mercoledì 10 giugno 2015

Il prof. Salvadori scopre il leninismo e il centralismo democratico. Scalzoni e mascalzoni


Risultati immagini per massimo salvadoriIl tarlo che usura il partito democratico
di Massimo L. Salvadori Repubblica 10.6.15

CORRE insistente la voce che, se in un partito la maggioranza contesta o anche soltanto biasima la pretesa della minoranza o di più minoranze di avere il diritto non già di criticare la linea della prima e di proporre linee diverse, persino opposte, ma di votare in sede legislativa contro il governo espresso dal partito stesso, ciò equivale a imporre, in violazione della democrazia interna, il principio del famigerato “centralismo” detto democratico ma in realtà autocratico: il centralismo imposto da Lenin al partito sovietico nel 1921. È questa una concezione dei diritti della minoranza secondo cui, per essere propriamente democratico, un partito ha da essere aperto sino a consentire che, al di là della comune appartenenza ridotta ad una sovrastruttura formale, agiscano al proprio interno in via di fatto uno o più diversi partiti liberi di perseguire strategie e obiettivi alternativi. Chiunque usi il solo buon senso non fatica a comprendere che, quando e dove ciò accade, l’unità di un partito tende a dissolversi poiché l’uno diventa molti; e che il pluralismo partitico in quanto sistema della società politica nel suo complesso viene trasferito all’interno di un partito introducendovi elementi di potenziale dissolvimento.
Perché un partito possa funzionare occorre la contemporanea presenza di due fattori in grado di cementare la comune appartenenza: l’uno è la disposizione a mantenere attivo un vincolo solidale nutrito da finalità di fondo condivise sui problemi di governo della società; l’altro è il libero confronto sui mezzi per meglio conseguire un tale governo, accompagnato dall’accettazione da parte della minoranza o delle minoranze che i deliberati della maggioranza impegnino l’insieme. Se le parti minoritarie si sottraggono a un tale impegno — il che è ovviamente un loro sacrosanto diritto —, cede il patto fondativo di qualsiasi partito. Tanto nei parlamenti quanto nei partiti il principio di maggioranza ha la sua ragione nella necessità di mettere al riparo dal pericolo che il pluralismo politico degeneri in debolezza o addirittura paralisi decisionale. È questo un tarlo che da tempo usura il Partito democratico.
Ritenere che la richiesta della maggioranza interna al Pd alle minoranze di non spingere in sede parlamentare il proprio dissenso al punto di votare contro le scelte della prima implichi niente di meno che il ritorno al “centralismo democratico” è, prima ancora che una assurda esasperazione polemica, una distorsione della storia. I punti che costituivano l’essenza di quel centralismo erano, nel contesto di un sistema totalitario che andava consolidandosi, l’attribuzione alla leadership del monopolio di proposta e di decisione, il divieto di formare minoranze entro il partito e la proibizione a queste di agire pubblicamente per acquistare consenso: l’imposizione, insomma, di una incontrastabile pratica oligarchica che è tutt’altra cosa dal rispetto della regola del prevalere della maggioranza.
Il Pd si trova in affanno su diversi versanti: per il protrarsi di una conflittualità interna che non conosce tregua; per l’indeterminatezza della sua identità politico-culturale; per il tipo di organizzazione che intende darsi; per l’abbraccio del malaffare nella gestione della cosa pubblica. Se la conflittualità interna non dovesse comporsi, è difficile non pensare che non sfoci in una o più scissioni, invocate a gran voce da Vendola e al margine già avvenute. Quanto alla sua identità, che il Pd affronti la questione appare non rinviabile a fronte di componenti che si definiscono reciprocamente false sinistre. I Fassina e i Cuperlo denunciano i renziani per essere una sinistra verbale che camuffa una passione moderata, centrista, contrapponendosi agli interessi dei lavoratori, del popolo della scuola, ai sindacati; i renziani definiscono i loro oppositori una sinistra vetero-ideologica, meramente protestataria e retorica. Che poi l’attuale struttura di partito attuale faccia acqua, è evidente. La formula innovativa delle primarie si presenta ormai stanca. Irrisolti e densi di ambiguità sono il ruolo degli iscritti e dei non iscritti e il loro rapporto; e il reclutamento avviene con la pesante palla al piede costituita dalla mancanza di uno sforzo adeguato per fornire a iscritti, simpatizzanti ed elettori quel riferimento che può essere dato unicamente dalla elaborazione di una cultura politica i cui tratti appaiono oggi indistinti e affidati a sortite estemporanee. Gridare: sinistra così, sinistra cosà non funziona e danneggia. Se la sinistra vuole avere un volto riconoscibile, deve dimostrare di essere capace di darselo. Infine, come tutti i soggetti investiti di molto potere a partire dal governo del Paese, il Pd è terreno ambito di penetrazione da parte dei centri della corruzione. È negare la verità (lo fanno con sfacciataggine partiti ben più inquinati) sostenere che il Pd non abbia messo e metta in atto decise azioni di contrasto; ma l’onda della polemica lo sta ora investendo con violenza ed esso è tenuto a mostrare di avere la più ferma energia nell’amputare quello che va amputato. 

«In Aula avremo altri numeri» Il premier prepara il «rimpastino»
di Maria Teresa Meli Corriere 10.6.15
ROMA All’apparenza la situazione non è delle migliori per Matteo Renzi. Al Senato, in Commissione, il governo è andato sotto sul parere di costituzionalità della riforma della scuola. A Roma, intanto, continua a infuriare la bufera di «Mafia Capitale».
Ma a Palazzo Chigi il premier ostenta una certa tranquillità: «Era scontato che in quella Commissione andasse a finire 10 a 10, ma non c’è problema, la legge può andare in Aula ugualmente. E lì i numeri saranno ben diversi». Con i suoi, il premier è esplicito: «Voglio vedere chi si assume la responsabilità di rinviare troppo quella legge e di lasciare centomila persone senza lavoro a settembre». Come a dire: la minoranza o i sindacati preferiranno creare disoccupazione pur di fare un dispetto a me?
Insomma, il premier è disponibile al dialogo, «ma non al mercanteggiamento con la minoranza», spiega ai collaboratori, «perché questa riforma va fatta nell’interesse degli studenti, della scuola, del Paese, non può essere merce di scambio per qualcos’altro».
Anche la tempesta romana non scuote la fiducia di Renzi. Benché più d’uno tra i suoi sia convinto che tutto nasca solo per colpire il Pd e, di conseguenza, Renzi. Spiega un autorevole ministro del Partito democratico: «C’è un esercito di gente a cui Matteo ha pestato i piedi perché ha tolto dei privilegi, tra questi anche i magistrati. È un esercito che si sta muovendo contro di lui per rallentarlo e condizionarlo, ma non ce la farà». Evidentemente anche il premier deve essere convinto che questi tentativi di mettergli i bastoni tra le ruote saranno vani: «Fidatevi, sarà ancora lunga, ma la spunteremo», dice ai fedelissimi.
E per confermare che la pensa così sul serio e che la sua non è solo un’ostentazione di tranquillità si è messo già a studiare i nuovi organigrammi del gruppo della Camera e del partito e il rimpastino dell’esecutivo, perché, poi, «ragazzi, tocca avviare la fase 2 del governo e non abbiamo troppo tempo da perdere».
Dunque a presiedere i deputati andrà Ettore Rosato, che ha mostrato di essere utilissimo al premier. Lo affiancherà come vice Matteo Mauri del Pd, in quota minoranza «buona», quella, per intendersi, che ha rotto con i bersaniani. Al partito intanto resterà Lorenzo Guerini. In autunno, con una conferenza organizzativa, verrà ridisegnato il nuovo Pd.
