mercoledì 27 maggio 2015

"Riga" su Michel Serres



"Riga" numero 35: Michel Ser­res, a cura di Gaspare Polizzi e Mario Porro, Mar­cos y Mar­cos, pp. 432, euro 25

Risvolto
Nella sua lunga attività di filosofo, raccolta in circa sessanta libri, Michel Serres (Agen, 1930) ha attraversato numerose discipline, spesso lontane fra loro – dalle matematiche alla letteratura, dalla fisica all’estetica, dal diritto alla storia, dall’antropologia all’informatica, dalla sociologia alla chimica – per trarne una visione globale.

Un grande racconto transdisciplinare per affrontare la complessità contemporanea. Nel 1969 ha avviato un ambizioso progetto di filosofia della comunicazione sotto il segno augurale di Ermes. Queste ricerche fanno perno sulla considerazione dell’avvenuta svolta epocale che dal mondo della produzione e dell’industrialismo (Prometeo) ha condotto a quello della comunicazione e dei messaggi (Ermes), per disegnare l’orizzonte di una nuova cultura della comunicazione e dello scambio, che unisca le scienze, le arti, le leggi e le religioni, in una ‘nuova alleanza’, e stabilisca un nuovo patto naturale e morale tra uomini e natura. Nei suoi ultimi scritti (2001-12) Serres ha affrontato i nodi ontologici, cognitivi ed etici più rilevanti della condizione umana nella tarda modernità, nel segno della ricognizione di una nuova ‘emergenza’ dell’umano.
Le sezioni del volume, a cura di Gaspare Polizzi e Mario Porro, seguono il complesso itinerario serresiano, cronologico e tematico, rendendo conto della sua proposta filosofica. Un libro di filosofia e insieme un manuale per leggere il contemporaneo.

Nel volume, scritti mai tradotti in italiano di Michel Serres; interviste e conversazioni con Marco Belpoliti e Mario Porro, Roberto Berardi, Jean-Paul Enthoven, François Ewald, Jean-Claude Guillebaud, Bruno Latour, Martin Legros e Sven Ortoli, Pierre Léna, Hans-Ulrich Obrist, Gaspare Polizzi; interventi di Régis Debray, Alessandro Delcò, Christiane Frémont, Gianfranco Gabetta, René Girard, Pier Aldo Rovatti; saggi inediti di Pierpaolo Antonello, Francesco Bellusci, Andrea Sani, Domenico Scalzo, Viviana Verdesca. Un racconto inedito di Chiara Valerio; disegni di Paolo Mazzuferi e ritratti fotografici di Basso Cannarsa.
Un volume su un ‘maestro del pensiero’ – secondo la formula con cui gli è stato conferito sul finire del 2013 il premio Nonino – che in Italia non ha ancora ricevuto l’attenzione dovuta.

Jean-Claude Guillebaud Avvenire 30 maggio 2015


Riccardo Venturi - Alfabeta2.it

Fabio Gambaro - R2 Cultura - La Repubblica


Michel Serres, il cacciatore di tracce 
Filosofia. Un numero monografico della rivista Riga dedicato a Michel Serres. All’incrocio di saperi diversi per sfuggire al rischio di una scrittura e di un pensiero autocompiaciuti

Marco Dotti il Manifesto 27.5.2015
«Dov’è l’arte?». La domanda risuona con pre­oc­cu­pata insi­stenza nelle ultime pagine del Chef-d’œuvre inconnu di Honoré de Bal­zac, pub­bli­cato per la prima volta in rivi­sta nel 1831. L’arte non c’è, forse non c’è mai stata e se c’era è ora­mai scom­parsa, sof­fo­cata da una massa di colore informe. Resta la tela, restano il caval­letto, i colori e la cor­nice. Resta il rumore, sfondo a quelle uni­che tracce di forme che pro­ba­bil­mente non appar­ten­gono nem­meno più all’orizzonte della pit­tura o dell’uomo. O meglio: non gli appar­ten­gono nella misura in cui sono i suoi stessi signi­fi­canti a incar­narsi e, al tempo stesso, a sot­trarsi, sra­di­can­dosi, da un campo di signi­fi­cati che non con­cede alcuna garan­zia ai buoni pro­po­siti dell’intenzione.

Che cosa resta, allora? Restano le tracce, ma come tutte le tracce sono desti­nate a sva­nire. Resta un pas­sag­gio e un rumore di fondo. Ma pro­prio in que­sto rumore (noise), forse, risiede il fascino e il pro­blema messo in luce da Bal­zac.
Édouard Fre­n­ho­fer, il pro­ta­go­ni­sta del rac­conto di Bal­zac, sem­bra un folle inva­sato di tec­nica alla ricerca del capo­la­voro asso­luto. È pro­prio così? Così appare la scena, nel momento in cui il «capo­la­voro» si svela, agli occhi dei due allievi a cui Fre­n­ho­fer ha accon­sen­tito di mostrare il suo lavoro. Che cosa appare? Quale trac­cia? Al loro sguardo appare solo una massa informe di colore, ovvero l’abbozzo di un’opera. È quest’opera abor­tita, sfre­giata più che man­cata, il «capolavoro»? 
Da quel gro­vi­glio, però, affiora un par­ti­co­lare: è un piede, magni­fico. È La Belle Noi­seuse. Scrive Michel Ser­res che, in que­sto rap­porto con il furore e il rumore, «Bal­zac dipinge la visione dell’architettura divina all’inverso» E la «forma per­fetta, otti­male, vivente, esi­stente, quasi divina è un piede».
In qual­che modo, si potrebbe par­lare dell’opera di Michel Ser­res, nato a Agen nel 1930, instan­ca­bile esplo­ra­tore delle linee di faglia tra disci­pline – dalla mate­ma­tica alla fisica, dall’antropologia alla chi­mica — par­tendo pro­prio da qui, da quel Capo­la­voro sco­no­sciuto a cui ha dedi­cato uno dei suoi libri tra­dotti in ita­liano, Genesi (Il Melan­golo, 1988). 

