dopo
la disfatta repubblicana, prese la via di un lungo esilio durato 45 anni
di cui 10 passati a Roma.
Queste due donne, che, di primo acchito, potevano sembrare diverse,
avevano in comune il culto della libertà, l’anticonformismo, la
tradizione liberale dalle radici umanistiche cristiane, dedicata al
«valore della persona», come osserva Elena Laurenzi, l’attenta
redattrice e studiosa di quella che chiama «una amicizia essenziale».
Per comprendere l’originalità e la profondità di questo rapporto occorre
rifarsi non soltanto alla storia intellettuale di ognuna delle
protagoniste, ma anche al clima particolare che accolse María Zambrano e
sua sorella Araceli nel giugno 1953. Roma era una città , al tempo
stesso, aperta e segreta, animata da uno «spirito vividamente
internazionale». E di questo clima la rappresentante più vivace e più
generosa era proprio Elena Croce. Per questo motivo si stabilì la
solidarietà tra Elena e María. María Zambrano, che aveva
appassionatamente difeso la libertà repubblicana dal franchismo e
sentiva di essere destinata a un lunghissimo esilio, trovò proprio a
Roma, come dice giustamente Elena Laurenzi «un porto - se non sicuro
almeno accogliente – il calore di una sorta di famiglia».
A rendere unico il clima di questa amicizia era non soltanto la presenza
di coloro che Elena Croce chiamava «gli spagnoli nostri», vale a dire
il poeta Diego de Mesa, il poeta Enrique de Rivas, nipote del presidente
repubblicano Manuel Azaña, il pittore e saggista Ramón Gaya e il poeta
José Bergamín, ma anche di altri rifugiati provenienti dalla Germania
hitleriana, dalla Grecia dei colonnelli e più tardi anche dall’Impero
Sovietico e dalle dittature sudamericane. Per ricreare il clima di
questa amicizia unica, che non conobbe mai alti e bassi, ma soltanto
difficoltà dovute alla difficile posizione di esuli di María e di sua
sorella, conviene ricordare le tante attività culturali promosse da
Elena Croce che includevano individualità e anche luoghi molto vari. A
contare era soprattutto la sua straordinaria vitalità che trovò
riscontro in una persona come María seppur diversa.
Chi scrive ebbe la fortuna di conoscere da vicino la casa di Elena, che
non fu mai un salotto bensì uno straordinario punto di incontro dove
passato e presente si proiettavano sulle speranze dell’avvenire e dove i
ricordi della «patria napoletana» sembravano rianimarsi e prendere
nuova vita. Nessuna difficoltà, dunque, a immaginare la forza di un’
amicizia che dopo tanti anni ancora ci commuove e ci anima, ridandoci
fiducia nella forza delle idee, nel libero scambio di pensieri e
speranze. Un’amicizia che in ogni momento, anche i più difficili, sapeva
di poter sopravvivere anzi di rimanere immortale.
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