Al governo, una new entry della minoranza collaborativa: Enzo Amendola, attualmente responsabile Esteri della segreteria del partito, prenderà l’incarico di viceministro alla Farnesina. Insomma, chi nella minoranza si è comportato «rispettando quel vincolo di lealtà che è proprio di una comunità politica» e «senza il quale il Pd scompare» verrà premiato.
Ma nell’esecutivo ci sono altri due posti liberi. Quello di viceministro allo Sviluppo economico, che era occupato da Claudio De Vincenti, attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e il dicastero degli Affari regionali. Il primo spetterà a Scelta civica, il secondo al Nuovo centrodestra. Non è escluso inoltre che Renzi nomini un sottosegretario ad hoc per l’Immigrazione, un tema su cui ha deciso di contrastare il «nostro vero avversario, cioè Salvini».
Quanto alle presidenze delle Commissioni, che vanno rivotate a metà legislatura il premier sta pensando di attendere settembre, anche per vedere «i riposizionamenti nei diversi schieramenti» (non solo nella sua minoranza, ma anche dentro Forza Italia). E poi? «E poi avanti di corsa con le altre riforme per avviare la fase 2 del governo. Andremo avanti con ancora più decisione senza farci fermare da nessuno perché l’Italia è come una bicicletta: funziona solo se corre sempre».

I numeri in Parlamento. Da Verdini i possibili voti di «soccorso»
L’ex coordinatore del Pdl incontra Berlusconi: verso l’addio con un gruppo di senatori da Fi, Gal e Ncddi Barbara Fiammeri Il Sole 10.6.15
Roma Le premesse con cui ieri sera Denis Verdini è arrivato a Palazzo Grazioli erano già ben note a Silvio Berlusconi. Il senatore forzista continua a perorare la causa del Nazareno e della condivisione delle riforme con Matteo Renzi . Strada che invece Berlusconi al momento ha abbandonato. Eppure, nonostante l’evidente divergenza e anche qualche durissimo scontro verbale, il Cavaliere ha continuato a cercare Verdini e ieri lo ha invitato a cena. Un faccia a faccia per verificare se davvero quello che un tempo era il suo braccio operativo sia pronto a fare il grande salto: lasciare Fi, come hanno già fatto la scorsa settimana i fittiani, per dar vita a un suo gruppo di «responsabili». Dodici senatori, scriveva ieri pomeriggio l’Ansa - di cui metà di Fi e altri provenienti da Gal, dal misto e anche da Ncd - sarebbero già pronti a seguirlo.
Così , dopo il pranzo con i fedelissimi del “cerchio magico” (Toti, Rossi e Bergamini), i capigruppo Romani e Brunetta e i loro vice, per fare il punto sulla grave situazione finanziaria del partito (sarà chiusa probabilmente la sede di Piazza san Lorenzo in Lucina) e fissare per domani una riunione della Direzione per formalizzare lo stato dei conti (del vecchio Pdl), Berlusconi, che era particolarmente di buon umore anche in vista dell’appuntamento di oggi con il presidente russo Vladimir Putin, si è preparato all’incontro con Verdini.
Il Cavaliere sa che oltre alle questioni “alte” sulle riforme, i dissapori con Verdini dipendono anche da ragioni più spicciole, come il rapporto con il “cerchio magico”, la lista presentata in Toscana, i ruoli all’interno del partito. E sa anche che per Verdini è questo il momento di giocarsi le sue carte, in primis con Renzi, a cominciare dal sì alla riforma della scuola che i verdiniani hanno già garantito al premier.