Mae­stro dell’impronta 
Bella e scon­trosa – tale il signi­fi­cato cor­rente di noi­seuse — è, infatti, la scrit­tura di Ser­res che, come il qua­dro di Fre­n­ho­fer, non si lascia affer­rare e mal tol­lera i punti di vista. Ser­res è uno cac­cia­tore di tracce altrui (da Lucre­zio a Leib­nitz), ma anche uno straor­di­na­rio pro­dut­tore di tracce, abban­do­nate sem­pre nel campo aperto di una scrit­tura sedu­cente. Ser­ven­doci di uno dei suoi ter­mini chiave, potremmo dire che Ser­res è un vero mae­stro dell’ichnologia.
In greco, ich­nos signi­fica per l’appunto l’impronta del piede, la trac­cia. Bal­zac, scrive Ser­res, ha visto que­sta «ich­no­gra­fia», ha colto «il pozzo dei feno­meni». Ne ha ascol­tato la noise che — come rivela l’etimologia dell’antico fran­cese, che scar­dina il voca­bo­la­rio cor­rente per la Belle Noi­seuse — vale tanto per il rumore, quanto per il furore. La sto­ria ha poi diva­ri­cato i sen­tieri e se in fran­cese si è con­ser­vato il senso fisico dello scon­tro e dell’indisposizione, l’inglese noise ha assunto il senso del rumore. 
Die­tro ai due mal­de­stri osser­va­tori, tra cui il gio­vane Pous­sin, che ten­tano invano di sezio­narne il segreto pie­gan­dosi, met­ten­dosi di lato, cam­biando il pro­prio punto di vista ma finendo per non cogliere nulla, nel suo rac­conto Bal­zac col­loca la bel­lezza, incar­nata da una modella, anch’essa bella e scon­trosa (belle noi­seuse), che piange.
Abbiamo dimen­ti­cato – scri­veva Ser­res – il sin­ghiozzo di quel pianto, le lacri­mae rerum, ovvero la noise ori­gi­na­ria. Solo in alto mare, anche nell’alto mare della spe­cu­la­zione e della scrit­tura, là dove tutto è dav­vero peri­colo (prima di tutto: di fal­lire, di non far sor­gere l’ascolto, ossia peri­colo che il rumore vero si tra­muti in silen­zio) pos­siamo ancora inten­dere que­sto «cla­more ori­gi­na­rio». Eppure, sug­ge­ri­sce Ser­res, pro­prio mol­te­plice del noma­di­smo intel­let­tuale e della meta­mor­fosi, dell’individualità che non si riduce a aggre­gati, si rea­lizza tal­volta il mira­colo della pro­duc­tion des cho­ses. Cose che sono con­tem­po­ra­nee alla pro­pria nascita: nel qua­dro di Fre­n­ho­fer que­sto mira­colo, sim­bo­leg­giato da un piede, è colto nel momento in cui sem­bra sul punto di nascere o fal­lire.
Anche Leib­nitz, scrive Ser­res, era tanto pro­fondo da non negare que­sto rumore del mol­te­plice. Lo armo­niz­zava, ma non lo negava. «Dob­biamo sal­vare que­sto ter­mine, noise – con­clude Ser­res – il solo posi­tivo per dire uno stato che non desi­gniamo se non con ter­mini nega­tivi, come il disor­dine». C’è di che averne paura, ma è pre­ci­sa­mente in que­sto disor­dine costi­tu­tivo che si col­loca il «lavoro da fare». Un lavoro che dovrebbe assu­mersi il rischio – e l’ambizione – di non anne­gare la sem­pli­cità nel sem­pli­ci­smo e la com­ples­sità, nello pseu­do­spe­cia­li­smo più sciocco. 
Di que­sto lavoro, attra­verso una meti­co­losa e pre­zio­sis­sima edi­zione, ren­dono ora conto Gaspare Polizzi e Mario Porro, già cura­tori e tra­dut­tori di molte opere dell’autore, che hanno curato l’ultimo numero di Riga (il numero 35), edito da Mar­cos y Mar­cos (pp. 432, euro 25), dedi­cato pro­prio a Michel Ser­res. Un lavoro arti­co­lato, com­plesso, ric­chis­simo di ibri­da­zioni fra testi dello stesso Ser­res e saggi cri­tici (da Girard a Bruno Latour) che pri­vi­le­gia, pur non tra­la­sciando nulla, i sen­tieri meno pra­ti­cati dall’editoria ita­liana – sedici su una ses­san­tina i suoi libri tra­dotti -, in sei sezioni che ruo­tano attorno a con­cetti e grandi temi, affron­tati d que­sto indo­mito tra­ghet­ta­tore di «nuove alleanze». 
Dal suo primo libro, pub­bli­cato in due tomi nel 1968 e dedi­cato al sistema della mate­ma­tica in Leib­nitz, dalla rifles­sione sulla comu­ni­ca­zione inscritta sotto il nume tute­lare di Her­mes – rifles­sione deci­siva e finora poco nota al let­tore ita­liano – dalle rifles­sioni su Zola, Car­pac­cio, Verne, fino alle ultime rico­gni­zioni etico-ontologiche sullo sta­tuto cogni­tivo delle nuove tec­no­lo­gie nel suo rap­porto con l’emergenza dell’umano nella tarda moder­nità, l’itinerario di Ser­res map­pato dall’antologia curata da Polizzi e Porro si rivela incre­di­bil­mente orga­nico, strut­tu­rato, coe­rente. Un iti­ne­ra­rio che non ser­vi­rebbe «met­tere in pro­spet­tiva» – come avreb­bero voluto i mal­de­stri osser­va­tori della Belle Noi­seuse – ma nei cui con­fronti serve met­tersi in ascolto. 

Il pathos dell’esistenza 
La trac­cia di que­sta coe­renza risalta pro­prio a dispetto di una scrit­tura «inven­tiva e affa­sci­nante» che potrebbe trarre in inganno. Eppure, come rimar­cano nell’editoriale di «Riga», nell’opera di que­sto soli­ta­rio che, per cinquant’anni, lam­bendo lo strut­tu­ra­li­smo, sullo sfondo di ami­ci­zie nomadi con Can­gui­lhem, Deleuze, Fou­cault, Girard, ha col­ti­vato il pro­getto di sal­dare rigore scien­ti­fico e pie­tas, si intra­vede la pos­si­bi­lità di dis­sol­vere il con­flitto «tra quanti, abi­tuati alle let­tere e all’umano, si dimen­ti­cano del mondo e quanti, rivolti ai saperi che diciamo ogget­tivi ma chiusi nei labo­ra­tori, can­cel­lano le emo­zioni e il pathos dell’esistenza». Get­tare ponti, sug­ge­ri­sce Ser­res, è il com­pito del pen­siero. Non oltre, ma den­tro il rumore stesso – la noise – delle cose. Ben più di qual­cosa, allora, come già spie­gava Bal­zac, appa­rirà al let­tore che sap­pia dirsi tale.

Nessun commento: