Giorgio Agamben:
Gusto, Quodlibet, pp. 58, euro 10
Risvolto
Un luogo comune vuole che il gusto sia l’organo con cui conosciamo la
bellezza e godiamo delle cose belle. Dietro questa pacifica facciata, il
saggio di Agamben mette invece a nudo la dimensione tutt’altro che
rassicurante di una frattura che divide immedicabilmente il soggetto.
All’incrocio di verità e bellezza, di conoscenza e piacere, il gusto
appare come il sapere che non si sa e il piacere che non si gode. E, in
questa nuova prospettiva, estetica ed economia, homo aestheticus e homo oeconomicus, rivelano una segreta e inquietante complicità.
Giorgio Agamben: L'avventura, Nottetempo
Risvolto
Ogni uomo si trova preso nell’avventura,
ogni uomo ha, per questo, a che fare con Demone, Eros, Necessità e
Speranza. Essi sono i volti – o le maschere – che l’avventura ogni volta
gli presenta.
Giuseppe Carrara «Cultweek» 18-05-2015
Armando Torno «Il Sole 24 Ore.com» 19-05-2015
Il sapore è dandy
Saggi. La riproposta di «Gusto» di Giorgio Agamben (per Quodlibet), già voce dell'Enciclopedia Treccani, mentre con Nottetempo esce «L'avventura»
Marco Pacioni il Manifesto 16.6.2015, 0:09
Il gusto è una facoltà difficile da esibire. Forse è per questo che, nell’ossessione per il cibo che sembra dominare l’odierna vita sociale, è sostituito da tag e chef che ne certificano lo status e dalle immagini dei piatti che vengono «raccontati» prima di mangiare. Ma anche in epoche nelle quali il gusto forse valeva di più non è stato facile sapere che cosa precisamente fosse.
Dalla sua storia recente, quella che lo lega alla nascita dell’estetica nel XVIII secolo, sappiamo che il gusto è qualcosa che si forma attraverso l’esperienza, la disciplina (comprensiva anche dell’indisciplina) e lo studio innestati a qualità innate. È qualcosa che mescola la contingenza – anche la più bassa e meccanica – con l’astrazione. Il gusto è un ibrido che nelle figure che lo incarnano all’estremo, come il dandy, ha la pretesa di essere una pratica che conta anche come teoria. È qualcosa di eccezionale, un’«eccellenza» che vale però come norma suprema, come sapore che si fa direttamente sapere. Il legame tra sapere e sapore è già nella preistoria del gusto.
A quella preistoria torna Giorgio Agamben in Gusto (Quodlibet, pp. 58, euro 10), testo che ripropone l’omonima voce del 1979 per l’Enciclopedia Einaudi. Dalla ricognizione che fa Agamben si viene presto a conoscenza del fatto che capire cosa sia il gusto vuol dire venire a domande più generali che hanno a che fare con l’eros, il desiderio, l’epistemologia. Nel corso della storia, le risposte a queste domande sono state sempre paradossali. Agamben le riassume nelle problematiche formule del gusto come di un sapere senza piacere e di un piacere senza sapere; di una conoscenza eccedente e di un’eccedenza inconoscibile – quest’ultima definita con la proverbiale espressione del non-so-che. Il non-so-che del gusto per Agamben mostra una serie di cesure come quella tra soggetto e oggetto, divinazione e scienza, significato e significante, le quali cesure la filosofia dovrebbe ricomporre.
La sorpresa è che, secondo Agamben, il progetto di ricomposizione di esse è quello che già Platone inaugura impugnando la faglia che separa l’amore dal sapere e cioè la filo-sofia. «Un amore di sapere e un sapere d’amore in cui verità e bellezza comunicano, la scienza gode e il piacere sa». Da questo, aggiunge Agamben, risulta un’importante conseguenza riguardo il gusto e non solo, che cioè «Eros è necessariamente iscritto nel destino della filosofia occidentale». In altre parole, il gusto, per Agamben, ci fa capire come la filosofia, sin dal suo programma platonico, si costituisce come quête che solo colmando la distanza fra sofìa e eros può giungere all’unità di sé.
Propria la quête ci introduce a un altro recentissimo testo di Agamben, L’avventura (Nottetempo, pp. 77, euro 7,50). Termine chiave della cultura occidentale come ci mostrano le storie di cavalleria e, più in generale, la forma di molte favole e racconti medievali dei quali infatti Agamben si serve nella sua ricognizione genealogica. Avventura è una dimensione molto più ambivalente – avverte Agamben – rispetto alla riduzione di significato che, in epoca moderna, tale concetto ha subìto. È l’incontro tra la necessità e il caso, tra l’itinerario e le sue diversioni. È il luogo in cui la vita vissuta e la vita narrata si rendono reciprocamente possibili.