Non è detto che questo porti inevitabilmente e immediatamente alla nascita di un nuovo gruppo. Anche perché al di là delle voci sui 12 senatori, al momento ce ne sarebbero solo 9 , compresi gli ex Sandro Bondi e Manuela Repetti ma anche un paio di senatori vicini a Saverio Romano, che ormai sembra aver detto definitivamente addio alla pattuglia dei fittiani. Tra i verdiniani si collocherebbe poi Vincenzo D'Anna (che ha sostenuto in Campania De Luca) e, sempre da Gal, arriverebbe Lucio Barani. Nel nascente gruppo ci sarebbero poi i “3 Riccardo”: Conti, Mazzoni e (forse) Villari.
Anche Berlusconi però si sta muovendo e non poco. Anzitutto sui senatori forzisti, per contrastare l’operazione di Verdini. Ma anche su chi si è mostrato insofferente, sempre tra i senatori, dentro Ncd (raccontano di un corteggiamento assiduo a Guido Viceconte). Nessuna fretta però. Il Cavaliere è convinto di avere tempo perché «Renzi in questo momento è più debole e non può permettersi di tornare al voto in tempi brevi».
Un tempo che nella testa di Berlusconi deve servire anche a riequilibrare il rapporto con Matteo Salvini. E il primo segnale è proprio l’incontro con Putin. Un modo per far capire al leader della Lega, che più volte si è schierato apertamente con il presidente russo, che l’unico interlocutore accreditato al Cremlino è solo lui, il Cavaliere.

La scelta di Speranza: nuova corrente per sfidare il leader
L’ex capogruppo lavora alla rifondazione dell’ala dissidente dopo le spaccature Mano tesa a Cuperlodi M. Gu. Corriere 10.6.15
ROMA La «minoranza della minoranza», come Renzi ha ribattezzato i presunti gufi del Pd, si riorganizza. Dalle ceneri di Area riformista nascerà una nuova componente guidata Roberto Speranza. «L’Italia che vogliamo, il Pd che vogliamo» è il titolo dell’iniziativa nazionale con cui il 27 giugno l’ex capogruppo rifonderà a Roma la sua corrente. «Costruire l’alternativa a Renzi — è l’obiettivo dichiarato da Nico Stumpo — Dal Pd non si esce, si apre un cantiere per costruire una nuova area politica». Un’area che per metà luglio ha in programma una due giorni di approfondimento politico di componente, su scala nazionale.
Il congresso del 2017 è lontano, ma la battaglia è iniziata. La leadership è da costruire, però Speranza è in campo. Ed Enrico Letta lascia il Parlamento: «Ho dato la lettera di dimissioni alla presidente Boldrini, ma dalla politica non ci si dimette...». Ospite di Giovanni Floris in tv, l’ex premier ha criticato la scelta di Renzi di sostenere Enzo De Luca: «Per vent’anni abbiamo combattuto contro Berlusconi che si faceva le leggi ad personam, con quale credibilità ci troviamo oggi con una persona che è esattamente nella stessa situazione?». In serata Speranza ha riunito alla Camera una sessantina di parlamentari della sua corrente, per immaginare la rivincita. «Renzi ha fatto il bullo, come ogni volta che decide di trattare» è la lettura che circolava ieri sera tra i dissidenti, contenti per le aperture su scuola e riforma costituzionale e, al tempo stesso, infastiditi dai toni del leader. Malumori e maldipancia non si placano. Sembra che i renziani siamo molto seccati per la scelta di Danilo Leva, avvocato ed ex responsabile giustizia, di difendere Daniele Ozzimo, arrestato per l’inchiesta Mafia Capitale. Dopo la spaccatura con i dialoganti che fanno capo al ministro Martina, Area riformista prova a rafforzarsi e propone a Cuperlo di unire le forze per sfidare Renzi. Il 19 giugno, a Torino, l’ex capogruppo e l’ex presidente del Pd parleranno dal palco della manifestazione «A sinistra nel Pd» organizzata da Andrea Giorgis. «Un pezzo significativo del nostro mondo non ci ha votato e noi — spiega Speranza — vogliamo aiutare il Pd a recuperarlo». Ma la tregua, c’è? «Spero si possa fare una valutazione serena nel merito su precari, ruolo dei presidi, school bonus, soldi alle private superiori. Le aperture sono positive, aspettiamo gli atti parlamentari conseguenti». E se il premier manterrà l’impegno a modificare il ddl, la minoranza al Senato potrebbe anche votarlo: «La nostra aspettativa è che le modifiche siano consistenti e che si possa votare». C’è chi, come Alfredo D’Attorre, pensa a un referendum tra i tesserati del Pd. E c’è chi aspetta Renzi al varco, per capire se intenda tenere unito il Pd o se è vero che stia cercando i voti di Berlusconi. E se il premier medita rimpasti o rimpastini, Speranza avverte: «Ci interessano le idee, non le poltrone». E infine, per dire che la minoranza non vuole mettere in difficoltà il governo: «Il problema di Renzi non è riconquistare il voto di Speranza in Parlamento, che in un modo o nell’altro arriva, ma quello dei 618 mila dipendenti della scuola che hanno fatto sciopero».

