mercoledì 10 giugno 2015

Una storia della narrativa spy inglese


Agenti segreti. I maestri della spy story inglese
Paolo Bertinetti: Agenti Segreti, i maestri della spy story inglese, Edizioni dell’asino, pp. 204, € 12

Risvolto

I poteri combattono a colpi di maschere e di pugnali, le guerre si combattono anche con le spie. Grandi romanzieri inglesi, da Conrad a Greene, da Ambler a le Carrè, dice Bertinetti, le hanno raccontate meglio di tutti e dal di dentro. Questo saggio – scritto da chi insegna da tanti anni letteratura inglese nell’accademia torinese e a cui la cultura italiana deve fondamentali perlustrazioni della storia del teatro da Shakespeare a Beckett e a Pinter, ma anche dell’opera di Graham Greene di cui è tra i massimi cultori in assoluto – percorre la storia della spy story inglese con una competenza e una chiarezza esemplari.


L’agente segreto di Sua Maestà Due secoli di lotta contro il Male
Da Smiley a 007: nella sua storia della spy story inglesePaolo Bertinetti ripercorre la saga dei gentiluomini “con licenza di uccidere” 

Claudio Gallo La Stampa 10 5 2015
Un misterioso profeta musulmano, sobillato dai turchi e dai loro alleati, incendia il Medio Oriente con proclami di guerra santa contro l’occidente corrotto. No, non si fa chiamare Califfo ma Greenmantle, mantello verde, oppure lo Smeraldo, il gioiello del colore sacro all’Islam. A sconfiggerlo e a smascherare il complotto non saranno distratti bombardamenti aerei ma l’audacia di un gentleman inglese, Richard Hannay. Siamo nel 1916 e i cattivi sono i tedeschi, alleati della Sublime Porta: non è esattamente un eterno ritorno ma il fatto che la vita imiti l’arte più di quanto l’arte imiti la vita sembra confermato. 
Hannay infatti è l’eroe delle spy story di John Buchan che l’anno prima aveva scritto I trentanove scalini, destinato a diventare nel 1939 un memorabile film di Hitchcock. Il regista inglese amava Greenmantle più ancora, pensava a una pellicola con Cary Grant e Ingrid Bergman, ma il progetto sfumò. Vedere il presente rispecchiato dal passato, pur immaginario, non è così insolito: all’indomani dell’attacco terroristico del 7 luglio 2005 a Londra, la Bbc cancellò l’adattamento radiofonico di Greenmantle che doveva andare in onda in quei giorni. 
Oggi non ha più senso rinchiudere il romanzo di spionaggio dentro il recinto del genere: lo dimostra Paolo Bertinetti, docente di Letteratura Inglese all’Università di Torino, nel suo Agenti Segreti, i maestri della spy story inglese (Edizioni dell’asino, pp. 204, € 12), storia letteraria che non si limita a squadernare trame e personaggi ma allarga il compasso all’indagine psicologica e sociale in cui i grandi autori, come Eric Ambler, Len Deighton, Graham Greene e John Le Carré eccellono.
