"Abbiamo bisogno di liberarci dalla sindrome del leader. Il leaderismo ha divorato la partecipazione, la democrazia diffusa"
Nichi Vendola “A sinistra nascerà un nuovo partito il nostro avversario è il renzismo”
“Oggi a me preme bloccare la riforma della scuola”
“Il Pd è riuscito a riesumare Berlusconi, sta al governo con Alfano: si è allontanato dai suoi riferimenti sociali”
“La Paita in Liguria ha scelto la destra, avrebbe perso comunque”
“La cavalcata wagneriana del premier ha avuto il primo vero inciampo”
Elezioni anticipate?intervista di Giovanni Casadio Repubblica 2.6.15
ROMA «Oggi i dem si consolano con il gioco delle bandierine sulle Regioni..., ma la cavalcata wagneriana di Renzi, con tanto di militarizzazione della contesa politica all’interno del Pd, ha avuto il primo vero inciampo». Nichi Vendola, il leader “rosso”, annuncia la nascita del nuovo partito della Sinistra: «Facciamolo, è il momento».
Vendola, colpa della sinistra se ha vinto Toti e la destra in Liguria?
«Assolutamente no. Conosce l’aneddoto del generale nazista che chiede a Picasso se avesse fatto lui Guernica?
E Picasso gli risponde: “No, l’avete fatto voi”. Ecco, avete fatto tutto voi, cari compagni del Pd. Avete riesumato Berlusconi, sottoscritto il Patto del Nazareno, fatto il governo con pezzi di centrodestra e adottato a Palazzo Chigi un’agenda politica che non è certo quella sottoscritta nell’accordo “Italia bene comune” tra Sel e Pd».
La sinistra però ha contribuito a rianimare Berlusconi e Salvini?
«Salvini viene rianimato dalle politiche dell’austerity europee che evocano gli animali spiriti del populismo di estrema destra. È un imprenditore della paura, che catalizza il consenso di chi è smarrito di fronte a una difficile prospettiva di futuro».
Se non ci fosse stata la lista di Pastorino, avrebbe vinto la Paita?
«Penso che avrebbe perso in ogni caso, perché tra due destre l’elettorato ha scelto l’originale. Il discorso va rovesciato. Alle primarie, il centrodestra ha fatto vincere la Paita. Il Pd in Liguria ha investito sull’apertura a destra. La ministra Pinotti è andata a benedire questa deriva di una destra travestita da sinistra ».
Il Pd di Renzi è destra travestita da sinistra, secondo lei?
«Sì, è quello che penso. Se mi concentro sugli ingredienti cruciali del ventennio berlusconiano li ritrovo nel biennio renziano: l’attacco all’articolo 18, l’aggressione alla scuola pubblica, il modello autoritario di riforma elettorale».
Lei vorrebbe elezioni anticipate?
«Siamo in un quadro non chiaro e non pulito. Il programma di questo governo non ha avuto nessuna vera validazione democratica. Ma oggi a me preme bloccare la “buona scuola” e cambiare il segno di una riforma, che è sfregio alla cultura democratica del paese. Non sono contento del conflitto così acuto e radicale che ci oppone al governo Renzi, però è il figlio della scissione operata dal premier tra il Pd e i suoi riferimenti sociali, che sono il mondo del lavoro e della scuola».
Il Pd è comunque l’alleato a cui pensate?
«Il renzismo è un nostro avversario. In molti casi per le stesse ragioni per le quali abbiamo combattuto il berlusconismo. Non è che le medesime cose fatte dal Cavaliere nero sono peccato mortale e fatte dal segretario fiorentino sono peccato veniale ».
Cosa nasce a sinistra?
«Sel, pezzi di Pd, altri movimenti, reti locali ci siamo presentati con simboli diversi in ogni regione. Ma abbiamo guadagnato in diverse realtà. Ora tutti quelli che sono interessati al futuro della sinistra siano generosi per costruire una rete, nonostante le condizioni siano difficili. Perché quando la sinistra fa la destra è tutta la sinistra che viene sfregiata e delegittimata. Chi ha voluto rendere utile la protesta contro Renzi ha scelto i 5Stelle».
State per approdare a un partito con Landini, Civati, Fassina?
«Abbiamo avuto una indicazione che dice “fatelo, fatelo subito e fatelo bene” il nuovo soggetto politico».
Non le è piaciuta la fuga in avanti di Civati con il movimento “Possibile”?
«Ognuno porta al fuoco le proprie fascine, dobbiamo però coordinarci».
Il M5stelle toglie spazio alla sinistra italiana?
«I 5Stelle non possono cantare vittoria, anche se ora hanno radicamento territoriale ed è certo importante. Noi abbiamo avuto qualche difficoltà a spiegare le scelte fatte in alcune realtà, però la strada per la sinistra è ampia».
Contenti di avere svelato che Renzi non è invincibile?
«Io spero che Renzi mediti la lezione e che possa giocare le proprie partite senza truccare le carte, senza colpi di mano, ma imparando ad ascoltare e confrontarsi».
Prevede una scissione nel Pd?