I piedi di Renzi nella palude centrista
di Stefano Folli  Repubblica 10.6.15
INTORNO al presidente del Consiglio e al governo si sta creando un terreno paludoso, dove è fin troppo facile mettere un piede in fallo. Le cose avvengono, magari sembrano non avere alcun nesso fra loro.
MA POI via via un disegno prende forma. E chi lo sa vedere comincia a preoccuparsi. Ieri il provvedimento sulla scuola, uno dei passaggi cruciali del cammino di Renzi, è scivolato in commissione Affari Costituzionali al Senato. Niente di definitivo, nulla è precluso. Eppure il segnale è molto negativo. Il voto decisivo è stato espresso dal senatore Mauro che ha da pochi giorni abbandonato la maggioranza; ma anche altri tre centristi erano assenti: Quagliariello, Augello e Torrisi. Nessuno dei tre è amico di Alfano, a segnalare lo stato di tensione nel Nuovo Centrodestra. Peraltro i voti di questo gruppo restano essenziali per Renzi a Palazzo Madama. Delle due, l’una: o si è trattato di un semplice infortunio, facilmente rimediabile; ovvero abbiamo assistito all’inizio di una fase di turbolenza con epicentro proprio nell’area centrista. Se è vera la seconda ipotesi, Renzi ha poco da rallegrarsi. La destabilizzazione dello spazio politico che fa riferimento al ministro dell’Interno avrebbe conseguenze gravi sulla tenuta della maggioranza, in termini sia politici sia numerici. Certo, è sempre possibile e anzi assai probabile il soccorso azzurro di un plotone di berlusconiani dissidenti, il cui leader Denis Verdini non nasconde la volontà di sostenere il premier, nella convinzione che l’attuale governo sia l’unica alternativa al caos; nonché la miglior garanzia per un centrodestra che voglia svilupparsi in chiave moderata, proprio all’opposto della deriva leghista.
Ma è chiaro che l’interesse del presidente del Consiglio consiste nell’evitare il collasso del Ncd. Un conto è avere dalla propria parte il ministro dell’Interno, un partner leale con il suo gruppo saldamente radicato nella maggioranza. In tal caso, i voti in arrivo dal centrodestra sarebbero quasi sempre non influenti. Ben altro sconquasso sarebbe invece la spaccatura dei centristi e la sconfitta di Alfano. Un governo che finisse per reggersi, sia pure solo al Senato, sui voti determinanti di un plotone raccogliticcio di «volenterosi » dovrebbe rigenerarsi attraverso una crisi formale. Un tempo almeno si usava così, ogni volta che la maggioranza cambiava natura. Inutile dire che in questo caso i ritardi sulle riforme sarebbero rilevanti.
A questo punto la matassa politica s’intreccia con la cronaca nera. La frase di Buzzi, uno dei protagonisti dello scandalo romano, è tutt’altro che rassicurante: «Sul centro di Mineo, se parlo io cade il governo ». Sarà pure un messaggio obliquo di un uomo disperato, ma nessuno può escludere che dal pentolone dell’inchiesta romana emergano, o siano già emersi, elementi in grado di danneggiare il governo ad alto livello. Da Roma a Mineo, in provincia di Catania, e ritorno nella capitale. Sullo sfondo di una riforma della scuola che al Senato potrebbe trasformarsi in una prova di forza contro il premier. Certo, se il problema è il chiarimento all’interno del Pd, Renzi è in grado di gestirlo. Ma le questioni si complicano quando si sommano — ed è inevitabile — con le tensioni della maggioranza: in particolare con il malessere del partito centrista, bersaglio fisso di chi vede in esso l’anello debole della catena, il punto su cui agire per colpire il presidente del Consiglio. I nuovi passi dell’inchiesta romana, le urla dei Cinque Stelle che ieri hanno assediato il Campidoglio, la pressione semi-eversiva dei presidenti delle Regioni del nord che rifiutano di accettare le decisioni del governo centrale in tema di immigrati da ospitare. Ce n’è abbastanza per capire che Renzi deve sbrogliare la matassa senza perdere tempo. Per lui è la prova più difficile in un anno e oltre di governo. Ma non potrà sottrarsi. E ci si domanda per quanto tempo sarà in grado di rinviare l’azzeramento del comune di Roma. L’argomento per cui «così facciamo vincere i grillini» è sempre più debole. Per far vincere i Cinque Stelle basta lasciare che tutto affondi nella palude. Come sta già accadendo.

Premi al merito, più spazio ai docenti
Allo studio nuove modifiche: criteri più ampi per valutare i presidi e stop alle classi pollaiodi Eu. B. Il Sole 10.6.15
Se la «Buona Scuola» fosse una partitura sarebbe sicuramente un adagio. La conferma arriva ancora una volta dal Senato. Non solo per l’incidente di percorso sul parere della Affari costituzionali (su cui si veda altro articolo in pagina) ma anche per quello della Bilancio che non è ancora arrivato e che potrebbe tra l’altro imporre, stando a quanto si apprende, di tassare la card da 500 euro per i docenti. Un ritardo che ha impedito anche ieri alla commissione Istruzione di iniziare il voto sugli emendamenti al ddl. E che ha permesso però alla maggioranza di mettere a punto le ulteriori modifiche da formalizzare per andare incontro alle richieste del personale scolastico e della minoranza Pd.
Tra i possibili «punti di equilibrio» a cui ha fatto riferimento lunedì sera il premier Matteo Renzi uno dovrebbe riguardare il comitato per la valutazione che dovrà fissare i criteri sulla base dei quali i dirigenti scolastici assegneranno i premi ai docenti meritevoli. Tra le due ipotesi sul tavolo (estromettere gli studenti e i genitori oppure rafforzare il numero degli insegnanti presenti al suo interno) la soluzione preferita dovrebbe essere la seconda.
Sempre in tema di valutazione dovrebbe arrivare un’ulteriore precisazione dei principi da seguire per la “pagella” dei presidi: non si terrà solo conto del rispetto del piano dell’offerta formativa (Pof) ma anche dell’abbattimento dei tassi di dispersione e di ripetenza e del grado di apertura al territorio degli istituti. Presidi che rischiano, da un lato, di vedersi applicato il tetto di sei anni per la permanenza nello stesso istituto e, dall’altro, di incassare un restringimento ulteriore del potere di chiamata diretta. Grazie alla previsione che per aggiornare la “squadra” dei docenti dell’organico dell’autonomia bisognerà prima cambiare il Pof.
