giovedì 24 settembre 2015
Homo Naledi
L'importante scoperta di Rising Star, Sudafrica, di uno scheletro di maschio adulto della nuova specie «naledi» apre una serie di interrogativi. Eccoli
Guido Barbujani DOmenicale 13 9 2015
Su un punto sono tutti d’accordo: la scoperta di un’enorme quantità di resti fossili nelle grotte di Rising Star in Sudafrica cambierà profondamente la nostra comprensione della storia dell’umanità. Su come esattamente cambierà, questa comprensione, i pareri sono vaghi o discordi, e lo resteranno ancora per un pezzo.
I fatti sono noti, ma vale la pena di riassumerli. Rising Star è un complesso di grotte vicino a Johannesburg, in una regione così ricca di fossili umani da essere battezzata dall’Unesco Culla dell’umanità, nientemeno. Nella camera di Dinaledi, trenta metri sotto la superficie, fra l’ottobre 2013 e l’aprile dell’anno seguente, i paleontologi (tutti paleontologi smilzi: l’accesso alla camera è strettissimo) hanno ritrovato 1724 resti ossei; ne rimangono sicuramente da scavare molti altri, forse moltissimi. L’esplorazione della camera di Dinaledi è stata seguita fin dall’inizio con grande attenzione sui social media e raccontata passo passo dal National Geographic, che ha finanziato gli scavi insieme all’Università di Witwatersrand. Una sessantina di ricercatori, coordinati da Lee Berger, hanno rimesso insieme i pezzi, attribuendo le ossa a quindici individui: adulti, adolescenti e bambini. Questa settimana hanno pubblicato il loro lavoro sulla rivista eLife, proponendo che i resti appartengano a una nuova specie del genere Homo, Homo naledi.
Genere Homo: si tratta quindi di una specie umana finora sconosciuta, e su questo c’è poco da discutere. Di certi ominidi possediamo solo frammenti del cranio, da cui è ovviamente difficilissimo capire se si tratti di specie a parte, o magari di individui un po’ strani appartenenti a specie già note. Qui, tutto il contrario: abbiamo lo scheletro quasi completo di un maschio adulto, DH-1 (ricordiamoci questo nome, si appresta a offuscare la fama dell’australopiteca Lucy). Ma soprattutto, fra DH-1 e gli altri quattordici individui è stato riportato alla luce tutto ciò che conta: cranio e bacino; una mano e un piede praticamente intatti; femori, tibie e tanti denti. Una quantità di dati impressionante, su cui si lavorerà per anni: Lee Berger ha dichiarato che Homo naledi è la forma umana estinta di cui sappiamo di più, e non è una sbruffonata. Intanto, queste ossa ci permettono già di dire che Homo naledi aveva la statura e la forma corporea di un piccolo umano attuale, diciamo di un pigmeo magro, ma un volume cranico di appena 500 centimetri cubi. Come fosse il suo cervello non lo sa nessuno, ma era grande come quello di un piccolo scimpanzé, cioè poco più di un terzo dei cervelli moderni.
Siamo insomma alle prese con una strana creatura: un prodotto dell’evoluzione che ci spiazza, perché la forma generale del suo corpo ricorda molto la nostra, ma il suo cranio no; una creatura i cui molari sono piccoli e con cinque cuspidi, come i nostri, ma i cui premolari hanno radici molto primitive; con una mano che ricorda la nostra, ma le cui falangi sono curve come quelle delle scimmie che vivono sugli alberi; con gambe che in alto ricordano quelle degli australopiteci, però sembrano sempre più moderne man mano che si va giù, e terminano con un piede quasi come il nostro. «Se trovavamo solo il piede, avremmo detto che era di qualcuno morto di recente» ha dichiarato a National Geographic Steve Churchill, paleontologo americano. Insomma, Homo naledi sembra un bizzarro mosaico: ha qualcosa in comune con gli australopiteci, qualcosa con altre specie di Homo, e altre caratteristiche mai viste prima in nessuna specie ominide.