«Vedo intanto il primo inciampo di Renzi. La realtà è uscita dalle urne e racconta una storia molto diversa da quella che lui narra nelle conferenze stampa».
di Salvatore Merlo il Foglio 3.6.15
Roma. Nei prossimi giorni sul Parlamento precipitano niente meno che le unioni civili, la riforma della scuola, quella della Rai e, mamma mia, anche quella costituzionale del Senato. E la strada è complicata, i tempi sempre più infidi, le gerarchie parlamentari sempre più instabili, gli interlocutori inaffidabili. Non di rado le porte alle quali il governo e la maggioranza bussano si rivelano finte, c’è scritto Forza Italia ma dentro c’è Raffaele Fitto, la targhetta dice Ncd ma Alfano lì non c’è più, le porte danno su uno sgabuzzino, su un partito esploso, sul vuoto. “Prendete Romani e Brunetta”, mormora Ivan Scalfarotto, “qua certe volte non si mettono d’accordo tra loro nemmeno i capigruppo dello stesso partito”, dice lui, che è il sottosegretario alle Riforme, il vice di Maria Elena Boschi. E insomma è così, con rotolìo d’occhi, che si para di fronte al governo questo Parlamento delle scissioni, la legislatura che era cominciata con quattro gruppi parlamentari mentre oggi sono otto, e senza considerare le bande, i corsari, i sabotatori, i battitori liberi, i signori della guerra, o la massa informe del Gruppo misto, che ha raddoppiato i suoi iscritti.
Montecitorio e Palazzo Madama sembrano l’Italia del Cinquecento: ora un drappello di cavalieri civatiani appare in cresta a una collina, li guida Corradino Mineo che sembra Giovanni Delle Bande Nere, ora un plotone di fanti bersaniani attraversa un fiume, ora una squadra di arcieri fittiani lascia le tende di Forza Italia. Nuvole e nuvolette di polvere brunettiana si levano qua e là all’orizzonte della Camera, fuochi di bivacchi verdiniani punteggiano la notte del Senato. Una tromba cuperliana suona al di là di un poggio, e in lontananza rulla a tratti il tamburo di Roberto Speranza… “Diciamo che ogni settimana si produce un caleidoscopio inebriante di posizioni”, ride Giorgio Tonini, che è vicecapogruppo del Pd in Senato e dunque è uno di quelli che deve tenere i rapporti con gli altri gruppi parlamentari (e con il suo). E lo deve fare con millimetrica precisione, “perché approvare la riforma del Senato significa avere un’ampia maggioranza”, e non approvarla significa far cadere il governo.
Ma la verità è che non si sa più nemmeno bene con chi parlare. E quello del mediatore istituzionale, del capogruppo di maggioranza e del ministro delle Riforme, è ormai un genere di vita tutto impostato sul calcolo dei minuti, tanto di conversazione, tanto di occhiate, tanto di stretta di mano più o meno allusiva: due giorni con il caporione più difficile e impegnativo (mettiamo Brunetta), una serata con quelli di minor prestigio (mettiamo Capezzone), poi una carezza agli imbizzarriti (mettiamo Civati). E il tutto verrà eseguito con calma apparente, finto distacco e vero fremito.
Ma il gioco è da mal di testa. “Parli con uno e però in realtà non sai nemmeno se c’è più il suo partito”, dice Tonini. Anche quello di Alfano si sta sfasciando, si esprime in cacofonia: De Girolamo da una parte, Lorenzin dall’altra, Cicchitto di qua e Quagliariello di là, uno tira a destra, l’altro a sinistra. E allora gli intermediari di Renzi devono sempre decantare il prodotto, cioè la riforma, con tutti gli annessi e connessi (comprese le contropartite, le modifiche, i favori allusivi), fino al cedimento da capogiro del possibile cliente. “Ma chiudi un accordo con uno, sembra fatta, e trovi il disaccordo dell’altro”, dice Scalfarotto. Persino la minoranza del Pd è inintelligibile. “Se parli con Gotor, che è senatore, lui ti dice una cosa. Poi però parli con D’Attorre, che è deputato, e lui ti dice l’esatto contrario”. E dire che fanno parte della stessa corrente. “Facciamo lo slalom”, spiega Tonini. “Ora vediamo questo nuovo gruppo parlamentare dei fittiani”. E’ l’ottavo nano del Parlamento italiano, sta per nascere. “Dicono che il capogruppo sarà Cinzia Bonfrisco. E’ una brava, ci si può parlare”.
E così staffette, messaggeri, aiutanti al galoppo vanno da un accampamento all’altro recando dispacci, ma non c’è una sola postazione fissa. Ogni tanto si scava una trincea, che l’indomani però è deserta. “Guardi, nemmeno quelli che dovrebbero essere gli amici di Brunetta sono d’accordo con Brunetta”, spiega Scalfarotto, e insomma a volte non si capisce più niente, è come un labirinto di specchi deformanti e grotteschi. Ma se la riforma del Senato non passa, per il governo è finita. “Contiamo su un sentimento non nobilissimo, ma molto diffuso”, scandisce Tonini, con tono definitivo. Quale? “La paura delle elezioni”. E’ come il cemento.
E tutt’intorno al trono di Renzi è iniziata una meccanica di scomposizione, decomposizione e ricomposizione del mondo che fu comunista, tra antitesi, contraddizioni, amletismi, in un intreccio sinfonico di toni: tra i vecchi rottamati, impegnati a sgranare il rosario delle ingiustizie subite, o marinati nel rancore, e poi i meticolosi contestatori come Fassina, o come Alfredo D’Attorre, e ancora i garbati solitari come Cuperlo, o gli smarriti e un po’ afoni come Speranza, e poi infine gli Orfini e gli Orlando, i giovani turchi e gli ex allievi di Bersani, quelli che provenendo da vecchia scuola comunista si muovono con sicurezza di volpi consumate nell’arte, e dunque stanno dentro, con Renzi, per contare e influenzare, e sempre si muovono nei cunicoli che ancora collegano il partito eterno: il muso sottile per iniziative sottili, la coda provvida d’esperienza. “Al Pd non serve il tafazzismo, ma nemmeno il pensiero unico”, ha detto Martina.