In rampa di lancio ci sarebbero poi il superamento delle classi-pollaio, attraverso la cancellazione delle norme della riforma Gelmini e l’affidamento al Miur di un piano pluriennale per rivedere il tetto di alunni per classe. Margini molto più stretti ci sono invece per il piano di assunzioni. I beneficiari dovrebbero restare 100.701. Se però l’approvazione definitiva del ddl (che una volta uscito da Palazzo Madama dovrà comunque tornare alla Camera) dovesse slittare a metà luglio e dunque non si riuscisse a far partire già dal 1° settembre la nascita dell’organico dell’autonomia potrebbe scattare il piano B. Sottoforma di un’assegnazione provvisoria degli insegnanti per il primo anno in attesa del varo definitivo nel 2016.
Un tema su cui interviene anche la relatrice Francesca Puglisi (Pd): «Se qualcuno punta allo stralcio del piano di assunzioni - sottolinea - sappia che il nostro no è categorico, mentre siamo aperti a modifiche che ci consentano di migliorare la Buona scuola». 

Franco Piperno, ex Potere Operaio “Maurizio un capo operaio, ero lì a curiosare”
intervista di Matteo Pucciarelli Repubblica 10.6.15
MILANO Franco Piperno, ex Potere Operaio, ex assessore in una giunta di centrosinistra a Cosenza, è colto di sorpresa: «Cosa ha detto Renzi scusi? Ah... Beh, se per attaccare Landini deve parlare di me, allora ne ha paura».
Ma cosa ci faceva a Roma lei?
«Ero curioso e ci sono andato perché avevo un appuntamento con altri compagni di Esc lì vicino. Ho curiosità per ciò che fa il segretario Fiom, non è un cartello elettorale come al solito».
E pensava di scatenare questo putiferio?
«Onestamente no, altrimenti sarei andato al bar accanto. Poi non ho aperto bocca, ho ascoltato in silenzio».
Quindi farà la Coalizione sociale anche lei?
«Guardi, so solo che Landini mi fa pensare ai capi operai naturali del ‘68, ha una partecipazione e un’aggressività che ricorda quel buon odio di classe di una volta».
A Landini glielo ha detto?
«Non lo conosco mica personalmente».
Ma lei è sempre un rivoluzionario?
«Sì, però l’esperienza mi ha detto che la rivoluzione va fatta senza prendere il potere. Prima pensavo il contrario, cioè prendere il potere e poi fare le rivoluzione».
E allora la rivoluzione come si fa?
«Attraverso l’autorganizzazione. Alcuni esperimenti sono possibili su scala locale. Sul piano politico invece sono rassegnato, l’unica possibilità di vincere è accumulare altre sconfitte».
Compresa la Coalizione sociale?
«Spero di no, anche perché a pensarci bene non sono mica sicuro che perdere sempre aiuti a vincere...»
Repubblica 10.6.15
Stefano Rodotà, ex presidente Pds
“Scalzone e Piperno io non li ho visti, non sapevo nemmeno che ci fossero”
“Mi spiace che Cuperlo sia caduto in trappola”
“Coalizione sociale merita rispetto si tratta di una scommessa difficile ma c’è un difetto di rappresentanza”
“Premier superficiale è un politico vecchio. Il garantismo da solo non può più bastare”
intervista di Alessandra Longo


ROMA Coalizione sociale, creatura di Landini, è diventata, nelle parole di Matteo Renzi, «Coalizione asociale» e Stefano Rodotà, colpevole di aver accusato il premier di applicare, per le faccende di giustizia, (in ultimo Mafia Capitale), lo stesso metodo «peloso e ipocrita» della Prima Repubblica, si è visto recapitare la risposta al vetriolo del giovane premier: «Rodotà? Lui sì che se ne intende di Prima Repubblica!». Comprensibile che il professore non abbia gradito. Da Madrid, dove si trova in queste ore, chiede «più rispetto» per il Movimento appena nato, respinge al mittente presunti feeling con i “compagni” Scalzone e Piperno, presenti alla due giorni di Landini, («Io non li ho nemmeno visti, c’erano 1087 persone») e attacca le ironie di Renzi: «Prima di parlare doveva informarsi. Siamo in presenza di un travisamento gravissimo ».
Professore, lei se ne intende di prima Repubblica?
«Certo. Per tutta la prima Repubblica mi sono battuto contro coloro che applicavano il meraviglioso meccanismo che adesso usa Renzi. Conosco bene la frase: “Io sono garantista. Aspettiamo che la giustizia faccia il suo corso”. Con questo sistema, e potendo contare sulla lentezza dei processi, persone che ne avevano combinate di tutti i colori, sono riuscite tranquillamente a rimanere sulla scena politica».
Renzi le ricorda la presunzione di innocenza.
«Figuriamoci, tutti noi dobbiamo essere garantisti. Lo rimando però alla seconda parte dell’articolo 54 della Costituzione. Chi ricopre funzioni pubbliche ha un dovere in più. Deve comportarsi con disciplina e onore. La presunzione di innocenza riguarda i reati, poi c’è la responsabilità politica, l’etica pubblica, del tutto ignorate dalla prima Repubblica. In Renzi ritrovo quel tipo di approccio. Quando ero presidente del Pds, chiesi, inascoltato, una assise sulla corruzione. Manderò i miei libri al presidente».
Arrabbiato?
«Un presidente del consiglio non può fermarsi alla superficie delle cose. La due giorni di “Coalizione Sociale” merita rispetto, meritano rispetto le 1087 persone che vi hanno partecipato e le 200 che hanno preso la parola. Evidentemente a Renzi la società non interessa se non è atomizzata. “Parlerò ai professori, parlerò agli alunni...”. Lui va a segmenti. Ma il rifiuto pregiudiziale della conoscenza è politicamente grave e culturalmente inquietante ».
Che ci facevano Scalzone e Piperno da Landini?
«Di due giorni di dibattiti rimane questo? Commentare questa iniziativa a partire da un caso che non esiste è un travisamento gravissimo. Scalzone e Piperno io non li ho visti, non sapevo nemmeno che ci fossero. Mi spiace che anche Cuperlo sia caduto in questa trappola. Anche lui doveva informarsi prima di commentare ».
C’è una sinistra che si agita dentro il Pd, ci sono i cosiddetti laboratori di Vendola e Civati. “Coalizione sociale” cosa vuol essere?
«È una scommessa difficile che parte dall’analisi della situazione italiana: partiti deboli, distinzione attenuata tra governo e Parlamento, a favore del primo, un drammatico difetto di rappresentanza, i cittadini che stanno scomparendo dalla vita pubblica, non vanno a votare, il potere affidato alla minoranza, la politica che si svuota con il rischio di estremismi e populismi...».
Da dove si riparte?
«Dalla società, dal territorio, si diceva una volta. Renzi ha cambiato idea sulla scuola, aprendo a modifiche, solo dopo che la società si è mobilitata. C’è tanta energia, tanta voglia di fare. È necessario creare una rete, non un altro partito. Ripartire dal basso nel nome del ripristino dei diritti e della dignità per tutti, dico tutti. Così hanno fatto Syriza in Grecia e “Podemos” in Spagna. Senza sponda sociale non si va da nessuna parte, senza buona cultura non c’è buona politica. Ma non si tratta di cominciare da zero. Penso alle esperienze tutte italiane di Don Ciotti sulla legalità, ad Emergency di Gino Strada...».
Professore, secondo i suoi parametri, Renzi è di sinistra?
«Non lo so. Lui dice di esserlo. Io non sono tra quelli che pensano che non ci sia più distinzione fra destra e sinistra. La distinzione c’è. Io metto al centro della politica la dignità, l’eguaglianza, i diritti, la redistribuzione delle risorse. Io penso ad un orizzonte espansivo di cambiamento della Costituzione. Renzi mi pare insegua un percorso opposto, di riduzione della democrazia costituzionale ». 

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