Scattata nel 1986, una foto di Gianni Giansanti mostra Primo Levi al suo tavolo di lavoro. Con la macchina da scrivere elettrica solidamente posizionata davanti a lui, e poco distante il computer Macintosh – intrigante compagno di gioco, oltreché di «videoscrittura» – che ebbe una parte non piccola nell’ultimo scorcio della sua vita. Il ripiano è ordinato. Quasi libero di carte, occupato quasi soltanto dalla Olivetti e dal Mac. È una scrivania ingombra soltanto dell’essenziale.
domenica 21 giugno 2015
Su un inedito di Primo Levi
Un appunto della fine del 1976, la scaletta per una conferenza torinese, fotografa con eccezionale potenza di sintesi un momento rilevante nella vita dello scrittoredi Sergio Luzzatto Il Sole Domenica 21.6.15
Scattata nel 1986, una foto di Gianni Giansanti mostra Primo Levi al suo tavolo di lavoro. Con la macchina da scrivere elettrica solidamente posizionata davanti a lui, e poco distante il computer Macintosh – intrigante compagno di gioco, oltreché di «videoscrittura» – che ebbe una parte non piccola nell’ultimo scorcio della sua vita. Il ripiano è ordinato. Quasi libero di carte, occupato quasi soltanto dalla Olivetti e dal Mac. È una scrivania ingombra soltanto dell’essenziale.
Scattata nel 1986, una foto di Gianni Giansanti mostra Primo Levi al suo tavolo di lavoro. Con la macchina da scrivere elettrica solidamente posizionata davanti a lui, e poco distante il computer Macintosh – intrigante compagno di gioco, oltreché di «videoscrittura» – che ebbe una parte non piccola nell’ultimo scorcio della sua vita. Il ripiano è ordinato. Quasi libero di carte, occupato quasi soltanto dalla Olivetti e dal Mac. È una scrivania ingombra soltanto dell’essenziale.
Per ovvi motivi, dal 2013 in qua non è stato possibile all’interprete
più profondo dell’opera leviana, Marco Belpoliti, presentarsi a casa del
chimico-scrittore insieme con la fotografa Giovanna Silva: per cogliere
anche della scrivania di Levi una di quelle immagini, così parlanti,
che sono andate componendo la serie Tavoli sul sito di Doppiozero. Una
foto “aerea” del tavolo di Primo Levi, quella ci mancherà per sempre.
Tuttavia, è dato di cogliere con altri mezzi un’istantanea della
scrivania nell’appartamento al terzo piano di corso Re Umberto 75,
Torino. Un’istantanea metaforicamente scattata in un momento preciso
quanto rilevante della vita intellettuale di Levi: in un giorno di fine
ottobre o di inizio novembre 1976.
Sulla scrivania di Levi, quel giorno, c’è un foglio di carta. Un singolo
foglio. Non ancora del formato A4 che imperversa oggi in Europa, ma del
formato US Letter allora comune anche da noi (il formato, potremmo
dire, della nostra vita di prima, ante-computer). È un foglio di carta
leggera (Levi ne ha forse voluto trarre una copia carbone), ed è stato
infilato frettolosamente nella macchina da scrivere: al punto da
riceverne una piega che provocherà – nel dattiloscritto finito – un
sottile spazio centrale verticale e bianco. Una specie di taglio pieno,
come sul negativo di una tela di Lucio Fontana. Ma una volta infilato il
foglio nel rullo della Olivetti, non si direbbe che Levi abbia avuto
fretta di toglierlo. Al contrario, si direbbe che il chimico-scrittore
abbia voluto compiervi una delicata operazione di laboratorio mentale.
Insieme, una concentrazione e una distillazione di elementi.
Il foglio – rimasto inedito sino a oggi – porta il titolo Primo Levi -
Lo scrittore non scrittore. Si tratta dunque, secondo ogni evidenza,
della scaletta della conferenza che Levi si apprestava a tenere, il
venerdì 19 novembre 1976, al teatro Carignano di Torino. Il contesto era
quello dei Venerdì letterari organizzati dall’Associazione culturale
italiana di Irma Antonetto: un autentico must, entro l’ultravivace
paesaggio culturale torinese dell’epoca. E nell’archivio Antonetto il
foglio dattiloscritto da Levi ha lungamente riposato, salvo riemergere
oggi attraverso il catalogo di un antiquario specializzato in autografi e
manoscritti.