E insomma da una parte c’è un contrappunto di malinconie e violenze, di eroi sconfitti o falliti, ma indomabili come D’Alema, o di una sinistra che drammaticamente pulsa, impreca, sospira, rumoreggia, corre, provoca, esplode, che cerca la sua identità nei modelli della contestazione straniera, in Tsipras o in Podemos, tutto un groviglio di lamenti che portano all’affiorare strapotente di una subcoscienza politica che si potrebbe riassumere così: tutto tranne Renzi. Dall’altra parte c’è invece la maschera di Orfini e di Orlando, ma anche quella di Martina, una sinistra che in cuor suo a Renzi ancora rimprovera una certa politica grossezza, certe fanfaronate, un certo egoismo o egotismo un po’ da gallinaccio, ma che pure esprime il senso d’ufficio di chi si sente interprete ed erede di una tradizione che si rinnova e sopravvive ai leader del momento, “con disciplina comunista”, scherza – ma neanche troppo – Stefano Esposito.
E “il partito”, a sentirli parlare, è infatti per loro speranza e religiosità collettiva, quasi senso orfico del mistero e della trascendenza nel gran cuore del Pd che fu Pci. Secondo alcuni vecchi e saggi osservatori, interni al partito e al Palazzo, “c’è molto opportunismo. E anche una certa tendenza alla subalternità”. Ma chissà. Il vantaggio di questa convivenza, di questo patto che da domenica notte qualcuno chiama “della Playstation”, sembra infatti reciproco, tanto per i giovani post comunisti quanto per il giovane premier. La fitta ragnatela del lavoro di anni accanto a D’Alema e Bersani, i due vecchi di cui ciascuno di loro è discepolo rinnegato, hanno portato tanto Orfini quanto Orlando e Martina a conoscere meccanismi e affinare astuzie, e a stringere rapporti con tutti nel partito, compresi quei potenti (e non renziani) che oggi governano le regioni e che si chiamano Rossi e Marini, ma anche Emiliano. E così, senza troppo snobismo, loro offrono, richiesti, i loro preziosi servizi a Renzi – che con la sua classe dirigente fiorentina ha talvolta problemi – leader di turno ma non eterno di un partito, questo sì, che secondo loro, e non soltanto per loro, non può che essere eterno. Accompagnano dunque il rottamatore, ma senza lo zelo dei servizievoli cretini, pronti a chiudere per sempre con la sinistra tendenza Podemos (da loro detta “Perdemos”) e pure con la burocratizzata fronda di Speranza, “sia chiaro”, dice Orfini, “se una parte del Pd dovesse far mancare i voti al governo si va alle elezioni”.
Il Governo e il dilemma della direzione Pd
di Lina Palmerini
Ma Renzi li asfalterà o cercherà la tregua? E la minoranza vorrà un accordo o il logoramento del premier? Anche in vista di questa direzione Pd le domande sono le stesse perché, finora, una scelta non c'è stata. Non c'è stata la pace né l'arma letale: i dissidenti hanno votato contro il Governo e il premier non li ha mai asfaltati. E ora?
Ora la vaghezza non regge più. Anche se ieri i vertici del Pd mostravano indifferenza verso i piccoli movimenti dei Popolari - due sono passati all’opposizione - e verso le ambizioni guerriere del neonato gruppo dei fittiani, un punto fermo nel Pd va trovato. E non solo perché i numeri al Senato ballano ma perché non può, ancora una volta, entrare in azione il fuoco amico. Insomma non si può vedere lo stesso film che si è visto ogni volta che governava il centro-sinistra: cioè che a sabotare la maggioranza è la maggioranza stessa. Lo stesso tormentone da vent’anni. Difficile indagare le ragioni dell’astensionismo ma una motivazione l’ha data il professor Corbetta dell’Istituto Cattaneo: il disorientamento di chi vota Pd di fronte alle divisioni nazionali e le fazioni locali. Un disorientamento che ha tenuto lontano dalle urne e che ha portato a un vero cambio di schema degli elettori di sinistra finora molto fedeli agli appuntamenti elettorali.
E dunque, per quanti sforzi abbia fatto i premier di raccontare una storia diversa, viene servita invece la stessa minestra di numeri in bilico al Senato e primi scenari di ribaltoni. E alla fine il messaggio non è quello preferito da Renzi - «Vado avanti, non mi fermano» – né il refrain della minoranza su cos’è più di sinistra ma torna invece la solita sensazione di ingovernabilità.
Ecco, allora, che le domande che la direzione del Pd di lunedì deve sciogliere diventano essenziali. E soprattutto si devono ridurre a una: governare o non governare? Una domanda che riguarda Renzi tanto quanto la minoranza. E dunque il cambio di registro deve essere reciproco. Fare fuori chi vuole asfaltare e chi vuole logorare.
Senza un punto fermo nelle regole di comportamento politico, sottoscritte da tutti, il rischio è che per l’ennesima volta il centro-sinistra si dimostri inadeguato al Governo. Un partito più di opposizione, insomma, visto che ogni volta che governa dura al massimo due anni. Queste sono le fasi del centro-sinistra: primo Governo Prodi dal ’96 al ’98, poi D’Alema fino al 2000, poi di nuovo Prodi 2006-2008. E adesso scatta il nuovo gong del biennio: 2013-2015. Ci siamo. E la responsabilità, di nuovo, è tutta dentro il partito di maggioranza relativa perché non è certo la scelta “single” di Mario Mauro che può turbare i sonni del Governo. Né i tentativi di farsi notare di Fitto. La responsabilità sta tutta dentro il Pd, minoranza e maggioranza. E questa volta non c’è nemmeno più la scusa di un Renzi che fa patti con Berlusconi o del salvataggio azzurro al Senato.