La trasformazione dell’eroe della spy story va di pari passo ai mutamenti della società. In un mondo di spie, le spie inglesi si chiamano agenti segreti, perché spiano dalla parte giusta. Non fu facile all’inizio, nell’Ottocento resisteva la convinzione che la spia non fosse un mestiere presentabile. Per questo i primi personaggi del genere sono di solito dei distinti signori, magnifici dilettanti. Duckworth Drew, protagonista di Secrets of the Foreign Office di William Le Queux (1903) rassicura l’ufficiale della Marina Italiana con cui collabora svelando di essere un gentiluomo. Gli autori che fissano questa tipizzazione sono di solito conservatori, spesso impegnati nella propaganda politica per difendere la gerarchia del mondo socialmente immutabile ritratto nelle loro opere.
La progressiva distillazione dell’immagine dell’agente segreto, moltiplicata dal fascino del cinema, produrrà James Bond. Come un maestro gnostico in smoking, 007 non è toccato dal male compiuto, perché completamente identificato con l’archetipo del bene: i cattivi sono sempre gli altri. Non subisce nemmeno i limiti della materia, come mostrano le sue gesta sempre più mirabolanti, rese possibili ormai soltanto dalla tecnologia digitale. Fin dal debutto del genere, però, l’eroe ha uno sdoppiamento, di cui il celebre personaggio di Fleming è solo un estremo. Da L’agente segreto di Conrad (1907) a Ashenden di Maugham (1928) prendono forma personaggi assai poco romantici, funzionari scettici anche troppo umani. All’estremo opposto di Bond nasce l’antieroe. Bertinetti cita Maugham, che come molti letterati fu davvero una spia: «Il lavoro di un agente dei servizi segreti (…) è nel complesso monotono e buona parte di esso è di una totale inutilità». L’antieroe, a differenza del suo contrario, guarderà sempre con fastidio e ironia all’Inghilterra iper-classista dei club e delle public school, le scuole private.
Su questa strada s’incontra un gigante come Graham Greene che da Missione Confidenziale (1939) a Il fattore umano (1978) racconta la disperazione e la solitudine dell’agente segreto, attaccato a un dovere senza contenuti, sempre alla ricerca di una lealtà personale, di un compromesso che assomigli alla giustizia. Nel suo Il nostro agente all’Avana (1958) un amico consiglia al protagonista Wormold di tenersi i soldi dei servizi segreti senza passare informazioni utili, «perché quelli non si meritano la verità». «Quelli chi?», fa lui. «I re, i presidenti, quelli che detengono il potere», risponde l’altro.
Procede in questa direzione John Le Carré, definito da Ian McEwan «il più importante» scrittore inglese dell’inizio secolo. Il suo Smiley, il tenace uomo senza qualità che smaschera la talpa russa nella direzione dei servizi segreti britannici, è un esempio di disincanto e attaccamento al dovere, di compassione e mancanza di scrupoli insieme. Nel mondo di Le Carrè non ci sono i buoni: bisogna combattere i cattivi sapendo di non poter contare sull’aiuto dei nostri. Per Le Carré, che si chiama David Cornwell e ha fatto anche lui la spia, il mondo vero va così.
Con una scrittura accattivante, Bertinetti conduce il lettore al di là degli steccati del genere, dosando attentamente il pedale dell’intrattenimento. 