Era davvero umano? Non so se si possa rispondere, dipende da cosa vuol dire umano. Darwin pensava che fossimo diventati umani nel momento in cui siamo passati alla stazione eretta, il nostro cranio si è espanso e abbiamo cominciato a produrre strumenti per mezzo di altri strumenti. Bipedalismo, encefalizzazione, abilità di progettare attrezzi: tre caratteristiche che scimpanzè e gorilla non hanno, e che secondo Darwin avremmo acquisito simultaneamente. Darwin era fenomenale nel ragionamento, ma di fossili ne conosceva solo uno, l’uomo di Neandertal. Molta acqua è passata sotto i ponti da allora, e abbiamo capito che si è trattato di tre eventi diversi e indipendenti, separati nel tempo da centinaia di migliaia di anni. Il più antico appartenente al genere Homo è Homo habilis, documentato in Africa a partire da più di due milioni di anni fa. Non è proprio certo che si trattasse di un’unica specie: i suoi resti sono frammentari ed eterogenei; ma li ritroviamo insieme ad attrezzi relativamente sofisticati, che queste creature erano dunque in grado di progettare e realizzare; e così, un po’ arbitrariamente, facciamo cominciare da loro la storia dell’uomo propriamente detto. Se Homo naledi fosse un artigiano altrettanto bravo non lo sappiamo: nella grotta non sono stati ritrovati utensili. In quella grotta, nella camera di Dinaledi, non sappiamo neanche come ci sia finito, in così vasta compagnia. Richiamandosi all’autorità di Sherlock Holmes («Quando hai eliminato l’impossibile, quello che rimane, per quanto improbabile, dev’essere la verità») Berger ha parlato di sepoltura collettiva, ma ci credono in pochi: il culto dei morti presuppone come minimo un’idea dell’aldilà, e per quanto ne sappiamo le sepolture compaiono solo molto di recente, poche decine di migliaia di anni fa. Ci sarà stata un’altra entrata che non abbiamo ancora trovato, suggerisce un grande paleontologo, Richard Leakey.
Ma il dubbio principale non è nemmeno questo: riguarda piuttosto quando, da quella o da un’altra entrata, sia passato Homo naledi. Per rispondere, non servono le tecniche di datazione più comuni: Homo naledi è troppo vecchio per il carbonio 14, e non è immerso nelle ceneri vulcaniche che permetterebbero di usare metodi più potenti, come quello del potassio-argon, che ha permesso di dare un’età a Lucy. In un modo o nell’altro, però, Berger e i suoi hanno trovato qualcosa di straordinario. Se Homo naledi fosse molto antico, diciamo sui tre milioni di anni fa, avrebbero scoperto una specie che sta alla radice del nostro albero evolutivo, la cui parentela con noi sarebbe molto interessante da stabilire. Se invece fosse più recente, diciamo sul mezzo milione di anni fa, vorrebbe dire che quando i nostri antenati africani erano già piuttosto simili a noi e magari cominciavano a pensare se farsi una passeggiatina fuori dal continente, viveva insieme a loro gente molto diversa, dal cervello molto più piccolo. Tante domande, poche risposte: abbiamo ancora molto da imparare.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
L’antenato tra passato e presente
Scoperte. In Sudafrica, il paleontologo Lee R. Berger ha trovato molti reperti che ricostruiscono l'identità di un ominide prima sconosciuto. Ha lavorato con un'equipe internazionale e ha messo a disposizione di tutti i risultati della sua ricerca
Andrea Capocci il Manifesto 11.9.2015, 0:06
Un nuovo homo, o un antichissimo ominide: questo il quesito a cui dovrà rispondere l’intera comunità dei paleoantropologi dopo la giornata di ieri, decisamente storica. Lee Berger dell’università sudafricana del Witwatersrand e i suoi collaboratori hanno pubblicato i due primi articoli che descrivono il ritrovamento di circa 1500 frammenti ossei in una grotta sudafricana, la «Dinaledi chamber». È la stessa zona denominata «culla dell’umanità» dall’Unesco per l’impressionante quantità di ritrovamenti risalenti fino a tre milioni di anni fa.