Dopo le regionali e dopo lo strappo con il Cavaliere non ci sono più alibi. È solo nel Pd che va trovata la responsabilità di mandare avanti l’Esecutivo tra l’altro in una fase che vede appena adesso primi segnali di risveglio economico. Ieri i dati Istat sull’occupazione in aumento sono stati esibiti dal premier come se fosse solo opera sua. Ma a votare il Jobs act c’è stata pure quella parte di minoranza responsabile che ha voluto tenere il filo della mediazione fino all’ultimo. E che non era nelle piazze della Cgil a contestare il Governo e la riforma dell’articolo 18.
«Causare la fine della legislatura ora, con l’operazione della Bce in corso e soprattutto i primi dati di ripresa economica e occupazionale è da pazzi. Ma il premier deve cambiare linguaggio e cercare un dialogo nuovo», diceva ieri Cesare Damiano interpretando quella risposta all’unica domanda che deve porsi la Direzione Pd di lunedì. Governare o non governare?
Verso la direzione. Ma al momento non sono in vista né cambiamenti allo statuto, né ai regolamenti parlamentaridi Emilia Patta Il Sole 4.6.15
«C’è ancora molto da fare, specie su fisco, Pa e giustizia civile. Ma andiamo avanti ancora più decisi, a viso aperto». Matteo Renzi, mentre nel suo Pd continua ad andare in scena la guerra tra minoranza bersanian-cuperliana e maggioranza renziana dopo i risultati non esaltanti delle regionali di domenica scorsa, trova conforto negli ultimi dati dell’Istat sull’aumento delle assunzioni (361mila in più rispetto ad aprile 2014, si veda pagina 5) per ribadire che la linea del governo non cambia, che le riforme messe in campo sono la ricetta giusta. «In politica c’è chi urla e spera che tutto vada male – scrive il premier e segretario del Pd su Facebook in una giornata riservata per il resto al lavoro a Palazzo Chigi -. E c’è chi quotidianamente prova a cambiare le cose, centimetro dopo centimetro, senza arrendersi alle difficoltà. Avanti tutta, è #lavoltabuona».
I destinatari del messaggio, va da sé, sono i compagni della minoranza dem sul piede di guerra per chiedere a Renzi un cambio di rotta, a cominciare dal Ddl scuola e dalla riforma del Senato e del Titolo V presto all’esame di un’Aula di Palazzo Madama in cui i numeri della maggioranza sembrano farsi sempre più esigui. E i 24 bersaniani sempre più decisivi. Ma il premier, al di là di qualche aggiustamento a cui stanno lavorando i senatori dem guidati da Luigi Zanda, non ha alcuna intenzione di snaturare le due riforme a cui più lega il successo del suo governo: il superamento del bicameralismo perfetto dopo una discussione ventennale e una scuola che valorizzi il merito. E allora la direzione di lunedì si annuncia davvero come una resa dei conti politica. Non saranno proposte al momento modifiche statutarie o dei regolamenti parlamentari perché, come anticipato ieri dal Sole 24 Ore, le regole ci sono già: sono quelle volute da Pier Luigi Bersani nel 2013, sottoscritte da tutti i parlamentari del Pd e da quelli di Sel allora alleati, che esigono il rispetto delle decisioni prese a maggioranza dai gruppi parlamentari; e sono le stesse volute dall’allora capogruppo Roberto Speranza alla Camera (analoghe regole ci sono anche nel regolamento approvato dai senatori del Pd). «Le regole ci sono già, il tema è che finora non le abbiamo volute applicare. Ora le faremo rispettare. Ad esempio chi non vota la fiducia non può stare nel partito». Chi non vota la fiducia non può stare nel partito: una regola non scritta perché talmente implicita che non è stato finora necessario scriverla. «Però se fosse necessario espicitarlo meglio si farà».
Questo il clima. Mentre sullo sfondo resta il complicatissimo caso De Luca, il neogovernatore della Campania su cui pende la sospensione in virtù della legge Severino. Secondo quanto ribadito ieri dal sottosegretario Ivan Scalfarotto, De Luca si insedierà e poi verrà sospeso in base alla legge Severino. Ma quanto tempo dovrà attendere il pronunciamento della magistratura ordinaria? La regione sarà governata nel frattempo da una giunta acefala? Interrogativi pesanti e al momento senza risposta che inducono i 5 Stelle a chiedere di tornare quanto prima alle urne. Come osserva l’alleato Alfano, in modo politicamente non disinteressato, «mai vista tanta ferocia in un partito: sono finiti a denunce e in teoria se la presidente dell’Antimafia fosse condannata, dovrebbe essere arrestata». Non solo: ieri la denuncia di De Luca contro la presidente dell’Antimafia Rosy Bindi è stata passata per competenza alla Procura di Roma. Con un rischio paradossale: Bindi potrebbe appellarsi all’insindacabilità prevista dall’articolo 68 della Costituzione, e il giudice potrebbe a sua volta passare tutto alla Consulta per conflitto di attribuzione.
Roma Goffredo Bettini, è soddisfatto per l’esito delle Amministrative?
