giovedì 11 giugno 2015
Francis Fukuyama: una ricetta cilena "meritocratica" per la provincia dell'Impero Neoliberale
Fukuyama. Il caso greco e l’Italia
«Sfruttate la crisi per cambiare Più merito e meno clientele»di Federico Fubini Corriere 11.6.15
«Sprecare una crisi è terribile» si diceva nella Casa Bianca di Barack
Obama dopo il crash di Lehman Brothers, e Francis Fukuyama trova che due
Paesi oggi dovrebbero ricordarsene: la Grecia e l’Italia. La recessione
di questi anni ha lasciato ferite profonde in entrambe, dice il
politologo di Stanford, ma ora crea anche un’occasione irripetibile per
voltare pagina. È per questo che in «Political Order and Political
Decay», il saggio sulle strutture politiche e il loro «declino»,
Fukuyama dedica centinaia di pagine alle due economie del Mediterraneo
che in questi anni, in modi diversi, si sono trovate all’epicentro del
terremoto dell’euro.
Lei sostiene che i sistemi politici di tipo clientelare diffusi in
Grecia e in Italia sono alla radice delle difficoltà dell’euro. Per
quale motivo?
«Una causa di fondo degli eventi di questi anni è stata l’incapacità dei
governi di Grecia e Italia di tenere sotto controllo i conti. E una
delle ragioni per cui non ci sono riusciti, è che in entrambi i Paesi il
settore pubblico è stato usato a scopi clientelari. All’inizio della
crisi la Grecia aveva un numero di statali, per abitante, pari a circa
sette volte quello della Gran Bretagna. I due grandi partiti greci, Néa
Demokratia e Pasok, si erano ruotati al potere per 40 anni e ogni volta,
alternandosi, avevano riempito il settore pubblico dei propri
sostenitori. È un’abitudine che continua fino ad oggi, con Syriza».
Secondo lei anche in Italia è andata così?
«In Italia una variante dello stesso genere è proseguita per molto
tempo. L’esempio più notorio è la Democrazia cristiana nel Mezzogiorno,
ma in un certo senso questo modello ha finito per riflettersi nella
politica di tutto il Paese. È un modo di gestire il sostegno elettorale.
Fino a quando questo sistema non sarà sostituito da un altro sistema,
nel quale i burocrati vengono selezionati in base al merito e alla loro
competenza, il problema della spesa pubblica non sarà mai messo sotto
controllo».
Trova che oggi questa questione sia capita meglio di prima e sia stata risolta?
«Be’, veramente no. Credo che in Grecia parte della riluttanza di Syriza
a chiudere un accordo con i creditori sia dovuta al fatto che il
partito non vuole rinunciare alla propria capacità di proporre i suoi
sostenitori nei posti di potere. L’Italia invece ha fatto più progressi.
Da voi è sempre stato un problema regionale, radicato nel Sud, ma ciò
che serve adesso è una riforma totale del settore pubblico. Nel Paese va
inculcato il principio di una burocrazia impersonale, una burocrazia
che funziona nell’interesse pubblico e non sulla base di favoritismi e
corruzione. E certo si sono visti dei progressi. Il tipo di corruzione
degli ultimi vent’anni è stato diverso dal classico clientelismo dei
vecchi democristiani».
Lei scrive che anche la Gran Bretagna e gli Stati Uniti erano sistemi
clientelari, in origine, ma la crescita economica ha generato nuovi ceti
imprenditoriali che hanno imposto il cambiamento. Ma è possibile
cambiare l’Europa del Sud, nella stagnazione economica e demografica?
«È una tragedia che l’Italia abbia perso una grande occasione negli Anni
90, quando la caduta del comunismo aprì una finestra per trasformare
l’intero approccio al modo di fare governo. Credo che due fattori
l’abbiano impedito. Uno è la personalità di Berlusconi e il fatto che
sia riuscito a consolidare una base elettorale. Ma l’altro è la Lega
Nord, perché Umberto Bossi controllava lo stesso tipo di ceto medio che
in Gran Bretagna o altrove è stato alla base delle coalizioni
riformiste. Purtroppo anche la Lega è stata soggetta alla corruzione. Si
è spostata su temi come l’immigrazione, non ha mai messo la riforma
dello Stato al centro del proprio programma e così la grande occasione
degli Anni 90 è andata sprecata».
Se ne ripresenteranno altre per l’Italia?
«L’altra chiara opportunità di riforma è arrivata con la crisi
dell’euro. Una serie di presidenti del Consiglio, fino a quello attuale,
hanno cercato di sfruttarla. Malgrado sia stata una crisi molto dura
per l’impatto che ha avuto sull’economia, purtroppo si inizia a vedere
che potrebbe non essere stata abbastanza dura da produrre un riformismo
completo. Forze come il Movimento 5 Stelle sono così antipolitiche che,
in un certo senso, la gente che vota per loro sta sprecando il voto,
perché i Cinque Stelle non hanno un chiaro programma di riforma dello
Stato da portare avanti».
Lei non sembra granché convinto che il premier Matteo Renzi sia abbastanza forte o deciso per indurre il cambiamento.
«Gli faccio i miei auguri. Si sta assumendo un certo rischio,
promuovendo riforme che avranno bisogno di molto tempo per dare frutti
invece di misure popolari nell’immediato. Dovremo vedere gli sviluppi,
credo».
Lei sottolinea i limiti dei 5 Stelle, ma come spiega l’ascesa di movimenti antisistema ovunque in Europa?
«In realtà nel Nord e nel Sud dell’Europa sono diversi. A Nord tendono a
essere più anti immigrazione e anti Unione europea, mentre Syriza in
Grecia e Podemos in Spagna sono piuttosto movimenti tradizionali di
sinistra. Ma rappresentano tutti una reazione allo stesso fallimento
delle élite dominanti d’Europa, che prima hanno permesso che la crisi
esplodesse e poi hanno risposto in modo inefficace. Per molti aspetti,
la zona euro non è stata messa a posto. Il problema sottostante non è
corretto».
Qual è il problema sottostante?
«L’Europa deve andare avanti, oppure indietro. La soluzione
istituzionale ideale sarebbe una politica di bilancio unica, che preveda
trasferimenti di risorse più ampi alle economie deboli. Ma se questo
non è possibile, allora probabilmente dovreste riflettere all’idea di
lasciare che Paesi come la Grecia escano dall’euro e permettere la
flessibilità valutaria. L’attuale combinazione di una moneta unica,
insieme a una politica di bilancio non unificata, crea i presupposti di
problemi continui».
Dunque, al netto della Grecia, lei trova che la situazione dell’euro non sia stabilizzata?
«No. Non ancora».
Abbiamo visto molti tentativi tecnici: la troika arriva a Atene o a
Lisbona e impone misure specifiche. Teme che nessuno affronti il
problema politico?
«Esatto. Finché in Grecia non viene capita sul piano politico la natura
del settore pubblico e finché i partiti non rinunciano all’abitudine di
usarlo a scopi clientelari, il problema non si risolverà mai».
Vale anche per l’Italia?
«Certo. Ha molto a che fare con il modo in cui si crea il consenso. Il
problema di fondo è come consolidi una coalizione nella società a favore
delle riforme, una coalizione che esiga un settore pubblico basato sul
merito e sulla competenza, non sulla politicizzazione delle nomine. È
una battaglia politica che deve aver luogo in ogni Paese. Perché
succeda, servono dinamismo economico, ceti medi emergenti, innovatori
nella società. La crescita economica crea le basi sociali del
cambiamento. Ma purtroppo non è probabile che una vera crescita
economica arrivi tanto presto in Europa del Sud».
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