Nel 1976, il cinquasettenne Primo Levi sta vivendo una svolta
esistenziale. Da un anno ha lasciato il mestiere di chimico per
dedicarsi a tempo pieno al mestiere di scrittore. L’anno stesso del
pensionamento è divenuto un collaboratore fisso de «La Stampa», e ha
pubblicato Il sistema periodico: qualcosa come la sua autobiografia,
nell’originalissima forma di un «ex-voto» letterario alla chimica (così
Levi scrive sul foglio inedito, e così dirà nella conferenza del Venerdì
letterario), la scienza che ad Auschwitz gli aveva salvato la vita. Al
contempo, il pensionamento facilita l’esercizio di quanto Levi definisce
– in un testo datato proprio novembre 1976, l’appendice all’edizione
scolastica di Se questo è un uomo – il suo terzo mestiere: «quello di
presentatore e di commentatore di me stesso».
Pubblicato postumo nel 1992 e ripreso nelle opere complete, il testo
della conferenza di Levi al teatro Carignano è meno noto di un’altra sua
dichiarazione di poetica quasi esattamente coeva: Dello scrivere
oscuro, elzeviro uscito su «La Stampa» l’11 dicembre di quel 1976 e poi
nella raccolta L’altrui mestiere. I temi sono i medesimi. Si tratta
delle qualità che a Levi paiono necessarie per tenere insieme i tre
mestieri della sua vita. La consuetudine del chimico industriale, in
fabbrica, di fare asciuttamente rapporto ogni fine settimana. La
responsabilità dello scrittore di scrivere in modo chiaro e accessibile a
tutti. La capacità del presentatore di se stesso di riuscire – in
ultima istanza – un testimone credibile della sua esperienza e del suo
tempo.
Altrettanti temi familiari agli odierni lettori e critici di Levi. Ma
temi che la scaletta dell’autunno 1976 declina (giocoforza, trattandosi
di una scaletta) in modo particolarmente icastico: con un’economia di
parola e un’essenzialità di stile ancora più spinte di quelle cui Levi
ci ha normalmente abituati. Ad esempio, riguardo alle premesse
biografiche di Se questo è un uomo, Levi appunta: «Via anomala che mi ha
condotto allo scrivere; scrittura come testimonianza e come liberazione
personale, quindi legata all’argomento e lontana dalla
sperimentazione». Riguardo alla cifra narrativa de La tregua:
«“Cortesia” dello scrittore verso il lettore: deve rispettarlo, non
deluderlo».
La scaletta comprende anche un elenco delle otto «domande tipiche» che
Levi era andato raccogliendo fra i suoi lettori più giovani: tra le
scolaresche di tutta Italia con le quali – dagli anni Sessanta in poi –
aveva evocato e commentato, infaticabilmente, la sua esperienza del
campo di sterminio. Sono le medesime domande per cui Levi ha preparato,
nel corso stesso del 1976, le risposte di quella specie di
autointervista che uscirà presto come appendice per l’edizione
scolastica di Se questo è un uomo. Nella scaletta, Levi riprende le otto
domande in una forma contratta, ma non perciò meno suggestiva: «– Li ha
perdonati? – I ted. sapevano? – Perché non è fuggito? – Perché non
parla dei Lager russi? – Quali personaggi ha rivisto? – Perché l’odio
nazista? – Chi sarebbe Lei oggi se...?».
Ai fini di una lettura filologica dell’inedito, la terza delle otto
domande («Perché non è fuggito?») è quella che solleva le curiosità
maggiori. In effetti, in una prima versione dell’autointervista, che
Levi aveva pubblicato su «La Stampa» del 28 febbraio 1976, la domanda
risultava formulata così: «C’erano prigionieri che fuggivano dai lager?
Lei perché non è fuggito?». Mentre nell’appendice dell’edizione
scolastica di Se questo è un uomo, Levi riformula totalmente il secondo
elemento dell’interrogazione: «C’erano prigionieri che fuggivano dai
Lager? Come mai non sono avvenute ribellioni di massa?». Da una versione
all’altra dell’autointervista, si perde quindi per strada ciò che più
direttamente, nella domanda, interpellava di persona Primo Levi: perché
lui non era fuggito da Auschwitz?
Sarebbe improprio sopravvalutare – in questo piccolo esercizio di
variantistica – il venir meno di tale frammento, che facilmente può
spiegarsi con mere ragioni di opportunità redazionale o didattica.
Eppure, siamo forse in presenza di un sintomo di quella che maturerà,
nel tempo, come la saturazione di Levi a fronte di una domanda (scriverà
nel 1986) «formulata con sempre maggiore insistenza, e con un sempre
meno celato accento di accusa». «Perché non siete fuggiti? Perché non vi
siete ribellati?», suonerà il ritorno della domanda ne I sommersi e i
salvati. Con un passaggio di persona verbale – qui, dal singolare al
plurale – che rappresenta, in Levi, una spia immancabilmente
significativa. E con un stato d’animo dell’interrogato sempre più simile
al disagio di chi proprio non riesce a spiegarsi, o allo sconforto di
chi si sente profondamente incompreso.
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