«Direi che siamo andati più che bene per quanto riguarda i numeri delle Regioni conquistate. Ma il voto ci dà un avvertimento da non sottovalutare: resta forte l’astensionismo; le forze più reazionarie conquistano la guida della destra; i 5 Stelle dimostrano di avere un consenso stabile; la lista del Pd fatica e la sinistra radicale non si espande. Si riavverte la pancia conservatrice del Paese».
Quindi non è stata una vittoria?
«Ragionare per schemi è un errore. C’è da dire che è un voto amministrativo: non solo c’erano le liste civiche ma non c’è stato il traino diretto di Renzi. E un anno fa, se alle Europee avemmo un voto sensazionale, il voto per le città fu nettamente inferiore».
Si sta esaurendo la spinta propulsiva del renzismo?
«No, Renzi ha dato un’enorme spinta alla politica italiana, Sta cambiando davvero l’Italia. Ma questo è un Paese complicato con mille feudi e conventicole. È scattata una Santa Alleanza per impedire il cambiamento. I vecchi assetti si muovono in modo trasversale e dicono: che vuole questo ragazzo di provincia, che agisce senza consultarci e senza compromessi? Il fuoco, anche amico, è stato tremendo».
Allude alla minoranza?
«Non si è mai vista una minoranza interna che agisce come un altro partito. Nel passato tutti i leader della sinistra, in nome della ditta, avrebbero asfaltato i dissidenti, se avessero agito in questo modo».
Anche Renzi è accusato di non ascoltare la sinistra.
«Renzi ha deciso tutto in direzione. Struttura che non ha mai funzionato tanto come ora. Io ne sono membro dagli Anni 80. Ci sono stati lunghi confronti e spesso sono stati accolti i contributi della minoranza. Chi non era d’accordo, non solo non ha preso atto, ma si è organizzato per impedire l’attuazione degli orientamenti assunti. Una cosa mai vista».
Perché è successo?
«Penso che si stia tornando ai difetti di questi ultimi 20 anni, a partire dall’ideologismo: prima l’unica “passione” era l’antiberlusconismo, ora è diventato l’antirenzismo. Ho visto con dispiacere che una persona intelligente e amica come Vendola ha detto, con soddisfazione, che il vero senso delle elezioni è stata la sconfitta di Renzi. Non si accorge che il pericolo torna a essere la destra».
È stato più coerente Civati?
«Mi dispiace se ne sia andato, ma se si ritiene incompatibile ha fatto bene. A me piacerebbe che, invece di perdere altri pezzi, si rispettassero le regole condivise».
C’è spazio a sinistra del Pd?
«Purtroppo no. Dico purtroppo perché sarebbe meglio che certe spinte radicali confluissero in una sinistra piuttosto che nell’astensionismo o nel grillismo».
Che fare ora?
«Non mollare sulle riforme. Non sono un Vangelo ma hanno contribuito alla ripresa e colgono un punto decisivo: si rivolgono ai nuovi conflitti, ai disagi e ai dolori delle persone senza rappresentanza».
Renzi non ha sbagliato?
«Il suo vero errore è stato non avere voluto o potuto affrontare la trasformazione del partito. Non regge un partito che ha, come è giusto, un leader che decide e sotto una frantumazione confusa in feudi territoriali, eredità di anni di regime correntizio. Serve alla base della piramide, una forma di democrazia integrale. Bisogna far decidere gli iscritti anche sulle grandi scelte di indirizzo: per esempio, sulla scuola, sulle riforme istituzionali».
Che fare contro i cacicchi?
«Serve un partito che non subisce i processi spontanei ma li dirige. Altrimenti è in balia dei potentati locali »
Come giudica l’iniziativa della Bindi su De Luca?
«Come un intervento inopportuno. Eviterei denunce e controdenunce, perché cosa fatta capo ha. Ma certo si è trattato di un intervento a gamba tesa, prettamente politico».
“Il premier ora cerchi il dialogo a sinistra ma chi è in minoranza deve rispettare le regole”
“Proseguire con le divisioni sarebbe suicida. Governare vuol dire anche cercare soluzioni comuni, se però non arrivano è giusto che decida la maggioranza”intervista di Oriana Liso Repubblica 4.6.15
Hanno perso tutti, dal Pd al M5S. Solo la Lega ha vinto, ma cannibalizzando FI Il centrodestra non è cresciuto
Non sono indispensabili, sono utili. L’importante è però che, dopo, l’impegno sia totale e da parte di tutti
Il populismo è vivo Trova facile consenso ma non può governare né avere l’appoggio dei moderati
MILANO «Per costruire una coalizione coesa e di governo serve un ponte tra sinistra e Pd: è un lavoro non più rinviabile. Prima o poi ci saranno le elezioni politiche, presentarsi divisi sarebbe un suicidio. Per questo credo sia importante e utile a tutti che la sinistra del Pd non parli con voci diverse e interloquisca positivamente con la sinistra responsabile e di governo, non solo in parlamento, ma anche nel Paese. È con questo metodo che in centinaia di Comuni in il centrosinistra è maggioranza e dimostra di saper governare bene».
Sindaco Giuliano Pisapia, chi sono i vincitori e i vinti di queste elezioni?
«Per una parte dell’elettorato, anche di centrosinistra, ha contato certamente lo spirito di rivalsa nei confronti di Renzi. Hanno perso tutti: il Pd oltre 2 milioni di voti rispetto al 2014, il Movimento 5 Stelle ha preso circa il 60 per cento dei voti in meno rispetto alle Politiche. Le liste di sinistra che non si sono presentate all’interno della coalizione di centrosinistra hanno avuto risultati ben al di sotto delle aspettative. L’unica vera vincitrice è la Lega, ma ha cannibalizzato Forza Italia e quindi non ha portato alcun valore aggiunto al centrodestra. Il dato più preoccupante, per tutti, è quello dell’astensionismo ».
L’onda renziana si è infranta
sugli scogli della Liguria?
«In Liguria hanno sbagliato in molti. Sia chi ha insistito su un candidato divisivo, convinto che si può vincere e governare da soli, sia chi, dopo la sconfitta alle primarie, è uscito dal partito - ma non dall’europarlamento – ritenendo che il Pd fosse il nemico da sconfiggere, regalando così la regione alla destra. Neppure De Gasperi governò da solo: politica è anche la fatica del dialogo per trovare soluzioni condivise e quindi più realizzabili. Trovare un accordo nel proprio schieramento sui problemi da risolvere rende più forti, non più deboli».
Il 7-0 non c’è stato, e neanche il 6-1. Colpa degli “impresentabili”? Oppure gli elettori hanno punito il governo per le sue politiche?
«Difficile dire cosa abbia pesato di più. Certo, la riforma della scuola ha portato ad una vera e propria ribellione sul merito e sul metodo dei lavori parlamentari. Bastava un maggiore dialogo e un confronto costruttivo per arrivare a soluzioni condivise ed evitare la guerriglia contro il presidente del Consiglio. Sono convinto che poche e ragionevoli modifiche avrebbero evitato un così forte astensionismo e un voto “contro”, anziché “per”».
Per anni il nemico è stato Silvio Berlusconi. Ora è la Lega?
«Berlusconi aveva un’egemonia tale per cui ogni sua decisione era insindacabile, Non è più così, si è visto. Ora dovranno trovare il modo di far emergere persone di valore: non credo che il centrodestra, se non vuole perdere il voto di tanti suoi elettori possa consegnarsi interamente alla Lega».
Una Lega che ha vinto al grido di “ruspa, ruspa”, i 5 Stelle con gli slogan anticasta: il populismo è ancora vivo?
«Populismo e demagogia sono ancora vivi. Mi pare che i 5 Stelle stiano facendo passi avanti: forse cominciano a capire che criticare è facile, ma governare è difficile, soprattutto in un periodo di crisi. La Lega cerca, invece, di far dimenticare la sua corresponsabilità, nei lunghi anni in cui ha governato, nell’aver portato il Paese a un passo dal default. Cavalca tutte le situazioni più complesse e delicate senza mai proporre soluzioni praticabili. Un consenso facile ma che non ha, e non può avere, l’appoggio dei moderati, neppure di chi in passato ha votato centrodestra».
Milano voterà fra un anno.
Quali insegnamenti arrivano dal voto di domenica?
«A Milano è forte il senso dell’unità, pur in presenza di sensibilità diverse, che per me sono una ricchezza: è naturale e positivo che ci siano momenti di confronti e anche di scontro, ma poi bisogna avere il coraggio e la forza di decidere. E, in democrazia, quando non c’è condivisione, non possono che prevalere le scelte della maggioranza. La sinistra deve smetterla di parlare con cinque voci diverse, bisogna interloquire, ma con paletti e conseguenze certe per chi non si attiene a quelle regole. Solo insieme il centrosinistra vince sia a livello locale che a livello nazionale ».
Passando per le primarie? Sono indispensabili?
«Indispensabili no, utili sì. A Milano, cinque anni, fa furono importantissime, questa volta credo saranno necessarie perché potrebbero esserci più candidati. L’importante è che, dopo, l’impegno sia totale e da parte di tutti. Chi conosce Milano è ben consapevole che il candidato sindaco del centrosinistra non potrà che essere scelto dai milanesi e di questo è convinta tutta la coalizione ».
Chi vincerà le primarie potrà trovarsi di fronte Matteo Salvini.
«Non credo si candiderà, anche perché per Forza Italia sarebbe uno smacco cedere alla Lega, oltre al presidente della Regione, anche il sindaco di Milano, diventerebbe un partito senza futuro. Fare il sindaco è un mestiere bellissimo, ma anche difficilissimo, soprattutto in un periodo di continui tagli agli enti locali: è più facile cambiare la felpa tra un trasmissione e l’altra che risolvere i tanti problemi quotidiani ».
Lei non ci ripenserà? Il 2 giugno tantissimi milanesi, in visita a Palazzo Marino, glielo hanno chiesto.
«È stato commovente, ma a tutti ho risposto: ora tocca a voi».
Cosa farà allora?
«Adesso sono impegnato solo su Milano. A fine mandato, senza un ruolo istituzionale, vorrei contribuire, con l’esperienza di questi anni, a costruire quel ponte nel centrosinistra».
“Abbiamo perso voti anche per le polemiche nel partito ma non paga il conflitto permanente col sindacato”di Carlo Bertini La Stampa 4.6.15
Governatore Rossi, fanno bene i suoi compagni della minoranza a dire che ora Renzi deve scendere a patti sulla riforma del Senato e su tutto?
«No. Renzi in effetti può dire che il rosso del Pd sulla cartina geografica si è esteso e che c’è un avanzamento del partito innegabile. Certo, non è quello delle europee ma non si possono confrontare tornate elettorali diverse con conclusioni spericolate. In ogni caso non credo che il problema siano le riforme».
E quale è stato il problema?