Gettando ponti tra distinti versanti, l’avventura costituisce per Agamben la dimensione per discutere cosa sia filosoficamente ciò che Heidegger a partire dagli anni ’30 definisce Ereignis cioè evento. L’evento non è tanto ciò che accade – sostiene Deleuze –, ma ciò che accadendo apre all’avvenire, ad un divenire che non è soltanto mera trasformazione insensata, ma storia che ha la possibilità di un senso, storia che si apre al senso dell’essere per dirla in termini heideggeriani. Eroe di tale avventura non è soltanto il cavaliere delle canzoni di gesta, ma l’uomo in genere spinto dal demone di eros, dal desiderio, dalla speranza. L’essere umano gettato nella possibilità del futuro che solo grazie a questa può anche agire e narrare il suo presente. L’avventura, spiega Agamben, è in tal senso antropogenetica. Essa è cioè quel processo in cui la vita autorizza la forma nella quale essa stessa si veste e sveste a proprio rischio – la cerimonia di vestizione è, non a caso, fondamentale per il cavaliere di ventura – fino a comprendere che l’abito forse non è, ma diventa inseparabile da chi lo porta a seguito di un evento.
Tre saggi di estetica
Teoria. Pietro Montani, Giorgio Agamben e Byung-Chul Han in tre recenti saggi filosofici affrontano temi di attualità anche per gli utenti della rete
Paolo B. Vernaglione Alias Manifesto 9.1.2016, 1:40
Tre libri usciti tra la fine del 2014 e gli inizi di quest’anno affrontano il tema dell’estetica, tema all’ordine del giorno non più solo per filosofi e critici d’arte, ma anche per i miliardi di utenti della rete e delle sue applicazioni.
Dei tre testi, Tecnologie della sensibilità di Pietro Montani, Nello sciame del giovane filosofo coreano Byung-Chul Han e Gusto di Gorgio Agamben, la voce redatta da Agamben nel 1979 per l’Encicopledia Einaudi costituisce la possibilità di riflessione che Montani e Han assumono da opposte posizioni.
Agamben infatti in un limpida e densa ricostruzione teorica del concetto di estetica coglie archeologicamente la soglia di indistinzione di verità e bellezza nel pensiero occidentale in una dimensione radicalmente altra rispetto a quella che la nostra modernità ci consegna con i dispositivi digitali.
Nel contrasto implicito alla produzione e al controllo mediatico della comunicazione – fosse pure quella artistica – il saggio di Agamben è la chiave di volta per capire come e a partire da quali forme storiche della riflessione sul bello e i suoi oggetti sia possibile l’attuale tecnoestetica.
È Pietro Montani, filosofo, teorico del cinema, studioso del cinema rivoluzionario sovietico di Ejzenstejn e Dziga Vertov, nonchè della sperimentazione audiovisuale delle avanguardie novecentesche, a delineare con nettezza la doppia linea di sviluppo dell’estetica occidentale, che ha opposto l’arte in senso estetico all’arte come techne. Le due linee di pensiero, che si fanno risalire alla distinzione aristotelica di poiesis e praxis, hanno in comune l’aisthesis, l’orizzonte della sensibilità, che va intesa come l’appartenenza del corpo alle percezioni in cui risiede la facoltà di conoscere. Infatti è nel grande pensiero critico di Kant che sensibilità e intelletto trovano relazione – mentre da Platone a Hume, la filosofia si era incaricata di distinguere più o meno accuratamente bellezza e verità, sensibilità e intelletto, screditando le prima a favore dei secondi. Ed è nella Critica del Giudizio che Kant colloca l’immaginazione al centro di quei processi reali ma ignoti di composizione del molteplice dell’intuizione sensibile nella sintesi dell’intelletto. L’aisthesis dunque è quella dimensione comune delle facoltà ricettiva e produttiva, sede del giudizio riflettente, in cui si conosce il mondo producendolo (e riproducendolo) a partire dalle sensazioni e in assenza di oggetti d’esperienza.
È fantastica la deduzione trascendentale del giudizio sul bello di Kant e vale la pena leggere e rileggere la Critica del Giudizio, perchè vi si incontra quella zona di indeterminazione di percezione e ragione in cui è disposta l’intera psicofisica umana. Ogni conoscenza non può che essere un sapere estetico e ogni estetica è riflessione su quegli oggetti particolari sottratti all’uso quotidiano che sono le opere d’arte. Ma, come Montani dimostra, la condizione di possibilità del sapere estetico non riposa affatto sull’omogeneità di natura di sensibilità e intelletto, a cui i giudizi della ragione mirerebbero in un «libero gioco», bensì sulla radicale eterogeneità di percezione e linguaggio: cioè tra ciò che è visibile-sensibile e non argomentabile, e ciò che è sempre dicibile ma non sempre rappresentabile.
Da qui l’aporìa della condizione umana, segnata dalla volontà di sapere alla quale però resistono i cosiddetti «ambienti associati». Il mondo resiste. Gilbert Simondon nella riflessione sulla tecnoestetica lo pensava come intreccio di natura e artefatto, materia organica «già da sempre» disponibile e manipolazione «contingente» della natura. Sarà il filosofo John Dewey in Arte come esperienza a porre, sulla scia del pragmaticismo di Peirce, il rapporto tra aisthesis e tecnologie in termini che rimarranno decisivi. Lo farà introducendo la categoria del lavoro: l’esperienza estetica è il «lavoro» della facoltà umana per trasformare l’ambiente. L’effetto di questo «lavoro» è l’intensificazione della vita, l’aumento esponenziale della densità percettiva che retroagisce sul soggetto «senziente».
Nella ricostruzione di Montani questo secondo momento della produzione tecnoestetica è destinata a sopravanzare l’idea estetica dell’arte che, dalle Lettere sulla concezione estetica di Schiller in giù, assume l’autonomia degli oggetti belli a partire dall’autonomia della ragione del soggetto.
Al «libero gioco delle facoltà», che con Baumgarten designa una nuova soggettività, si sostituìsce nel divenire della modernità capitalista la riproduzione senza aura dell’oggetto estetico nell’enorme raccolta di merci (e di merci-spettacolo) che Marx osservava alla metà del XIX secolo.
Sarà Walter Benjamin nei due saggi capitali L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e Edward Fuchs, il collezionista e lo storico, a proporre all’immaginazione del materialista l’estetizzazione della politica, e all’arte di fare segno verso la riproducibilità tecnica della sua produzione. L’estetica sarà dunque studio dei «valori di esposizione», che hanno ormai sostituìto l’auratica unicità dell’oggetto artistico. In questo modo Benjamin recupera il primigenio significato dell’aisthesis che disdice ogni illusione storicista di progresso e linearità della conoscenza. A cosa potrebbe servire infatti il dominio dell’estetica se non a costruire un nuovo spazio pubblico, sottratto ai dispositivi gerarchici di ordinamento e regolazione del gusto e della prassi? Ma proprio a questo punto nella sequenziale ricostruzione dei processi di produzione del bello incontriamo l’attuale configurazione delle tecnoestetiche digitali.
A partire dalla metà degli scorsi anni Ottanta abbiamo da una parte l’estesa sperimentazione artistica nelle svariate contaminazioni multimediali; dall’altra l’immenso dispositivo tecnodigitale, di cui i Google Glass e le cosiddette Wereable Technology, (tecnologie indossabili) sono la matura discendenza. Cosa accade in questo punto della modernità, ben oltre il cortocircuito tra estetizzazione e politicizzazione? Montani porta l’esempio dei Google Glass per ipotizzare un uso dei dispositivi che «aumentano» la realtà, processandola e reinventandola, nella costituzione di un nuovo spazio pubblico sottratto al consumo di sensibilità e facoltà percettive. L’argomentazione di Montani è più complessa di così, ma incontra in questa osservazione la critica a tutto campo del digitale condotta da Byung-Chul Han.
Niente dell’era digitale è risparmiato: shitstorm (tempeste di merda che si abbattono su enti e persone dai social media), l’indignazione che ha sostituito il discorso critico, lo sciame che non è una folla ma è composto di singoli individui, l’assenza di mediazione e la povertà di sguardo della comunicazione digitale, l’addomesticamento delle immagini (Google glass e realtà aumentata), l’agire arendtiano sostituìto dal gioco delle dita, un’estesa de-soggettivazione nell’ordine della costrizione.
«La Fenomenologia dello Spirito di Hegel descrive una via dolorosa: la fenomenologia del digitale invece è libera dal dolore dialettico dello spirito. È una fenomenologia del mi piace», scrive Han, che vede nell’«affaticamento informativo», nella crisi della rappresentazione, nel consumerismo e nella psicopolitica, il passaggio epocale dall’età della biopolitica a quella della psicopolitca, intesa come controllo e manipolazione di data mining. Ora, mentre l’istanza filosofica posta da Han è giusta perchè indica in negativo la via della sottrazione ai dispositivi di cattura dell’immaginario, la critica per essere davvero radicale, dovrebbe esercitarsi non tanto sul digitale in sé, che può o meno produrre effetti estetici di liberazione, quanto sulla realtà del sensibile, come Agamben ha fatto in una genealogia dell’aisthesis. Si tratta cioè di indagare il modo in cui nella storia, il pensiero ha separato verità e bellezza e i modi della reciproca articolazione. La riedizione del testo del 1979 apre così la via ad una riflessione originale su quel mutamento «antropologico» che coinvolge l’arte, ma soprattutto il soggetto dell’arte in ragione delle possibilità di un’estetica dell’esistenza.
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