Un misterioso profeta musulmano, sobillato dai turchi e dai loro alleati, incendia il Medio Oriente con proclami di guerra santa contro l’occidente corrotto. No, non si fa chiamare Califfo ma Greenmantle, mantello verde, oppure lo Smeraldo, il gioiello del colore sacro all’Islam. A sconfiggerlo e a smascherare il complotto non saranno distratti bombardamenti aerei ma l’audacia di un gentleman inglese, Richard Hannay. Siamo nel 1916 e i cattivi sono i tedeschi, alleati della Sublime Porta: non è esattamente un eterno ritorno ma il fatto che la vita imiti l’arte più di quanto l’arte imiti la vita sembra confermato. 
Hannay infatti è l’eroe delle spy story di John Buchan che l’anno prima aveva scritto I trentanove scalini, destinato a diventare nel 1939 un memorabile film di Hitchcock. Il regista inglese amava Greenmantle più ancora, pensava a una pellicola con Cary Grant e Ingrid Bergman, ma il progetto sfumò. Vedere il presente rispecchiato dal passato, pur immaginario, non è così insolito: all’indomani dell’attacco terroristico del 7 luglio 2005 a Londra, la Bbc cancellò l’adattamento radiofonico di Greenmantle che doveva andare in onda in quei giorni. 
Oggi non ha più senso rinchiudere il romanzo di spionaggio dentro il recinto del genere: lo dimostra Paolo Bertinetti, docente di Letteratura Inglese all’Università di Torino, nel suo Agenti Segreti, i maestri della spy story inglese (Edizioni dell’asino, pp. 204, € 12), storia letteraria che non si limita a squadernare trame e personaggi ma allarga il compasso all’indagine psicologica e sociale in cui i grandi autori, come Eric Ambler, Len Deighton, Graham Greene e John Le Carré eccellono.
La trasformazione dell’eroe della spy story va di pari passo ai mutamenti della società. In un mondo di spie, le spie inglesi si chiamano agenti segreti, perché spiano dalla parte giusta. Non fu facile all’inizio, nell’Ottocento resisteva la convinzione che la spia non fosse un mestiere presentabile. Per questo i primi personaggi del genere sono di solito dei distinti signori, magnifici dilettanti. Duckworth Drew, protagonista di Secrets of the Foreign Office di William Le Queux (1903) rassicura l’ufficiale della Marina Italiana con cui collabora svelando di essere un gentiluomo. Gli autori che fissano questa tipizzazione sono di solito conservatori, spesso impegnati nella propaganda politica per difendere la gerarchia del mondo socialmente immutabile ritratto nelle loro opere.
La progressiva distillazione dell’immagine dell’agente segreto, moltiplicata dal fascino del cinema, produrrà James Bond. Come un maestro gnostico in smoking, 007 non è toccato dal male compiuto, perché completamente identificato con l’archetipo del bene: i cattivi sono sempre gli altri. Non subisce nemmeno i limiti della materia, come mostrano le sue gesta sempre più mirabolanti, rese possibili ormai soltanto dalla tecnologia digitale. Fin dal debutto del genere, però, l’eroe ha uno sdoppiamento, di cui il celebre personaggio di Fleming è solo un estremo. Da L’agente segreto di Conrad (1907) a Ashenden di Maugham (1928) prendono forma personaggi assai poco romantici, funzionari scettici anche troppo umani. All’estremo opposto di Bond nasce l’antieroe. Bertinetti cita Maugham, che come molti letterati fu davvero una spia: «Il lavoro di un agente dei servizi segreti (…) è nel complesso monotono e buona parte di esso è di una totale inutilità». L’antieroe, a differenza del suo contrario, guarderà sempre con fastidio e ironia all’Inghilterra iper-classista dei club e delle public school, le scuole private.
Su questa strada s’incontra un gigante come Graham Greene che da Missione Confidenziale (1939) a Il fattore umano (1978) racconta la disperazione e la solitudine dell’agente segreto, attaccato a un dovere senza contenuti, sempre alla ricerca di una lealtà personale, di un compromesso che assomigli alla giustizia. Nel suo Il nostro agente all’Avana (1958) un amico consiglia al protagonista Wormold di tenersi i soldi dei servizi segreti senza passare informazioni utili, «perché quelli non si meritano la verità». «Quelli chi?», fa lui. «I re, i presidenti, quelli che detengono il potere», risponde l’altro.
Procede in questa direzione John Le Carré, definito da Ian McEwan «il più importante» scrittore inglese dell’inizio secolo. Il suo Smiley, il tenace uomo senza qualità che smaschera la talpa russa nella direzione dei servizi segreti britannici, è un esempio di disincanto e attaccamento al dovere, di compassione e mancanza di scrupoli insieme. Nel mondo di Le Carrè non ci sono i buoni: bisogna combattere i cattivi sapendo di non poter contare sull’aiuto dei nostri. Per Le Carré, che si chiama David Cornwell e ha fatto anche lui la spia, il mondo vero va così.
Con una scrittura accattivante, Bertinetti conduce il lettore al di là degli steccati del genere, dosando attentamente il pedale dell’intrattenimento.Un misterioso profeta musulmano, sobillato dai turchi e dai loro alleati, incendia il Medio Oriente con proclami di guerra santa contro l’occidente corrotto. No, non si fa chiamare Califfo ma Greenmantle, mantello verde, oppure lo Smeraldo, il gioiello del colore sacro all’Islam. A sconfiggerlo e a smascherare il complotto non saranno distratti bombardamenti aerei ma l’audacia di un gentleman inglese, Richard Hannay. Siamo nel 1916 e i cattivi sono i tedeschi, alleati della Sublime Porta: non è esattamente un eterno ritorno ma il fatto che la vita imiti l’arte più di quanto l’arte imiti la vita sembra confermato. 
Hannay infatti è l’eroe delle spy story di John Buchan che l’anno prima aveva scritto I trentanove scalini, destinato a diventare nel 1939 un memorabile film di Hitchcock. Il regista inglese amava Greenmantle più ancora, pensava a una pellicola con Cary Grant e Ingrid Bergman, ma il progetto sfumò. Vedere il presente rispecchiato dal passato, pur immaginario, non è così insolito: all’indomani dell’attacco terroristico del 7

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