«Da un lato una difficoltà a proseguire lo sfondamento nel centrodestra che si è fermato. Dall’altro una difficoltà di rapporto con ampi settori della sinistra sociale. Terzo, le divisioni non favoriscono, è folle quanto avvenuto in Liguria. Questa sinistra che si divide contro Renzi pensando di raccogliere grande consenso ottenendo un flop, è un dato che troviamo pure in Toscana, dove volevano dimostrare che c’è una sinistra di governo fuori dal Pd. Non è così».
Nella sua regione c’è stata l’astensione più alta di sempre. Molti hanno disertato le urne perché disgustati dalle litigate continue nel Pd?
«Anche per questo, ma non è la sola ragione. C’è una delusione di un certo elettorato di sinistra. Ma si può metter in conto l’assenza di un election day per riallineare in una tornata nazionale tutti i comuni e le regioni, poi il ponte, il fatto che ancora non si possa esprimere un voto telematico. C’è la crisi delle istituzioni certo, ma la politica deve cercare soluzioni che favoriscano la partecipazione».
Jobs act e riforma della scuola hanno fatto perdere voti?
«So che chi governa a volte deve decidere con strappi, ma non si può continuare con un conflitto permanente col sindacato, che va sfidato sul fronte del rinnovamento. Detto questo non credo che il jobs act sia una ferita ai diritti».
Renzi fa bene a ristrutturare da cima a fondo il partito?
«Il Pd ha un leader e bisogna partire dal riconoscimento di questo punto centrale. Non ci si possono essere atteggiamenti di rancore. Il profilo politico-culturale della sinistra si deve ricostruire, ma non può influenzare il quotidiano. Mi auguro che in questo partito si possa stare tutti, ma dico con franchezza che quando viene a mancare il voto su passaggi importanti una questione si apre».
E come si risolve?
«Senza mettere nessuno alla porta, ma c’è una sinistra dentro il Pd malata di politicismo. Quando si parla con gli operai davanti alle fabbriche che chiudono il problema della democrazia che loro si pongono sta a monte del dibattito sulla legge elettorale o sul monocameralismo. È quello di una democrazia fondata sul lavoro. A questa sinistra dico: preoccupiamoci di come Renzi possa suonarle all’Europa per cambiare le politiche di austerità. Ogni legge elettorale può esser migliorata ma dopo quanto successo nel 2013 mi chiedo se l’Italicum non sia un passo avanti. Su questi punti non sono d’accordo con Bersani e non sono diventato renziano».
Lo sa che gira anche il suo nome insieme a quelli di Letta o Speranza, come possibile sfidante di Renzi al congresso 2017?
«Io voglio dare con queste idee un contributo alla politica nazionale, nel mio ruolo di presidente di regione. Non c’è un problema di competizione verso Renzi, ma di sostenerlo con la dignità di posizioni che sono quelle della sinistra, se no a rimetterci sarebbero soprattutto i ceti deboli. Piuttosto che del partito della nazione per la sinistra si pone il problema, come diceva Togliatti, di come ci si fa carico dell’interesse del paese».
Si prepara l’agguato sulla scuola Bersani, Speranza e Gotor riuniti. La Stampa 4.6.15
Palazzo Madama sarà cruciale «Lunedì prossimo hanno fissato la Direzione alle 21: parleremo al popolo della notte», scherza amaro l’ex capogruppo Roberto Speranza. A quattro giorni dalle Regionali, l’applicazione della legge Severino al neopresidente campano De Luca non è l’unico nodo da affrontare in casa Pd. A Napoli, il governatore promette una regione «casa di vetro» e lavora alla sua giunta, sicuro che avrà il tempo di nominarla prima che intervenga la sospensione («anche Cantone ha chiarito che non ci sarà alcun vuoto di potere», sottolinea il deputato Fulvio Bonavitacola, vicino a De Luca e in pole position per assumere l’incarico di suo vice). A Roma, in un clima così teso che volano querele tra compagni di partito nel gelo dei più alti dirigenti, si aspetta di capire, in Direzione, quale sia l’analisi del voto di Renzi e come intenda «ristrutturare» il partito, a partire dal nuovo capogruppo alla Camera (accreditata l’ipotesi Guerini, che potrebbe essere sostituito come vicesegretario da Rosato). Per prepararsi, la minoranza interna si organizza: ieri, al ristorante «Archimede», l’ex segretario Bersani e Speranza si sono visti con alcuni senatori di Area riformista, Miguel Gotor, Federico Fornaro, Carlo Pegorer. Argomento: il ddl sulla scuola, il cui iter è ripreso a Palazzo Madama e che Renzi, ha ripetuto anche ieri al capogruppo Zanda, vorrebbe portare a casa velocemente. Ma che, convengono i commensali, deve cambiare su poteri dei presidi, finanziamenti alle paritarie superiori e assunzione dei precari. «Vogliamo capire se Renzi si sia reso conto che la percezione di una riforma contro il mondo della scuola ci ha fatto pagare un prezzo elettorale», valuta Speranza, «e quindi voglia fare aperture. O se voglia mettere la testa sotto la sabbia». Come sempre, particolarmente delicata diventa la dialettica interna al Pd quando si verifica al Senato, lì dove i numeri del governo sono risicati. Se l’annuncio di ieri di Mario Mauro dell’uscita dei Popolari per l’Italia dalla maggioranza non preoccupa (a Palazzo Madama sono lui e Di Maggio, che da tempo nel governo non consideravano più come voti a favore, mentre la sottosegretaria D’Onghia non abbandona il governo), è vero invece che eventuali insubordinazioni di senatori dem potrebbero creare problemi. Non a caso, Zanda ricorda che i senatori Pd sono il cardine «che garantisce la continuità del governo e della legislatura», da assicurare «senza alcuna riserva». La discussione è fissata a lunedì, «e non sia l’ennesima occasione di propaganda in streaming», attacca Fassina. Già il fatto che sia convocata alle nove di sera fa temere una discussione molto limitata. «Il “progetto” adesso è chiaro. “Gesucristo” Vendola si ripropone di essere lui il padre fondatore del “nuovo soggetto” che contenda voti a Renzi, e si ripromette di restarne poi, comodamente dietro le quinte, il padre nobile e l’eminenza grigia Naturalmente il tutto sulle sue posizioni “ideali” catto-bergoglian-comuniste, che infatti mai nessuno dei suoi partner nell’operazione contesta esplicitamente mai. Perché di solito quelle posizioni sono anche esattamente le sue...»