Secondo le analisi dei paleontologi, le ossa appartengono a una quindicina di individui di età diverse. Homo Naledi, com’è stato battezzato dal suo scopritore, ha caratteristiche ibride: gli adulti dovevano avere un cervello di dimensioni ridotte ma un’altezza ragguardevole (relativamente ad altri antenati) di un metro e mezzo, con un’andatura bipede ma dita adatte anche ad arrampicarsi sugli alberi. Manca ancora un’informazione fondamentale: la datazione dei reperti, resa difficoltosa dalla contaminazione tra questi stessi e il terreno.
Oltre a impedire una collocazione temporale, il contesto del ritrovamento aggiunge ulteriori elementi di mistero. La grotta è quasi irraggiungibile ed estremamente buia. È da escludersi che i corpi ci siano finiti per caso, che l’abbiano occupata stabilmente o esplorata da vivi. È improbabile che una catastrofe improvvisa abbia sorpreso il gruppo, che non sembra essere giunto nella grotta contemporaneamente. Fossili di altre specie sono quasi del tutto assenti: dunque non è stato un predatore a portare i corpi nella grotta. L’ipotesi più accreditata rimane allora quella della sepoltura.
Ma tombe di questo tipo sono state osservate finora solo in ritrovamenti relativamente recenti (circa quattrocentomila anni fa) in antenati morfologicamente e cognitivamente più simili a noi. Inoltre, per seppellire i morti in quella caverna occorre sapersi muovere nel buio completo, forse aiutandosi con delle torce. E anche l’uso del fuoco, secondo le conoscenze attuali, non era alla portata dei nostri avi più lontani. In alternativa, potrebbe trattarsi di una specie umana molto più recente, rimasta isolata e sopravvissuta in condizioni evolutive peculiari, tanto da mantenere tratti morfologici risalenti agli australopitechi (quelli di Lucy, per capirsi, vissuta tre milioni di anni fa) e caratteristiche culturali più moderne. È uno scenario improbabile ma già osservato per il controverso Homo floresiensis, ritrovato in Indonesia e risalente a dieci-ventimila anni fa, con caratteristiche diversissime dall’Homo Sapiens con cui ha convissuto a lungo. Ma se la datazione andasse al di là del milione di anni (qualcuno già parla di due o tre) sarà difficile trovare un posto nel nostro albero genealogico per Homo Naledi senza scuotere la paleoantropologia dalle fondamenta.
Il campo, in realtà, è in movimento già da qualche tempo. È in crisi l’idea che le nostre caratteristiche specifiche (andatura eretta, cervello di grandi dimensioni, sviluppo del linguaggio) siano comparse una volta per tutte in una sola specie: piuttosto, secondo i ritrovamenti recenti, si sono manifestate in varie combinazioni nei diversi «rami» della nostra evoluzione che, dunque, ha visto specie «cugine» convivere per lunghi tratti. Il ritrovamento descritto ieri è destinato ad arricchire il mosaico e a generare una messe di nuove teorie. Non solo per la quantità dei reperti (di Homo Naledi conosciamo l’intera anatomia, mentre di altre specie abbiamo solo frammenti di mandibola), ma anche per l’attitudine insolita dello scopritore.
Berger, quando due anni fa intuì che la grotta di Dinaledi nascondeva un tesoro scientifico, aveva chiamato l’intera comunità a collaborare, condividendo informazioni e dati ancor prima di pubblicare i risultati del ritrovamento. Oggi, a scoperta avvenuta, gli articoli di Berger sono pubblicati su elifescience.org, una rivista scientifica ad accesso gratuito. E oltre agli articoli scientifici, Berger ha messo a disposizione dell’intera comunità le ricostruzioni tridimensionali e digitali dei reperti sull’archivio online morphosource.org.
Si tratta di una strategia innovativa: in genere, è molto difficile (e costoso) osservare da vicino i reperti rinvenuti da gruppi di ricerca rivali. La scommessa di Berger è nobile ma rischiosa, perché avendo a disposizione i dati sarà più facile mettere in dubbio le sue scoperte. Eppure, addio copyright o brevetti, la scienza oggi si può fare anche così. È l’evoluzione, bellezza.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento