Da quel groviglio, però, affiora un particolare: è un piede, magnifico. È La Belle Noiseuse. Scrive Michel Serres che, in questo rapporto con il furore e il rumore, «Balzac dipinge la visione dell’architettura divina all’inverso» E la «forma perfetta, ottimale, vivente, esistente, quasi divina è un piede».
In qualche modo, si potrebbe parlare dell’opera di Michel Serres, nato a Agen nel 1930, instancabile esploratore delle linee di faglia tra discipline – dalla matematica alla fisica, dall’antropologia alla chimica — partendo proprio da qui, da quel Capolavoro sconosciuto a cui ha dedicato uno dei suoi libri tradotti in italiano, Genesi (Il Melangolo, 1988).
Maestro dell’impronta
Bella e scontrosa – tale il significato corrente di noiseuse — è, infatti, la scrittura di Serres che, come il quadro di Frenhofer, non si lascia afferrare e mal tollera i punti di vista. Serres è uno cacciatore di tracce altrui (da Lucrezio a Leibnitz), ma anche uno straordinario produttore di tracce, abbandonate sempre nel campo aperto di una scrittura seducente. Servendoci di uno dei suoi termini chiave, potremmo dire che Serres è un vero maestro dell’ichnologia.
In greco, ichnos significa per l’appunto l’impronta del piede, la traccia. Balzac, scrive Serres, ha visto questa «ichnografia», ha colto «il pozzo dei fenomeni». Ne ha ascoltato la noise che — come rivela l’etimologia dell’antico francese, che scardina il vocabolario corrente per la Belle Noiseuse — vale tanto per il rumore, quanto per il furore. La storia ha poi divaricato i sentieri e se in francese si è conservato il senso fisico dello scontro e dell’indisposizione, l’inglese noise ha assunto il senso del rumore.
Dietro ai due maldestri osservatori, tra cui il giovane Poussin, che tentano invano di sezionarne il segreto piegandosi, mettendosi di lato, cambiando il proprio punto di vista ma finendo per non cogliere nulla, nel suo racconto Balzac colloca la bellezza, incarnata da una modella, anch’essa bella e scontrosa (belle noiseuse), che piange.
Abbiamo dimenticato – scriveva Serres – il singhiozzo di quel pianto, le lacrimae rerum, ovvero la noise originaria. Solo in alto mare, anche nell’alto mare della speculazione e della scrittura, là dove tutto è davvero pericolo (prima di tutto: di fallire, di non far sorgere l’ascolto, ossia pericolo che il rumore vero si tramuti in silenzio) possiamo ancora intendere questo «clamore originario». Eppure, suggerisce Serres, proprio molteplice del nomadismo intellettuale e della metamorfosi, dell’individualità che non si riduce a aggregati, si realizza talvolta il miracolo della production des choses. Cose che sono contemporanee alla propria nascita: nel quadro di Frenhofer questo miracolo, simboleggiato da un piede, è colto nel momento in cui sembra sul punto di nascere o fallire.
Anche Leibnitz, scrive Serres, era tanto profondo da non negare questo rumore del molteplice. Lo armonizzava, ma non lo negava. «Dobbiamo salvare questo termine, noise – conclude Serres – il solo positivo per dire uno stato che non designiamo se non con termini negativi, come il disordine». C’è di che averne paura, ma è precisamente in questo disordine costitutivo che si colloca il «lavoro da fare». Un lavoro che dovrebbe assumersi il rischio – e l’ambizione – di non annegare la semplicità nel semplicismo e la complessità, nello pseudospecialismo più sciocco.
Di questo lavoro, attraverso una meticolosa e preziosissima edizione, rendono ora conto Gaspare Polizzi e Mario Porro, già curatori e traduttori di molte opere dell’autore, che hanno curato l’ultimo numero di Riga (il numero 35), edito da Marcos y Marcos (pp. 432, euro 25), dedicato proprio a Michel Serres. Un lavoro articolato, complesso, ricchissimo di ibridazioni fra testi dello stesso Serres e saggi critici (da Girard a Bruno Latour) che privilegia, pur non tralasciando nulla, i sentieri meno praticati dall’editoria italiana – sedici su una sessantina i suoi libri tradotti -, in sei sezioni che ruotano attorno a concetti e grandi temi, affrontati d questo indomito traghettatore di «nuove alleanze».
Dal suo primo libro, pubblicato in due tomi nel 1968 e dedicato al sistema della matematica in Leibnitz, dalla riflessione sulla comunicazione inscritta sotto il nume tutelare di Hermes – riflessione decisiva e finora poco nota al lettore italiano – dalle riflessioni su Zola, Carpaccio, Verne, fino alle ultime ricognizioni etico-ontologiche sullo statuto cognitivo delle nuove tecnologie nel suo rapporto con l’emergenza dell’umano nella tarda modernità, l’itinerario di Serres mappato dall’antologia curata da Polizzi e Porro si rivela incredibilmente organico, strutturato, coerente. Un itinerario che non servirebbe «mettere in prospettiva» – come avrebbero voluto i maldestri osservatori della Belle Noiseuse – ma nei cui confronti serve mettersi in ascolto.
Il pathos dell’esistenza
La traccia di questa coerenza risalta proprio a dispetto di una scrittura «inventiva e affascinante» che potrebbe trarre in inganno. Eppure, come rimarcano nell’editoriale di «Riga», nell’opera di questo solitario che, per cinquant’anni, lambendo lo strutturalismo, sullo sfondo di amicizie nomadi con Canguilhem, Deleuze, Foucault, Girard, ha coltivato il progetto di saldare rigore scientifico e pietas, si intravede la possibilità di dissolvere il conflitto «tra quanti, abituati alle lettere e all’umano, si dimenticano del mondo e quanti, rivolti ai saperi che diciamo oggettivi ma chiusi nei laboratori, cancellano le emozioni e il pathos dell’esistenza». Gettare ponti, suggerisce Serres, è il compito del pensiero. Non oltre, ma dentro il rumore stesso – la noise – delle cose. Ben più di qualcosa, allora, come già spiegava Balzac, apparirà al lettore che sappia dirsi tale.
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