Massimo Cacciari “Il modello Renzi è un partito gassoso ridotto a una pura corrente d’opinione”
“Il Pd è senza radici nei territori: il premier ha i suoi fedeli e basta. Con risultati peggiori di quelli dei suoi predecessori”intervista di Tommaso Ciriaco Repubblica 2.6.15
«Cos’è il Pd, oggi? È solo il partito di Renzi. Dietro non c’è nient’altro». L’analisi di Massimo Cacciari è spietata. Senza sconti, a partire dalla questione settentrionale: «La Lega rappresenta qualcosa di reale, il Pd nulla. È solo una grande corrente d’opinione renziana».
Professore, qualcuno aveva detto: “Sarà un referendum su Renzi”. Se è davvero così, il premier l’ha perso?
«Ma quale referendum su Renzi? Lui ha fatto campagna elettorale solo il minimo indispensabile. Quindi non è stato un referendum su di lui. Le considerazioni da fare sono altre».
Proviamoci. Partendo naturalmente dal Pd, per molti osservatori il grande sconfitto di questo voto regionale.
«Primo dato: dove non c’è Renzi a correre in prima persona, il Pd è un partito allo stato gassoso. Neanche liquido, proprio gassoso. Non ha una struttura organizzata, manca di un radicamento territoriale. Insomma, non ha niente, In Veneto il risultato della Lega è pazzesco. E in Liguria ha vinto Toti... Non un Berlusconi in forma, ma Toti, non so se mi spiego. Una cosa fantascientifica».
Non è impietoso? In fondo il Pd resta il primo partito.
«Il Pd dovrebbe riflettere. Ha raccolto percentuali forse peggiori di quelle di Fassino, Veltroni, Bersani e compagnia».
Cosa ha sbagliato Renzi?
« Non è che Renzi ha sbagliato qualcosa: questa è la sua cultura. Il partito è una corte di fedeli che lui paracaduta una volta in Veneto, un’altra in Liguria. Questo è Renzi».
E non può fare nulla per cambiare?
«O Renzi cambia strategia, oppure auguriamoci che riesca ancora a vincere da solo...».
Ma ha vinto in cinque regioni.
Questo non conta?
«Dove vince, vincono ras locali come Emiliano e De Luca, che c’entrano con Renzi come c’entro io con la Mongolia esterna. E d’altra parte perché stupirsi? Questo modello di partito è nella filosofia di Renzi, corrisponde alla sua concezione dei partiti e dei sindacati. Ecco, chi semina vento raccoglie tempesta».
Eppure per molti i dem rappresentano l’unico partito nazionale. Ancora senza alternative. Condivide?
« Per ragioni storiche Renzi si limita a convogliare su di sé una grande corrente d’opinione pubblica. Ci sono industriali, giornali e persone ragionevoli che dicono: che devo fare, c’è Renzi, chi c... voto altrimenti? Ma è un ragionamento di bassissima real politik».
Almeno nelle Regioni rosse ha vinto.
«Dove vince, vince con il cavallo di Caligola perché dall’altra parte non c’era nulla. Ma la questione settentrionale riesplode prepotentemente, con la Lega che in Toscana è al 16% e sopra il 10% nelle altre regioni centrali. La prospettiva è drammatica. E i grillini tengono bene, rispetto alle ultime tornate».
Nel suo Veneto la Lega ha raggiunto vette stratosferiche e
il Pd è precipitato. Sorpreso?
« Il dato del Veneto è epocale. Strepitoso. Con la somma dei voti della Lega, della lista Zaia e di Tosi, l’area leghista è al 60%. E il Pd, invece? Ricordo che il Pci non era mai andato così male. Anche quando aveva di fronte la grande balena bianca veneta, quella di Rumor, raccoglieva il 15 o 16%. E qualitativamente non c’era paragone, rappresentava settori importanti della classe operaia. Oggi invece c’è solo un generico voto d’opinione che non rappresenta nulla. C’è gente come me che vota Pd solo perché lo vota da una vita».
Qual è la ricetta vincente del Carroccio?
«La Lega, come partito, ha una vera organizzazione. Ha perfino fatto dimenticare che Zaia era il vice di Galan, superando la catastrofe di quella classe dirigente. E Renzi? Neanche lui ragiona di autonomia e federalismo, temi sollevati e poi subito messi da parte da Bersani, D’Alema, Fassino. E d’altra parte è la vecchia classe dirigente ad aver prodotto Renzi».
Professore, nel Pd sarà scissione? E il governo rischia?
«Guardi, la sinistra non c’è. La lista Tsipras è sparita. Se Pastorino avesse preso il 20%, allora sarebbe stato un altro discorso, con la prospettiva che ipotizzava. Ma così no, cosa vuole che possa succedere? Assolutamente nulla».
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