Una rassegna di articoli che, soprattutto da sinistra e tranne alcune eccezioni, stentano a fare i conti con la realtà e si rifugiano nella dimensione dell'utopia e dell'eresia.
E’ morto Pietro Ingrao
Sergio Cararo Contropiano
La morte di Ingrao: tra stucchevole iconografia e problemi irrisolti
Martedì, 29 Settembre 2015 08:30 Michele Franco Contropiano
NON VOGLIAMO MORIRE INGRAIANISergio Cararo Editoriale di Radio Città Aperta 12 Maggio 2004
Le dichiarazioni su Cuba rilasciate da Pietro Ingrao al Corriere della Sera, dichiarazioni piuttosto banali, hanno dissipato in poche battute le parole per cui avevamo guardato con rispetto a Pietro Ingrao lo scorso anno. Commentando l’invasione dell’Iraq, Ingrao aveva detto che “la resistenza contro l’occupazione è la prima condizione per la pace”. Parole chiare, una volta tanto, che avevano avuto una funzione pedagogica positiva verso le migliaia di giovani che si stavano battendo in tutta Italia contro una guerra illegale e coloniale. Ma le cose dette su Cuba al Corriere della Sera nella cornice di un congresso – quello del Partito della Sinistra Europea – che gli aveva dedicato una vera ovazione, ci hanno restituito l’Ingrao di sempre. Non una parola sulla minaccia ormai reale di un’aggressione statunitense contro Cuba ma banalità sulle spiagge e i bagnini di Stato a Cuba, banalità che dovrebbero portarci a dire di non doverci più opporre alla privatizzazione dei litorali come invece fanno giustamente tanti compagni della sinistra nelle varie amministrazioni locali.
Pietro Ingrao è tornato così ad essere un “leader morale” della sinistra verso cui molti hanno sempre mostrato una indulgenza mal riposta e superiore alla qualità del personaggio. Lo fecero i fondatori del Manifesto, abbandonati da Ingrao quando il PCI decise la loro espulsione. Lo fecero migliaia di militanti della sinistra del PCI, che vedevano in lui una opposizione al compromesso storico che non si è mai manifestata come tale. Lo ha fatto per anni il quotidiano Il Manifesto, che lo ha intervistato ossessivamente e sistematicamente per anni anche quando Ingrao non aveva nulla di importante da dire al popolo della sinistra. Lo hanno fatto i militanti che diedero vita a Rifondazione Comunista mentre Ingrao rimaneva dentro il PDS scaturito dalla svolta della Bolognina e dall’ultimo congresso del PCI.
Ma c’è un altro fattore che ci porta a dire pubblicamente che noi, militanti nomadi o semplici attivisti di una sinistra antagonista che si rivendica ancora come tale, “non vogliamo morire ingraiani”. E’ la coincidenza quasi ossessiva con cui giornali e opinionisti ci dicono che, ogni svolta liquidazionista del nostro patrimonio storico e politico viene benedetta da “padri nobili della sinistra” come Pietro Ingrao e Vittorio Foa, due personalità agite strumentalmente come “vecchi innovatori” contro giovani conservatori. Quali sono i risultati positivi per la sinistra italiana che Ingrao o Foa possono rivendicare come propri? A ben guardare non ce n’è uno che abbia retto alla realtà dei fatti né ai grandi cambiamenti invocati come “madri di tutte le svolte”.
La nostra storia, dentro la sinistra italiana, è storia diversa da quella di Pietro Ingrao e con la sua non si è mai incontrata. Forse per questo ha retto al tempo, alla crisi della sinistra e al politicismo dominante. Il patrimonio storico del movimento operaio continuiamo a sentirlo ancora come nostro e guardiamo ai fallimenti delle suggestioni dell’iconoclastia di sinistra non solo con distacco ma con la pretesa di costruire ad essa ipotesi alternative. Se qualcuno volesse appiopparci come padri storici Pietro Ingrao e Vittorio Foa dichiariamo apertamente di volerci considerare volentieri orfani. La nostra è un’altra storia, un altro approccio, un’altra prospettiva nella lotta per la trasformazione sociale, una prospettiva che affonda le radici nella storia del movimento di classe in Italia e nel mondo, Cuba inclusa. E’ in questa prospettiva che non abbiamo mollato e non intendiamo mollare sul piano della lotta politica, sindacale, culturale anticapitalista ed è in questa prospettiva che ci auguriamo di poter vedere e costruire presto una sinistra in Italia e in Europa che non abbia voglia di “morire ingraiana”.
Il comunista irriducibile sempre a sinistra della realtàStaliniano finché Stalin visse, fu un compagno senza mai dubbi. Diresse "l'Unità", presiedette la Camera, non voleva cambiare il PciMario Cervi - Il Giornale Lun, 28/09/2015
Gli storici, meglio e più di compagni e colleghi, potranno aiutare a comprendere il ruolo civile e culturale svolto da Ingrao nel nostro Paese, ruolo che trascende di gran lunga l’importanza della sua figura politica e istituzionale. Io che lo conobbi prima come dirigente impegnato in una battaglia decisiva dentro il suo partito e poi come presidente della Camera durante anni tragici — e che da allora più da lui mi allontanavo per tanti aspetti nelle idee e nelle scelte e più lo stimavo e più l’ho sentito umanamente prossimo — vorrei ricordarlo con un’espressione sola: “Ingrao o della fedeltà”. Le personalità di grande formato hanno una parte da coprire, possono interpretarla diversamente, ma rimane quella. Il loro posto assume il carattere di un destino, spesso drammatico, ma è quello che devono tenere. Come si continua a restare in una lingua, in una nazione, in una cultura, nonostante tutto. Ingrao non si è mai arreso alla moda. Ciò può anche portare a errori: è possibile prender per mode anche aspetti di grandi, complessive trasformazioni. Ma l’essenziale è certo non illudersi che la vana moda sia chissà quale novitas , caratteristica principe della stupidità. Il “destino”’ che Ingrao sentiva in sé era quello di rappresentare il “principio speranza”, irriducibile alla prassi delle “modificazioni” permanenti, nella sinistra italiana. In questo senso Ingrao ha lottato per riformare questo Paese senza essere un riformista. Non si costruiscono “ismi” con le riforme, pena il fissare la prassi riformista come un limite ideologicamente insuperabile. Contro tale dogmatismo Ingrao, anche il poeta Ingrao, ha sempre combattuto. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
«Quando ha compiuto i cento anni la scorsa primavera, Pietro Ingrao è stato celebrato come un grande italiano punto e basta. Ma Pietro ci teneva a essere definito un comunista, e io è così che lo voglio ricordare…» Rossana Rossanda, raggiunta nella sua casa di Parigi dalla notizia della morte di Ingrao, ripensa alla sinistra alle sue spalle, a quel lungo tratto di storia fatto di conflitti e condivisioni. La cofondatrice del manifesto fa di Ingrao un ritratto commosso e inedito.
Rossanda, quale sentimento prova? E un’epoca che si chiude…
di Guido Crainz Repubblica 28.9.15
È STATO un alto testimone del Novecento, Pietro Ingrao, e al tempo stesso della storia del comunismo italiano nelle speranze e nei drammi di un secolo. Un alto testimone, anche, di contraddizioni brucianti. In Volevo la luna ha raccontato benissimo una parte del suo percorso.
DAGLI ANNI giovanili, dall’adesione all’antifascismo e al Pci sino ai mesi terribili del rapimento di Moro, che visse come primo presidente comunista della Camera. Un percorso scandito dalla Resistenza, dalle speranze dell’immediato dopoguerra e poi dalla sconfitta elettorale delle sinistre nel 1948. Sino alla presa d’atto di una sconfitta ancor più grande, ed era il 1956: con le illusioni alimentate dal XX Congresso del partito comunista sovietico, prima, e poi con il trauma dell’invasione dell’Ungheria. L’ «indimenticabile 1956», fu lui a coniare quella definizione: una citazione di un vecchio film sovietico, ha ricordato (quasi una “richiesta d’aiuto” alla sua passione per il cinema nel momento più terribile). Iniziò da lì il vero dramma del comunismo italiano, iniziò nel momento in cui quella “rivelazione” non fu compresa per quel che era. Per le menzogne che lacerava, per le tragedie su cui gettava fasci di luce cruda. Ingrao l’ha vissuto per intero, quel dramma. In qualche modo ne è stato prigioniero, forse, ma ha vissuto la contraddizione con quel rigore intellettuale, quella coerenza morale, quell’ansia intellettuale che sono il suo segno distintivo più forte.
Iniziava a trasformarsi profondamente l’Italia, in quel declinare degli anni Cinquanta, e Ingrao fu fra i primi a dire all’interno del Pci che «l’arretratezza italiana» su cui il partito ancora insisteva stava diventando un ricordo del passato. Ed era quindi necessario misurarsi con la nuova «modernità» del Paese (con il neocapitalismo, per usare i termini di allora), con i nuovi squilibri che induceva ma anche con le sue potenzialità. Scompariva davvero la vecchia Italia, allora. Iniziava la fuga dalle campagne di quei braccianti e di quei mezzadri che avevano largamente aderito al “partito nuovo” togliattiano, la stessa classe operaia si trasformava profondamente ed erano messi in discussione gli orizzonti culturali su cui si era formata larga parte della classe dirigente della Repubblica.
La grande eresia di Pietro Ingrao fu quella di dire che non si poteva comprendere e trasformare quel mondo con il centralismo (anti)democratico vigente nel partito. Fu il tema che portò sino alla tribuna dell’XI congresso del Pci, nel 1966, nonostante i durissimi attacchi che aveva ricevuto all’interno del gruppo dirigente e sapendo bene che avrebbe pagato di persona. Fu sconfitto, e quella sconfitta lo segnò in profondità. Se non si comprende cos’ha significato essere “comunisti italiani” non si comprende neppure perché accettò poco più tardi l’espulsione del gruppo, cresciuto alla sua scuola, che aveva fondato il manifesto (Natoli, Rossanda, Pintor, Magri, Castellina e altri ancora). Un grande errore, ha riconosciuto poi, ma del tutto inscritto in una più lunga storia.
Ha risposto a quei nodi con una riflessione mai abbandonata sul rapporto fra socialismo e democrazia: sul rapporto fra “masse e potere”, per citare il titolo di un suo libro, sulle forme di democrazia partecipata e su altro ancora. Restando fedele al suo essere “comunista italiano” anche quando il comunismo internazionale e il Pci scomparvero insieme. Figlio del secolo, di nuovo: di quel secolo. Con quel rigore intellettuale e con quelle passioni intellettuali, dal cinema alla poesia, che lo hanno accompagnato fino all’ultimo.
Morto a 100 anni. Una vita di battaglie dure e difficili, dentro e fuori del partito. Ma il mondo che sognava non è mai arrivato: “C’è poco da fare, siamo stati sconfitti”di Riccardo Barenghi La Stampa 28.9.15
È morto nel sonno, ieri pomeriggio verso le quattro e mezzo, nella sua casa del quartiere Italia, a Roma. Pietro Ingrao aveva compiuto 100 anni il 30 marzo. Ieri mattina ha avuto ancora la forza di fare colazione, ma da diversi mesi la sua vita scorreva in una sorta di letargo.
Le figlie e il figlio Guido (nome da partigiano di Pietro) si sono precipitati nell’appartamento del padre, e così gli innumerevoli nipoti e bisnipoti. Telefonate, messaggi, parenti, amici, leader politici, compagni di partito e di politica. E le istituzioni, a cominciare dalla presidente della Camera Laura Boldrini: si tratta anche di organizzare i funerali, l’ultimo saluto a uno storico dirigente del Pci e della sinistra comunista, nonché a sua volta presidente dell’assemblea di Montecitorio dal 1976 al 1979.
Tribuna dalla quale seguì minuto per minuto il drammatico rapimento di Aldo Moro sfociato nel suo assassinio.
Un’ora dopo la morte, Ingrao è steso sul letto: dimagrito ma non trasfigurato, nessuna malattia l’aveva colpito. Ha potuto lasciare la vita così, senza accorgersene.
Errori e orrori
Quasi cent’anni prima, quando era un bambino, Ingrao una sera d’estate aveva rifiutato di fare la pipì nel vasino. I genitori insistono ma niente, lui non cede. Alla fine il padre gli promette un regalo. Pietro accetta, fa la sua pipì, guarda il padre e gli fa: «Voglio la luna». Ma nessuno può dargliela, lui si arrabbia e sbotta: «E io rivoglio la piscia mia». L’episodio è una metafora della sua vita: la luna era la rivoluzione, il comunismo. O meglio un mondo che, attraverso il comunismo, sarebbe diventato più giusto, migliore.
Quel mondo non è mai arrivato, il comunismo è fallito, lo stesso Ingrao ne ha visti e denunciati gli errori e gli orrori (non sempre nel tempo giusto, come lui stesso ammetterà), la luna è rimasta lì dove è sempre stata. E adesso anche lui esce di scena dopo aver raggiunto il secolo di vita.
Un secolo, appunto, quel Novecento che, come lui stesso ha detto e scritto tante volte, è stato il periodo che ha visto i cambiamenti, i terremoti sociali e politici più importanti della storia. Dalla Rivoluzione russa al fascismo, dal nazismo alla Resistenza, dai lunghi anni di scontro con la Dc al crollo del Muro di Berlino e alla morte del Pci, fino alle guerre moderne, cominciate con quella del Golfo nel ‘91 e non ancora finite. Una lotta dopo l’altra, col partito ma anche dentro al partito. Lotte dure, difficili da vincere, e infatti lui nelle tante interviste o conversazioni fatte nel corso del tempo ha sempre enfatizzato con amarezza il risultato ottenuto: «C’è poco da fare, siamo stati sconfitti. È inutile nascondersi la realtà, per quando dura e difficile possa essere». E c’è un’altra metafora che sintetizza perfettamente il concetto, una sua poesia di poche parole: «Pensammo una torre / Scavammo nella polvere».
Tuttavia Ingrao la sua vita non l’avrebbe voluta indietro come la pipì. Se avesse potuto tornare indietro, avrebbe rifatto quello che ha fatto, quella «scelta di vita» - come la chiamò il suo compagno-avversario Amendola - Ingrao non l’ha mai messa in discussione, non si è mai pentito di essere stato comunista. Orgoglioso, a volte entusiasta di questa sua militanza così lunga e profonda. Ma spesso critico, autocritico, perfino sofferente di fronte ai grandi e drammatici fatti che hanno segnato la storia della sua «fede».
Cinema e poesia
Una storia talmente lunga e ricca che è difficile anche cominciarla. Negli anni Trenta era appassionato di cinema e di poesia, la politica non la considerava la sua missione. La scossa è arrivata con la guerra di Spagna, è a quel punto che Ingrao si schiera e parte per la sua avventura comunista. Seguirà la Resistenza, la clandestinità, la Liberazione, la direzione dell’Unità, il rapporto strettissimo ma anche conflittuale con Palmiro Togliatti, il suo famoso editoriale intitolato «Da una parte della barricata» in cui appoggiava l’invasione sovietica dell’Ungheria, editoriale di cui non ha mai smesso di pentirsi. E qui va ricordato un altro episodio: dopo aver scritto quell’articolo, rispettando la disciplina di partito, Ingrao andò a trovare proprio il leader del Pci per comunicargli il suo sgomento per quell’invasione. Togliatti gli rispose secco: «Oggi io ho bevuto un bicchiere di vino in più». Non voleva dire che aveva brindato ai carri armati, probabilmente, ma l’interpretazione autentica di quel bicchiere nessuno l’ha mai saputa dare.
Ed è dopo la morte di Togliatti che comincia la storia di Ingrao leader della minoranza del partito. La sua battaglia per la democrazia interna, la critica al comunismo reale, quello sovietico, sfociano nel congresso del 1966, l’XI, dove Ingrao e i suoi (quelli che qualche anno dopo fecero nascere il Manifesto e per questo furono radiati dal Pci con il voto favorevole del loro stesso maestro: altro episodio di cui Ingrao si è sempre autocriticato ferocemente) vennero duramente sconfitti: «Cari compagni, mentirei se vi dicessi che mi avete convinto», pronunciò dalla tribuna.
Una frase storica perché metteva in piazza, per la prima volta nella storia del Pci, il dissenso. Viene applaudito a lungo, una standing ovation si direbbe oggi, ma è un omaggio che non cambia i rapporti di forza. Vincono Longo, Amendola, Pajetta, Alicata, Napolitano col quale seguirono parecchi scontri politici. Qualche anno dopo saranno loro a eleggere Enrico Berlinguer segretario del Pci. I due, Berlinguer e Ingrao, avranno sempre un rapporto leale, ma difficilmente riusciranno a trovare punti profondi di convergenza politica.
La scoperta di Internet
Il resto è storia recente, lo strappo di Occhetto, l’opposizione del vecchio leader della sinistra (che all’epoca aveva «solo» 75 anni), la sua uscita solitaria dal Pds, la sempre più accentuata ritrosia a occuparsi della politica politicante (negli anni Ottanta si era appassionato dei video musicali, la sua curiosità per le novità era notevole, tanto che ultimamente aveva addirittura aperto un sito Internet).
Pensava molto alla guerra come paradigma del mondo moderno. Era nato durante la Grande guerra, aveva vissuto da giovane la «terribile» Seconda guerra mondiale, aveva combattuto per il Vietnam, si era schierato contro tutte le guerre «americane» degli ultimi venticinque anni. È morto senza riuscire a trovare la pace, e nemmeno la luna.
di Paolo Franchi Corriere 28.9.15
Se ne è andato a cent’anni un pezzo, e che pezzo, non solo della storia del Pci e della sinistra, ma anche e soprattutto, se l’espressione nell’Italia dei novissimi ha ancora un senso, della storia repubblicana. Perché Pietro Ingrao, nato nel 1915, nel Novecento italiano, e pure nel primo scorcio del Terzo Millennio, si è tuffato, o si è sentito buttato dentro, nel 1936, con la guerra di Spagna .
Poi Pietro Ingrao ha nuotato senza risparmio di sé finché ha avuto un minimo di energie per farlo. Nel Pci, finché c’è stato il Pci. Ma, prima e dopo, guardando oltre i confini del suo partito. Ai movimenti, sì, senza lasciarsi rinchiudere, se non da compagni e avversari avvezzi all’uso e all’abuso della banalità come strumento di lotta e di aggressione politica, nel movimentismo. Ma pure, eccome, alle istituzioni, allo Stato, a interlocutori molto lontani da lui, che a torto o a ragione gli sembravano interessati a tessere le fila di un discorso di cambiamento e di riforma. La cosa potrà sembrare strana o insensata a giovani politici di successo che si fanno un vanto di non avere passato e di non coltivare memoria. E però nel 1969 — lo stesso anno dell’autunno caldo che visse come un inveramento forse insperato delle sue posizioni sconfitte all’undicesimo congresso del Pci, lo stesso anno in cui i suoi compagni più cari, quelli del «manifesto», venivano radiati dal partito — fu lui, Ingrao, il primo interlocutore di Ciriaco De Mita non sul compromesso storico, che non convinse mai nessuno dei due, ma sulle riforme istituzionali che avrebbero potuto sbloccare la democrazia italiana. Più tardi, lasciata nel 1979, la presidenza della Camera, fu ancora lui ad avviare, con il Centro per la riforma dello Stato, il primo confronto di merito con le socialdemocrazie europee in tempi in cui, per i comunisti, socialdemocrazia era una parolaccia. E nella seconda metà degli anni Ottanta fu sempre lui il più radicale fautore del monocameralismo.
Tutto questo solo per ricordare che stiamo parlando di una personalità complessa, molto più complessa, del cliché dell’acchiappanuvole consegnatoci da tanti suoi ex compagni del vecchio gruppo dirigente comunista. Ingrao fu amato, amatissimo, dalla sua gente: il che, tocca dire, capita raramente agli intellettuali inclini all’astrattezza. Indimenticabile, per chi la ha vissuta, resta l’ovazione che gli riservò, correva l’anno 1966, la platea dell’undicesimo congresso del Pci, quello della sua sconfitta e del suo isolamento, mentre la presidenza dei vincitori lo guardava gelida: chissà quanto e come sarebbe cambiata la storia italiana, non solo quella del Pci e della sinistra, se il diritto a non essere d’accordo rivendicato da Ingrao non fosse stato liquidato come la più inammissibile delle eresie .
Ma tornano pure alla mente le parole con cui Ettore Scola spiegò perché volle collocare una scena chiave del suo film «Dramma della gelosia, tutti i particolari in cronaca» all’interno di un comizio di Ingrao a piazza San Giovanni. Perché, disse, tra i dirigenti comunisti lo sentivo il più vicino al dramma della povera gente: probabilmente oggi molti salirebbero in cattedra a spiegarci che si trattava, né più né meno, di populismo, dimenticando, o fingendo di dimenticare, che una sinistra senza popolo semplicemente non esiste.
Forse questo ha qualcosa, o molto, da spartire, con l’espressione, all’apparenza ermetica, cui Ingrao fece ricorso per spiegare, sul finire del 1989, la sua opposizione alla svolta di Achille Occhetto. Che, secondo lui, non solo cancellava un orizzonte ideale senza il quale il partito, comunque denominato, avrebbe perso la sua stessa ragion d’essere, ma tagliava seccamente un «grumo di vissuto», una storia collettiva fatta anche di un’infinità di microstorie: liquidava cioè quella capacità di stabilire un nesso tra passato, presente e futuro senza il quale (Matteo Renzi andava ancora a scuola) l’agire politico si snoda istante dopo istante, annuncio dopo annuncio, improvvisazione dopo improvvisazione. Forse sbagliava Ingrao, e così radicalmente da ritrovarsi per un tratto alleato, proprio lui, di quelle componenti più conservatrici del Pci che per una vita lo avevano contrastato, considerandolo una specie di matto in casa. Ma la sua preoccupazione, come dimostrano le tristi sorti del postcomunismo italiano, e più in generale quelle della Seconda Repubblica, non era infondata, e in ogni caso non era spiegabile solo come un rigurgito di passatismo.
Si ritrasse, allora, Ingrao, dalla milizia politica quotidiana. Non dalla politica, però, dentro il cui gorgo stava da più di cinquant’anni, e che continuava a rappresentare il fulcro della sua esistenza, anche quando poetava — ed è stato un poeta vero, non un dilettante della domenica — o si occupava di cinema, l’altra grande passione (memorabili le pagine su Charlie Chaplin, e non solo) della sua vita. Continuò a provare quella capacità di indignarsi senza la quale, pensava, l’impegno politico non ha senso, ma non diventò mai un indignato in servizio permanente effettivo: «Indignarsi non basta». Riguardò molto criticamente il passato. Ma restò comunista, come può esserlo un eterno sconfitto che, per provarsi a cogliere il senso di una storia e di una vita, ha scritto, in una delle sue poesie più dolenti: «Pensammo una torre/ scavammo nella polvere». Forse è anche per questo che tante generazioni di giovani, non solo nel Pci, gli hanno voluto bene, o almeno lo hanno rispettato e lo rispettano, sul serio. Di sicuro è anche per questo che a molti giovani di tanti anni fa, che diventando adulti e poi anziani hanno seguito percorsi così diversi dal suo, il centenario Ingrao mancherà moltissimo.
Castellina: votò per l’espulsione del gruppo del Manifesto, ma l’affetto non si è mai incrinatodi Giovanna Cavalli Corriere 28.9.15
ROMA «No, uno come lui non ci sarà più. Era un combattente, un leader. Però non ha mai pensato che rappresentare la maggioranza significasse avere sempre e comunque ragione. Pietro possedeva una dote umana rara: sapeva e amava ascoltare i pareri degli altri. Ti domandava sempre: ma tu come la vedi, tu che faresti?».
Luciana Castellina, 86 anni, ex deputata ed ex ingraiana, scrittrice, cofondatrice de il Manifesto risponde da Barcellona («Siamo qui in una fabbrica dismessa a seguire le elezioni catalane, oh, aspetti che devo tirare su una bambina che è scivolata correndo, ha un anno e mezzo: è la nipotina di Enrico Berlinguer»).
Una volta, una importante, siete stati quasi nemici. Nel 1969 il comitato centrale del Pci propose la sua radiazione, con il gruppo de il Manifesto: Natoli, Rossanda, Pintor, Magri. E Ingrao votò per il sì.
«Fu una rottura importante. Ce ne andammo. Pietro era convinto che bisognasse restare “nel gorgo”, non isolarsi dal grosso del popolo».
Avrebbe dovuto seguirvi?
«Impensabile, sarebbe stato un gesto troppo forte, noi invece eravamo giovani e con meno responsabilità».
Gli portò rancore per quell’esilio dal partito?
«Rancore mai. Ci furono momenti di freddezza, di tensione. Qualche anno più duro, poi un po’ alla volta ci siamo riavvicinati. L’amicizia, vera, non si è mai interrotta».
Vi siete ritrovati nella battaglia contro lo scioglimento del Pci. Riuniti dalla celebre Mozione 2 .
«Nel frattempo, dopo 15 anni, fallita la politica del compromesso storico, Berlinguer ci aveva invitato a rientrare. Perdemmo, si sa. Abbiamo poi condiviso le battaglie del movimento pacifista. Newsweek scrisse che eravamo la terza potenza mondiale. Forse non era vero e comunque non bastò».
Se va indietro nel tempo se lo ricorda quando.. .
«Quando io e Alfredo Reichlin ci sposammo e lui ci fece da testimone. Era il 1953, al Comune di Roma, officiava Aldo Natoli, ho ancora le foto. Pietro ci regalò un disegno di Guttuso, raffigurava una capra. Ce l’ha Alfredo da qualche parte».
Lei, per i suoi 50 anni, gli fece un presente particolare.
«Lui era molto sobrio nel vestire, portava solo scarpe con i lacci. Io e Sandro Curzi gli comprammo un paio di mocassini, non li aveva mai portati. Con un biglietto: “Cammina coi tempi, cammina con noi”».
E ne fu contento?
«Se li è messi tanto».
A marzo ne compì 100 e lei gli ha dedicato un lungo ricordo su « il manifesto» .
«Ci siamo visti fino a pochi mesi fa. Si parlava di politica. Era molto polemico con il Pd, con quello sguardo più lungo che hanno le persone anziane. Il suo dispiacere era che si fosse dispersa la grande forza del vecchio Pci».
Il nuovo che è avanzato non gli piaceva?
«No. Gli ingraiani erano i rinnovatori, ma questo è solo la reinvenzione della Dc».
«E ora lente/ si riempiono, si nutrono/ della pioggia,/ figlie della solitudine:/ assenti al mondo,/ mutilate spoglie/ fuggite al loro tempo». Così comincia una poesia che Pietro Ingrao ha intitolato Statue , e anche per questo si ha qualche remora a fargli un monumento annaffiando questo straordinario personaggio di retorica e solennità.Dodici anni orsono, d’altra parte, alla bella età di 88, in mancanza di taxi Ingrao salì per la prima volta in motorino e si fece condurre per tempo a Montecitorio, dove l’ex presidente della Camera, che pure avrebbe diritto a una macchina con autista, doveva presentare un libro. A 89 anni, vinta ogni residua diffidenza per la “lingua dell’impero”, riscoprì i Beatles.
Con la vocazione nazionale della classe operaia il postcomunismo giustifica l’accoglimento della politica di moderazione salariale richiesta, in nome del vincolo esterno, dalla Confindustria di Guido Carli. Naturalmente le politiche dei redditi sono parte integrante della esperienza socialdemocratica, ma sempre nel più vasto quadro di accordi complessivi sull’andamento delle grandezze macroeconomiche. Il tratto singolare di questa versione postcomunista della politica dei redditi sta nell’assenza di garanzie o contropartite di alcun tipo. C’è solo la presunzione azzardata, priva di qualsiasi supporto teorico e politico, che sia sufficiente ridare spazio al profitto, a scapito del salario, per avere più investimenti e quindi più occupazione(…)
La filosofia del Trattato di Maastricht, costruita attorno alla centralità del mercato, è frontalmente contrapposta alla filosofia della nostra Costituzione, costruita attorno alla centralità del lavoro. Ma tutti preferiscono fare finta di nulla.
La nostra tribù, mai una corrente
Così, io credo, è stato per tutta la larghissima tribù chiamata «gli ingraiani», qualcosa che non è stata mai una corrente nel senso stretto della parola perché la nostra introiettata ortodossia non ci avrebbe neppure consentito di immaginare tale la nostra rete.
E però siamo stati forse di più: un modo di intendere la politica, e dunque la vita, al di là della specificità delle analisi e dei programmi che sostenevamo. Sicché sin dall’inizio degli anni ’60 e fino ad oggi, gli ingraiani sono in qualche modo distinguibili, sebbene le loro scelte individuali siano andate col tempo divergendo, dentro e fuori del Manifesto; e poi dentro e fuori le successive labili reincarnazioni del Pci. Oggi poi — dentro una sinistra che fatica a riconoscere i propri stessi connotati e nessuno si sente a casa propria dove sta perché vorrebbe la sua stessa casa diversa da come è –questo tratto storico dell’ingraismo direi che pesa in ciascuno anche di più.
Vorrei che non si perdesse, perché al di là delle scelte diverse cui ha condotto ciascuno di noi, è un patrimonio prezioso e utile anche oggi.
Di quale sia stato il nucleo forte del pensiero di Pietro Ingrao, ho già parlato, io e altri, tante volte, e ancora nell’inserto che il manifesto ha dedicato ai suoi cent’anni, riproposto on line proprio ieri. Vorrei che quelle sue analisi e linee programmatiche che purtroppo il Pci non fece proprie, non venisse annegato, come è accaduto per Enrico Berlinguer, nella retorica riduttiva e stravolgente dell’ “era tanto buono, bravo onesto, ci dà coraggio e passione”.
Oggi, comunque, di Pietro vorrei affidare alla memoria soprattutto due cose, che poi sono in realtà una sola: l’ascolto degli altri e l’idea della politica come, innanzitutto, partecipazione e perciò soggettività delle masse.
Quando incontrava qualcuno, o anche nelle riunioni e persino nel dialogo con un compagno ai margini di un comizio, era sempre lui che per primo chiedeva: “ma tu cosa pensi?” ;“come giudichi quel fatto?”; “cosa proporresti?”. Non era un vezzo, voleva proprio saperlo e poi stava a sentire. Perché il suo modo di essere dirigente stava nel cercare di interpretare il sentire dei compagni. Anche di portare le loro idee a un più alto livello di analisi e proposta, certamente, ma sempre a partire da loro, per arrivare, assieme a loro, e non da solo, a una conclusione, a una scelta.
Per questo quel che per lui contava, quello che a suo parere qualificava la democrazia e la qualità di un partito, era la partecipazione, la capacità di stimolare il protagonismo, la soggettività delle masse. Senza di cui non poteva esserci né teoria né prassi significativa.
Non voglio esplicitare paragoni con l’oggi, sarebbe impietoso.
Rossana, rispondendo ad un’intervista di La Repubblica, ieri ha detto di Pietro, anche della sua reticenza nell’assumere posizioni più nette, come fu al momento in cui noi, pur “ingraiani doc”, operammo la rottura della pubblicazione della rivista Il manifesto. E poi ricorda anche Arco di Trento, quando quel 30 per cento del Pci che rifiutava lo scioglimento del partito proposto dalla maggioranza occhettiana, pur riconoscendosi nella relazione che a nome di tutti aveva fatto Lucio Magri, si divise sulle scelte da compiere: fra chi decise di uscire e dette vita a Rifondazione, e chi — come Pietro — decise invece che sarebbe comunque restato nell’organizzazione, il Pds, che, già malaticcio, veniva alla luce. “Per stare nel gorgo”, come disse con una frase che è rimasta scolpita nella testa di tutti noi. Certo, è vero: se Pietro si fosse unito alla costruzione di un nuovo soggetto politico sarebbe stato diverso, molto diverso. La rifondazione comunista più ricca e davvero rifondativa, per via del suo personale apporto ma anche di quella larga area di quadri ingraiani che costituiva ancora un pezzo vivo del Pci e sarebbero stati preziosi alla nuova impresa; e invece restarono invischiati e di malavoglia nel lento deperire degli organismi che seguirono: il Pds, poi i Ds, infine, ma ormai solo alcuni, nel Pd.
Pietro però capì subito che stare in quel contesto non era più “stare nel gorgo”, perché il gorgo, sebbene assai indebolito, scorreva ormai altrove. E infatti ruppe poco dopo e si impegnò nei movimenti che generazioni più giovani avevano avviato. E da questi fu ascoltato.
La storia come sappiamo non si fa con i se. Ma riflettere su quel passaggio storico, per ragionare sugli errori compiuti, da chi e perché e quali, sarebbe forse utile a chi, come tutti noi, sta cercando di costruire un nuovo soggetto politico.
Per farlo nascere bene mi sembra comunque essenziale portarsi dietro l’insegnamento fondamentale di Pietro, che non è inficiato dal non avere, qualche volta, tentato abbastanza : che non c’è partito che valga la pena di fare se non si attrezza, da subito, a diventare una forza in grado di sollecitare la soggettività popolare, perché questa è più preziosa di ogni ortodossia.
Ma vorrei che di Pietro ci portassimo dietro anche l’ottimismo della volontà.
Era lui che amava citare la famosa parabola di Brecht sul sarto di Ulm (da cui Lucio Magri trasse poi il titolo del suo libro sul comunismo italiano). Come ricorderete, il sarto insisteva che l’uomo avrebbe potuto volare, finché, stufo, il vescovo principe di Ulm gli disse “prova” e questi si gettò dal campanile con le fragili ali che si era costruito. E naturalmente si sfracellò. Brecht però si chiede: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Perché alla fine l’uomo ha volato. E’ la parabola del comunismo: fino ad ora chi ha provato a realizzarlo su terra si è sfracellato, ma alla fine, come è accaduto con l’aviazione, ci riusciremo.
E’ questo l’impegno che nel momento della scomparsa del nostro prezioso compagno Pietro Ingrao vorrei prendessimo: di provarci.
Il potere del pensare e del fare
Del più alto valore è stata la concezione della democrazia che Ingrao ha definito e per cui ha combattuto. Sostenendo che «il voto non basta». E «non basta» infatti nei regimi che ne isolano la rilevanza e ne limitano il potere reale di incidere direttamente o indirettamente sui rapporti di potere economico, oltre che di quello sociale e di quello politico.
Tanto meno nei regimi che ne distorcono gli effetti deviandoli da quelli autenticamente rappresentativi. Né basta se non collegato ad altri istituti di partecipazione diretta alla dinamica politica. Sostenendo poi la coordinazione di tutte le assemblee elettive come condizione e strumento di una democrazia che pervada l’intera complessità istituzionale della aggregazione umana a forma stato. Sostenendo, infine, con grande lucidità ed eguale fermezza la necessità di opporsi alla decadenza di civiltà politica, culturale e morale che andava maturando in Italia con la criminosa prospettiva di un uomo solo al comando.
In modo diverso, sentirsi ingraiani ha significato intensità di spirito critico, tensione continua a lottare pensando possibile una società in cui il « libero sviluppo di ciascuno sia condizione del libero sviluppo di tutti».
Ingrao, il commosso saluto è l’ultimo
La tentazione di accordare il pensiero di un grande leader con il proprio è comprensibile — si faceva anche nel Pci con le posizioni di Togliatti, «lo chiamavamo “tirare la coperta”, ha ricordato Ingrao nel suo Le cose impossibili -, alla camera ardente arriva Achille Occhetto preceduto da un fondo sull’Unità renziana in cui sostanzialmente racconta che Ingrao avrebbe aderito alla svolta della Bolognina se solo gliel’avesse spiegata lui. Renzi è a New York per l’assemblea Onu, il governo è presente con la ministra delle riforme Boschi, il viceministro Morando e il sottosegretario De Vincenti, che fa anche un turno di picchetto. Assenti in massa alla celebrazione ufficiale della camera del centesimo compleanno di Ingrao, i renziani stavolta fanno capolino: il capogruppo del Pd alla camera Rosato, il capogruppo al senato Zanda, il deputato Carbone, la presidente della prima commissione del senato Finocchiaro. Pochi gli esponenti dei partiti di centro e destra che vengono a rendere omaggio, il vice presidente forzista della camera Baldelli, l’ex Dc D’Onofrio, Rutelli, Mariotto Segni, Nando Adornato che ha trascorsi comunisti. In serata fa il suo ingresso il presidente del senato Piero Grasso. Ma è soprattutto un incontrarsi a sinistra, tra i tanti che sono stati ingraiani almeno un po’, o «minoranza di sinistra» come preferiva Ingrao. Come Occhetto, del resto, che va incontro e si fa riconoscere dall’ottantenne Luigi Schettini, che è stato una colonna dell’ingraismo meridionale. Un po’ alla volta arrivano Gavino Angius, Luigi Berlinguer, Gianni Cuperlo, Walter Tocci, Cesare Damiano, Vincenzo Vita, Cesare Salvi, Giorgio Ruffolo, Ugo Sposetti, Walter Veltroni. Invece entra unita la delegazione dell’Ars: Aldo Tortorella, Alfiero Grandi e Piero De Siena.
La cerimonia nel palazzo si presta poco alla partecipazione popolare, ma sono comunque centinaia i cittadini romani che sfilano davanti al cadavere di Ingrao. A tratti davanti all’ingresso principale della camera si forma una piccola fila. Molti portano un fiore, qualcuno alza veloce un pugno chiuso. Domani i funerali saranno in piazza Montecitorio, all’aperto. Come quelli di Pajetta, 25 anni fa.
Un vuoto pesante, eredità per l’Europa
L’esercizio di questa ragione è più importante che mai. La bara di Ingrao ci ripropone anche l’obbligo di cimentarsi senza mezze misure con quel drammatico rovesciamento dei rapporti di forza che comincia a profilarsi nel nostro Paese, come nel resto di Europa, sullo scorcio del XX secolo, a proposito del quale autori di tradizione socialdemocratica parlano oggi di post democrazia. Mi riferisco alla svolta che si produce nel continente tra il 1989 e il 1992, con la caduta del muro di Berlino, la fine dell’Unione sovietica, la riunificazione della Germania e la firma del Trattato di Maastricht, che con la moneta senza stato e la piena libertà di movimento dei capitali prefigura l’Europa di oggi, flagellata, senza difese, dai marosi della crisi.
E’ lo spazio temporale in cui si inserisce l’ultima battaglia di Ingrao. Ripercorrendo i suoi scritti colpisce la tenacia con cui si batte contro l’idea, allora senso comune, della fine della storia; quella stessa che viene messa alla base dell’8 settembre, del «tutti a casa», del Pci. Non sono analisi compiute e formalmente concluse, le sue, ma netta vi è la consapevolezza che un nuovo periodo della storia del mondo si sta annunciando, gravido di contraddizioni e conflitti superiori a quelli del passato, sia per profondità sociale che per dimensione globale. Insomma non è un caso che nel suo comunicato Tsipras abbia parlato di Ingrao come di un leader della sinistra europea.
In quegli stessi anni la tradizione liberaldemocratica italiana elabora con la nozione di “cultura della stabilità” una reinterpretazione singolarmente restrittiva del riformismo socialdemocratico. La scienza economica, nata e cresciuta come indagine sulla produzione della ricchezza e sulla sua distribuzione tra le classi sociali in conflitto, diventa moneta e finanza, ossia scienza del rientro dal debito, che i tedeschi hanno posto come condizione perentoria per l’abbandono del marco. La stabilità dei prezzi che il Modell Deutschland è riuscito a realizzare diventa motivo di una ammirazione subalterna. I “parametri” di Maastricht, che pongono limiti sempre crescenti al sostegno della domanda interna, aprendo la strada alla stagnazione di oggi, sono invocati come salutare «vincolo esterno» capace di mettere a norma una classe politica spendacciona. Per quanto riguarda la “questione tedesca” il limite profondo di questo riformismo liberista sta nel non vedere come dietro la virtuosa stabilità dei prezzi ci sia un’economia che, dopo aver potenziato ininterrottamente la sua forza competitiva in termini di qualità e di prezzo, si appresta a lanciare un nuovo assalto ai mercati mondiali, aggiogando al suo carro tutto il progetto europeo.
Oggi che le politiche di austerità si intrecciano con una esplicita deflazione del sistema della rappresentazione politica, sentiamo che tutta la cultura democratica del Paese è giunta a un punto serio di verifica. Sentiamo che l’enorme patrimonio storico simbolicamente racchiuso nella figura di Pietro Ingrao può essere salvato solo attraverso la sua trasmissione e la sua traduzione in un contesto sociale completamente mutato. Per uscire dall’imbuto della crisi organica che stiamo vivendo è indispensabile anche uno sforzo di pensiero, una nuova radicalità nelle analisi. L’esperienza storica ci dice che da una crisi organica si esce solo con la formazione di una nuova classe dirigente. «Si parla di capitani senza esercito – scriveva Gramsci nel carcere– ma in realtà è più facile formare un esercito che formare dei capitani». La natura della fase che stiamo vivendo, oltre che la personalità di Ingrao a cui diamo l’estremo saluto, ci fa capire oggi meglio di prima la congruità di questa affermazione.
Last generation. Cosa ci insegna il vecchio maestroRiccardo Laterza Manifesto
Mi sento di poter dissentire. Dal pensiero e dall’azione di Pietro Ingrao sto ancora imparando molte cose, e tante credo di poterne imparare.
Innanzitutto su cos’è il dubbio, cosa significa provare a farne strumento potente in una società in cui esso è molto evocato e assai poco praticato. Era più difficile mettere in dubbio, interrogarsi e interrogare, dissentire, fare tutto ciò in forma produttiva, con una continua tensione verso la trasformazione della realtà, nell’epoca dello scontro tra ideologie contrapposte? Oppure oggi, nell’epoca del dominio incontrastato dell’ideologia unica del libero mercato? Per questo credo che questo primo insegnamento non sia affatto scontato.
Ancora, credo sia grazie a Ingrao che è diventato per me un po’ più chiaro cosa sia la luna. La luna, per alcuni, sarebbe la cifra della sconfitta di Ingrao: per me è piuttosto il segno di una battaglia che è ancora aperta. Lungi dall’essere un luogo situato in una posizione indefinita tra l’astrazione dalla realtà e l’eterna sconfitta, come qualche detrattore mascherato vuole far passare in alcuni coccodrilli, essa è piuttosto quella direzione verso la quale far avanzare ancora l’orizzonte delle aspettative. La luna è possibile? Sì, lottando dentro il continuo sviluppo della società, dentro le vecchie forme di dominio e le nuove possibilità di liberazione, sapendo che «in fondo, a ben vedere, certi guardiani, per forti e feroci che siano, sono tuttavia alla fine abbastanza stupidi», come disse Ingrao al XIX Congresso del PCI, nel 1990.
Ciò che ancora non credo di aver colto in tutta la sua complessità è il significato primo dell’indicazione di «rimanere nel gorgo». Quando mi imbattei per la prima volta nella formula retorica utilizzata da Ingrao all’XI Congresso in risposta a Longo sulla questione del centralismo democratico, la trovai di un tatto incomprensibile per la dialettica politica di oggi: quel volteggio di piuma, accolto da applausi scroscianti, era stato tuttavia capace di ferire come una lama d’acciaio. Difficile dunque astrarre da un periodo storico completamente diverso da quello di oggi: credo tuttavia che «rimanere nel gorgo» fosse un’indicazione di ricerca e di azione — e del rapporto indissolubile tra questi due aspetti — rivolta alla realtà, all’intricato rapporto tra masse e potere, impossibile da ridurre alla semplice collocazione dentro o fuori dal Partito (che pure era parte fondamentale di quell’indicazione).
Infine, l’insegnamento più prezioso, che più sento dentro, è quello di lasciarsi interrogare dalle rivolte. Non ho mai avuto la fortuna di incontrare Pietro Ingrao, ma ho incontrato spesso la misura concreta di queste sue parole nella costruzione delle organizzazioni studentesche, negli sguardi delle migliaia di studentesse e studenti in strada e in piazza, nell’impegno politico e nella necessità di cambiare il mondo. Il nostro cammino è ancora nel tempo delle rivolte che non è sopito.
Grazie di tutto Pietro Ingrao.
Il costruttore di democrazia
Fu certamente considerato – e lui stesso si considerò – «eretico»: ma all’interno di una comunità di donne e di uomini unita da ideali comuni, se pure declinati in forme diverse, di cui condivise fino alla fine (ed anche oltre per pochi anni, a comunità ormai dissolta) senso di appartenenza e obblighi, spesso gravosi, che lo portarono a compromessi e sacrifici che rappresentarono nel tempo un rovello mai interamente placato. Se si osserva con distacco la sua vicenda politica, di là dalle leggende e anche dalle autorappresentazioni, emergerà il profilo di un politico realistico, capace di porre problemi e proporre soluzioni. Dalla consapevolezza nei primi anni Sessanta di una nuova fase aperta dal miracolo economico e dal centrosinistra, che imponevano un ripensamento di tutti i termini della lotta politica e sociale del movimento operaio, alla battaglia del decennio successivo per un rinnovamento complessivo delle istituzioni, fondato sulla centralità del parlamento in vista di una nuova relazione fra Stato, popolo e trama delle assemblee elettive locali, in spirito di fedeltà alla Costituzione.
C’era in queste battaglie la consapevolezza che la democrazia parlamentare e costituzionale non era un dato acquisito per sempre, ma un patto tra istituzioni e popolo che andava rinnovato e rinsaldato mentre all’orizzonte si profilavano nuove insidie interne ed eterne che ne minavano il fondamento: «come se stessimo in bilico — avvertiva nel 1977 — tra un salto di qualità verso una civiltà superiore e il precipitare nella degenerazione».
Divenne col passare del tempo sempre più simbolo di qualcosa difficile da definire in termini univoci (ma comunque lievito e stimolo per molti).
Si innestò e si sovrappose alla sua vicenda storica una mitologia facile, fatta di luoghi comuni diffusi e da ultimo perfino interiorizzata da Ingrao medesimo nell’ultima fase della sua lunga vita: l’enfasi sull’utopia contrapposta alla realtà (che aveva invece studiato e analizzato con sguardo mai banale), la fama di «acchiappanuvole», di poeta e sognatore… Col che si rischiava di dimenticare che il suo andare «oltre» la politica, nel porre temi che essa abitualmente non si poneva, non voleva essere contrapposizione ma arricchimento, offerta di una dimensione non immediatamente visibile a uno sguardo distratto ma che si poteva e doveva cogliere con uno sguardo lungo.
Dimenticando che «scavare nella polvere» fra le rovine delle torri franate non può servire a baloccarsi modellando castelli di sabbia, che dal «gorgo» bisogna doverosamente farsi trascinare — ma senza affogare — per riemergere infine su nuove sponde. Guardare storicamente alla sua attività politica dovrebbe implicare anche evadere dalle nebbie dell’«ingraismo» divenuto gergo e maniera, della politica ridotta a stato d’animo, indeterminatezza programmatica, elogio del «dubbio» che non prelude a una nuova azione, ma si compiace e si paralizza in esso.
Nel modo corrente di ricordare Ingrao temo che oggi molta parte della sinistra stia celebrando e assolvendo anche la propria inconcludenza.
Pietro
Il suo nome, Pietro, e il suo volto, il suo corpo, parlavano di questa formidabile energia, mai spenta dagli errori politici che pure il dirigente comunista Ingrao ha commesso, e che è stato molto più disposto di altri a riconoscere.
Sto leggendo o rileggendo i suoi scritti nel recente volume Coniugare al presente (Ediesse), dove Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti hanno raccolto interventi, interviste e appunti tra l’89 e il ‘93. Gli anni del crollo del muro, della fine del Pci, e anche della scelta di Ingrao di abbandonare il Pds, dopo quel primo periodo dopo la svolta vissuto, come disse, nel gorgo della trasformazione traumatica del suo partito.
Segnalo due di queste testimonianze.
La prima è un dialogo tra Ingrao e Alex Langer, pubblicato nel ’90 da Nuova ecologia. Il leader ambientalista valutava positivamente, ma non in modo acritico, la svolta di Occhetto, e si rammaricava che un uomo «con l’autorità della storia politica e della figura morale» di Ingrao non si fosse messo «alla testa di questo possibile cambiamento». Langer vedeva bene come molti che stavano con il Sì di Occhetto intendessero la svolta quale «omologazione, come la rimozione di un ostacolo per entrare nei salotti buoni». E vedeva anche nello schieramento del No molte «persone più impegnate a difendere il diritto all’identità che a incidere politicamente».
Ingrao risponde di non credere a un «atto salvifico»: un vero «rinnovamento radicale del Pci» presupponeva una ben diversa analisi del passaggio storico che stava vivendo il mondo e delle forze in campo. E il comunismo, come orizzonte, come punto di vista critico – non certo il regime fallito a Est — «permette di leggere molto meglio i fenomeni attuali».
Allora io ero sulla posizione di Langer. Oggi penso che sbagliavo valutazione sulla svolta. Ma soprattutto mi sembra che le opinioni, le passioni e le inquietudini di persone come Langer e Ingrao valessero molto di più del loro schierarsi per il Sì o per il No nel confronto aperto nel Pci. E che abbiano molto da dire ancora oggi.
Come attuali sono gli appunti di Ingrao sul tema: «Può la poesia cambiare il mondo?» Ne aveva discusso con Adriana Zarri e Ernesto Cardenal all’Eremo di Monte Giove, nel giugno del ’91.
La trascrizione di una scaletta manoscritta mima in un certo modo la scrittura in versi. Con frasi in lettere maiuscole, parole in corsivo. Una specie di partitura. In cui, dopo la citazione dell’Infinito di Leopardi, si può leggere:
«e questo cambia
o meglio dilata il significato
delle parole
SCOPRE
SCOPRE
qualcosa
che si può dire rappresentare
solo dentro
quella tonalità musicale
quindi LEGGE
in un altro modo
– secondo me molto più ricco -
la vita, l’esperienza vitale».
La poesia non può cambiare il mondo? Ma senza una radicale operazione sul linguaggio, sul simbolico, non si farà una politica capace di cambiarlo.
Pietro Ingrao, comunista eretico e senza scismi
«Coscienza critica della sinistra», «acchiappanuvole», «l’utopista che sognava la luna»: sono solo alcune che delle tante definizioni che hanno accompagnato la vita e la morte di Pietro Ingrao. Il quale però fu prima di tutto «un comunista» e subito dopo «un eretico senza scismi». Ha spiegato magistralmente nel suo sito facebook Emanuele Macaluso: «Ingrao è stato un comunista del partito di Togliatti e della via italiana e democratica al socialismo, nel quale convivevano uomini con posizioni diverse, ma convergenti sugli obiettivi di fondo ed egualmente impegnati con passione e con l’amore per una politica che guardasse essenzialmente agli interessi del mondo del lavoro e del Paese».
Ma Ingrao è stato anche un eretico. Ho aggiunto senza scismi. E in politica gli scismi sono le scissioni. Così non seguì i suoi amici e per certi versi discepoli, che diedero vita al gruppo de “Il manifesto”, subito dopo la radiazione del Pci. Anzi. In Comitato centrale neanche si oppose a quella radiazione. Lo ha ricordato lui stesso in una accorata autocritica nel suo libro “Volevo la luna”. Quasi a dimostrazione che dal partito ci si poteva discostare, ma che comunque non ci potevano e dovevano essere fratture. Qualcosa di simile avvenne con la svolta di Occhetto, anche quest’ultimo un suo, se non discepolo, compagno di idee e di ideali. Così ancora una volta il già anziano leader si discostò. L’eresia l’aveva fatta valere soprattutto in occasione dell’XI Congresso in discussione il principio del centralismo democratico. Andò alla tribuna e disse: «Non sono stato persuaso», ponendo con vigore la questione del diritto al dissenso. Colpì l’assoluto e immobile silenzio dei dirigenti e l’applauso entusiasta dei militanti.
Intendiamoci: la platea non era composta di eretici, ma di iscritti solitamente molto disciplinati e soprattutto ligi nei fatti alle direttive del partito. Probabilmente Ingrao era uno di quegli eretici che piacevano soprattutto agli ortodossi. Lo scontro al Congresso del 1966 fu comunque durissimo, la tensione con Amendola era palpabile, e secondo una ricostruzione dello stesso Pietro, Giorgio non esitò a metterlo in guardia da possibili scontri anche fisici. Ingrao fu comunque un leader molto amato dal popolo del Pci. Gli unici che hanno avuto il suo livello di sua popolarità probabilmente sono stati Togliatti e Berlinguer. Non è un caso che il regista Ettore Scola in un suo film (”Dramma della gelosia...”) abbia voluto inserire alcune scene di un comizio del dirigente ciociaro in piazza San Giovanni. Alla vigilia del Congresso di Firenze del 1986 (segretario Alessandro Natta), rispondendo ad una domanda su come si sarebbe svolto il Congresso, un altro dirigente migliorista Napoleone Colajanni rispose con non celata malizia: «Ci sarà un discorso di Ingrao, molto appalaudito, ma pressochè identico a quello del precedente Congresso e a quello prima ancora». Era un modo per spiegare due cose: la prima che comunque non ci sarebbero state grandi novità, la seconda che Ingrao, nonostante fosse molto amato dalle platee di partito, ancora una volta avrebbe contato poco nel definire la linea politica.
È stato veramente così? Forse nel Pci il grande merito di Ingrao è stato di avere talvolta capito alcune cose prima e soprattutto con maggiore chiarezza e coraggio di altri. Per esempio Ingrao, che pure in occasione dell’Ungheria, da direttore dell’Unità, aveva scritto e titolato: “Da una parte della barricata”, sostenne prima e con più nettezza le ragioni di Dubcek e Svoboda, anche prima dell’arrivo dei carri armati sovietici a Praga del 1968. Fin qui il rapporto di Ingrao con il suo partito. C’è poi l’uomo delle istituzioni. Dal 1976 al 1979 è il primo comunista a essere presidente della Camera con grandi di imparzialità che gli riconoscono anche gli avversari. Ma è anche l’animatore del Centro per la riforma dello Stato. A conferma dell’importanza che la tenuta e la buona salute delle istituzioni democratiche hanno per molti dirigenti dell’allora Pci lo stesso rilievo che il contrasto alle diseguaglianze sociali. Monocameralista fin dalla Commissione Bozzi ha comunque sempre ritenuto irrinunciabile la rappresentatività e la centralità del Parlamento. Ma Ingrao, lo ha ricordato molto bene Alfredo Reichlin nel marzo scorso in un discorso alla Camera in occasione dei suoi 100 anni, non fu soltanto un punto di riferimento per i comunisti. Negli anni ’60 con lui interloquirono nel dibattito sul nuovo modello di sviluppo sindacalisti come Bruno Trentin, e soprattutto politici come Ugo La Malfa e i cosiddetti “professorini” della sinistra dc come Giovanni Galloni e Ciriaco De Mita.
La lezione del grande uomo politico appena scomparso Non contano soltanto le regole del gioco, il “come”, ma anche il “cosa”. Al formalismo studiato da Bobbio va unito il realismodi Gustavo Zagrebelsky Repubblica 29.9.15
«Il voto, da solo, non basta». In questa breve frase di Pietro Ingrao può essere racchiuso tutto il senso della sua lunga riflessione sulla democrazia, sulla rappresentanza, sul sistema parlamentare. Le considerazioni che seguono sono un commento a queste parole: un commento che ha sullo sfondo — non potrebbe essere diversamente — le condizioni attuali della democrazia nel nostro Paese. Prendo lo spunto da un carteggio tra lo stesso Ingrao e Norberto Bobbio, a margine e a seguito d’un convegno torinese svoltosi nell’autunno del 1985. Le lettere sono, la prima (di Bobbio), del 12 novembre e l’ultima (d’Ingrao) del 30 gennaio 1986 (ora in P. Ingrao, Crisi e riforma del Parlamento, Ediesse). In quel dialogo si discute di “vera e falsa democrazia”. Sono a confronto due posizioni. Bobbio ripropone quella ch’egli stesso definiva la “definizione minima” di democrazia. Questa definizione a Ingrao appariva insufficiente. Anzi, nelle condizioni economiche e sociali date, gli appariva vuota e ingannevole: in sostanza, la copertura d’interessi di oligarchie nazionali e sovranazionali, contrastanti con i diritti delle masse lavoratrici e con la loro urgenza d’emancipazione. La riflessione e la terminologia di Ingrao vengono da lontano. Masse e potere è il titolo d’una raccolta di scritti (il primo è del 1964), pubblicata nel 1977, che ispirò in quegli anni parte della sinistra. I concetti- chiave di Ingrao sono tre: masse, unità ed egemonia. Naturalmente, stiamo parlando delle masse popolari, dell’unità della sinistra e dell’egemonia della cultura che ne costituiva l’identità.
Ma — ecco entrare in scena Bobbio — nell’intento di accordare la democrazia ai contesti storici, esistono limiti concettuali che devono essere tenuti fermi, a pena di confusione, fraintendimenti e, anche, d’inganni. Una definizione è necessaria, ma una definizione troppo pretenziosa non aprirebbe, bensì chiuderebbe il confronto. Ecco l’attaccamento di Bobbio alle “definizioni minime”. Sono minime le sue definizioni di socialismo, liberalismo, destra e sinistra, ad esempio. Ed è minima la definizione di democrazia; potremmo anzi dire minimissima: a) tutti devono poter partecipare, direttamente o indirettamente, alle decisioni collettive; b) le decisioni collettive devono essere prese a maggioranza. Oltre che minima, questa definizione è anche solo formale: si riferisce al “chi” e al “come”, ma non al “che cosa”. Riguarda soltanto — come si usa dire per analogia — le “regole del gioco”, ma non il risultato del gioco. In un testo del 1987 (ora in Teoria generale della politica, Einaudi), le due regole diventano sei, così: 1. tutti i cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età senza distinzione di razza, di religione, di condizione economica, di sesso, debbono godere dei diritti politici, cioè ciascuno deve godere del diritto di esprimere la propria opinione o di scegliere chi la esprime per lui; 2. il voto di tutti i cittadini deve avere peso uguale; 3. tutti coloro che godono dei diritti politici debbono essere liberi di poter votare secondo la propria opinione formatasi quanto più è possibile liberamente, cioè in una libera gara tra gruppi politici organizzati in concorrenza fra loro; 4. debbono essere liberi anche nel senso che debbono essere posti in condizione di scegliere tra soluzioni diverse, cioè tra partiti che abbiano programmi diversi e alternativi; 5. sia per le elezioni, sia per le decisioni collettive, deve valere la regola della maggioranza numerica, nel senso che si consideri eletto il candidato, o si consideri valida la decisione, che ha ottenuto il maggior numero di voti; 6. nessuna decisione presa a maggioranza deve limitare i diritti della minoranza, particolarmente il diritto di diventare maggioranza a parità di condizioni. Ripercorrendo questi sei punti, ci accorgiamo che la definizione minima e formale resta ferma, ma si introducono precisazioni, per così dire, di ambiente.
In sintesi, può dirsi che, mentre la posizione di Bobbio si giustifica sul piano della teoria; la posizione di Ingrao si radica nella realtà politica e sociale del suo tempo. Le riflessioni istituzionali di Ingrao prendono origine, sempre, da analisi realistiche. A differenza di quel che sarebbe successo in tempi a noi più vicini, le “regole del gioco” non sono da lui considerate in astratto, ma sempre in relazione ai contenuti della politica, la politica di emancipazione delle classi subalterne. L’aspetto sostanziale è sempre presente. Si tratta di promuovere realizzazioni e contrastare tendenze, avendo come obiettivo i principi di libertà, di giustizia e di emancipazione sociale scritti nella Costituzione, in particolare nell’art. 3, secondo comma, richiamato in ogni possibile occasione. Nessuna riforma delle regole è indifferente rispetto alla sostanza — per rimanere nell’immagine — del gioco che viene giocato.
Al di là delle questioni di parole, ciò che si può dire conclusivamente dal carteggio da cui ho preso spunto, è, forse, che il contrasto tra Bobbio e Ingrao è più apparente che reale. Questa conclusione non è dettata dall’amore per il compromesso a ogni costo. Ciò di cui parla Bobbio ha bisogno di ciò di cui parla Ingrao. Il loro discorso si svolge su piani diversi che non si scontrano, ma si completano. Bobbio parla della democrazia rispetto alle sue leggi di cornice entro la quale la lotta politica deve contenersi, Ingrao della democrazia come lotta politica; l’uno della democrazia come forma che presuppone una sostanza, l’altro della sostanza che implica una forma. Bobbio parla delle condizioni della democrazia, ma le possibilità non bastano se non ci sono forze che sappiano che farsi della democrazia, che traggano la democrazia dal regno delle possibilità al regno della realtà.
Se queste forze mancano, le forme, da sole, non sono capaci di suscitarle e la democrazia è destinata a essere solo il titolo d’un capitolo nei libri di diritto costituzionale. Del resto, che la forma non sia sufficiente; che essa sia destinata a diventare un guscio vuoto e a risultare una formula mendace, occultatrice di realtà non o anti- democratiche, alla fine ripudiata dai cittadini, è Bobbio stesso a riconoscerlo: «Io non posso separare la democrazia formale dalla democrazia sostanziale. Ho il presentimento che dove c’è soltanto la prima, un regime democratico non è destinato a durare» (Lettera a Guido Fassò del 14 febbraio 1972, citata in L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia,
Laterza. Una conclusione perfettamente conforme alle preoccupazioni di Ingrao che credo giusto rammentare nel momento in cui di lui festeggiamo riconoscenti il contributo alla vita della Repubblica, ricordando cose dette più di trent’anni fa, ma valide non solo per quei tempi.
(Questo testo è un estratto del discorso pronunciato da Gustavo Zagrebelsky il 31 marzo 2015 in occasione dei 100 anni di Pietro Ingrao su invito della Camera dei deputati).
Così fu travolta la sinistra comunista
Il funerale di stato per Pietro Ingrao a Montecitoriodi Alberto Burgio
Ha fatto bene il manifesto a pubblicare il discorso in memoria di Pietro Ingrao — un testo breve ma denso di implicazioni — pronunciato da Alfredo Reichlin in piazza Montecitorio.
Colpisce in primo luogo il riferimento all’attenzione che il gruppo dirigente comunista e Ingrao in particolare sempre riservarono alla costruzione di strutture sindacali, politiche e culturali adeguate alle forme di vita che via via venivano affermandosi nell’esperienza della classe operaia e dei ceti subalterni. Si trattava dell’idea gramsciana del radicamento del partito nella vita reale del «soggetto». Ed era, forse più semplicemente, il riflesso della consapevolezza della necessità di trarre dal contatto diretto col mondo del lavoro gli elementi essenziali della lettura critica della società e, di qui, le direttrici della battaglia per l’emancipazione e la trasformazione.
Non è un passaggio trascurabile.
Spesso e non senza unilateralità si parla di Ingrao come del dirigente comunista più attento alla fecondità dei movimenti e più interessato al dialogo con le forme emergenti della soggettività. E altrettanto spesso lo si ricorda come l’uomo del dubbio, insofferente al conformismo e alla disciplina imposta — non sempre per buoni motivi — nei partiti comunisti plasmati dall’esperienza della Terza Internazionale e della guerra antifascista. Una disciplina che Ingrao contrastava non in linea di principio, per assunti precostituiti. Ma perché vi ravvisava un pericolo di ripiegamento su sterili certezze, una clausola avversa alla ricerca fuori dagli schemi, all’ascolto spregiudicato della realtà. Nonché una modalità incompatibile con la libertà dei soggetti: al punto di scorgere proprio in quella rigidità ideologica e nella cifra autoritaria delle organizzazioni due tra le principali cause della sconfitta storica del movimento comunista nel secondo dopoguerra.
Quel che spesso tuttavia si dimentica è che quell’apertura e quella curiosità si coniugavano con la cura per la comunità del partito e con la coscienza della sua funzione indispensabile nell’elaborazione del soggetto e nella costruzione del conflitto di classe. Un’attitudine che si pone letteralmente agli antipodi dell’ideologia del partito leggero nel cui nome, dalla seconda metà degli anni Ottanta, si provvide a smantellare la struttura articolata del Pci, a sradicarlo dai territori e dalle maglie della relazione sociale, ad avviarne la trasformazione in partito d’opinione prima, in campo di concorrenza tra leader a fini elettorali poi e, finalmente, in uno strumento di comando politico scalabile dai più agguerriti portavoce dei poteri forti. Stavano a cuore a Ingrao l’apertura al confronto come la pratica del dubbio e la ricchezza della ricerca concreta. Ma non gli premevano di meno la saldezza dell’organizzazione come trama viva di relazioni umane, la sua compattezza e persino la salvaguardia delle sue ritualità tramandate e condivise nel corso del tempo.
Questo abito fu una delle ragioni della sua radicale estraneità alla metamorfosi imposta al Pci e poi alla sua liquidazione. Sulla scelta di Ingrao di «restare comunque nel gorgo» non si smetterà di discutere. Si trattò di una decisione pesante che molto influenzò le sorti del nascente movimento della rifondazione comunista e della sinistra di alternativa tutta nel lungo periodo. Ma quel dato di fatto, l’appartenenza culturale e antropologica alla storia delle grandi organizzazioni di massa del movimento comunista, resta. E getta sulla sua figura una luce forse, in qualche misura, tragica, se è vero che la decisione di stare nel Pds ne alimentò un non risolto travaglio.
C’è un secondo passaggio nell’orazione di Reichlin che merita un breve commento. A proposito della mondializzazione neoliberista egli ricorda come la sinistra italiana ne sia stata «travolta». Si trattò di una cesura epocale, che forse per questo Reichlin definisce «materia ormai degli storici». In effetti, così sulla profondità del mutamento, come su quel travolgimento non sussistono dubbi. Epperò ciò non può voler dire che il giudizio su quei processi e appunto su quel venirne travolti — quale che sia la lettura che si ritenga di darne — non sia anche squisitamente politico. Quindi urgente, qui e ora, per le responsabilità che coinvolge, rivela e pone in evidenza.
Ad ogni buon conto proprio su quel passaggio storico Ingrao insistette con forza a più riprese, invocando una revisione profonda dei quadri analitici ma al tempo stesso ribadendo l’esigenza di rilanciare la lotta per l’alternativa. La consapevolezza della portata della svolta conservatrice e della necessità di riaprire una ricerca lo indusse a respingere la proposta di restare alla presidenza della Camera alla fine degli anni Settanta, mentre già si avviava lo sfondamento neoliberista. E mai egli ebbe tentennamenti — questo oggi va ricordato, senza rifugiarsi in formule elusive o ecumeniche — nel valutare dove stessero le ragioni della modernità e del progresso, dove quelle della reazione e della violenza.
Questo è un nodo al quale a nessuno è concesso di sfuggire. Che va discusso senza reticenze.
La vicenda dei gruppi dirigenti post-comunisti dagli anni Ottanta a oggi non si comprende senza riconoscere limpidamente che il giudizio da essi formulato sulla mondializzazione neoliberista fu clamorosamente sbagliato. E che esso non ha soltanto portato alla mutazione genetica delle maggiori organizzazioni politiche nate dallo smantellamento del Pci — al loro sradicamento dal terreno delle lotte del lavoro — ma ha anche, per ciò stesso, contribuito a stabilizzare l’egemonia della destra e a segnare, nella storia del paese, gravi regressi sul terreno delle conquiste sociali e delle garanzie democratiche.
E del resto lo stesso Reichlin pare riconoscerlo là dove pensosamente ammette che chi ha diretto le forze maggiori della sinistra italiana non ha saputo custodire la storia del movimento operaio e di quella sinistra comunista di cui Ingrao è stato una delle guide più autorevoli e amate.
Il mio amico Ingrao altro che sognatore
Marcello Sorgi Stampa 6 ottobre 2015
Emanuele Macaluso, 91 anni, una vita al vertice del Pci, lo dice con un pizzico di malinconia siciliana: «Dopo la morte di Ingrao, sono rimasto il solo della segreteria di Togliatti in cui c’erano Longo, Pajetta, Amendola, Natta, Alicata, appunto Ingrao, e Berlinguer e io che eravamo i più giovani...».
Il grande vecchio, la memoria storica...
«Beh, a proposito di memoria, ce ne sarebbero di cose da rimettere a posto. A partire proprio dal modo in cui Ingrao è stato ricordato al funerale: in cui, confesso, mi sono commosso a sentire parlare le sue figlie e nipoti».
Cosa non le è piaciuto?
«Lo hanno descritto come un sognatore, un poeta, un acchiappanuvole, un innamorato della luna, un eretico, un dissidente, e come una sorta di alieno nel suo partito. Il contrario della verità: perché Pietro è stato prima di tutto un costruttore e un dirigente del Pci, dal 1940 al ’91, per mezzo secolo».
Ma non potrà negare che fosse il capo della sinistra interna, e abbia difeso fino all’ultimo posizioni di minoranza.
«E allora? Ciascuno aveva le sue idee, anche Amendola, e tutti contribuivano ad animare il dibattito interno di un grande partito. Ma non per questo Ingrao può essere dipinto come il capo della sinistra interna. Se fosse stato solo il leader di una parte, non avrebbe potuto avere il ruolo che ha avuto nella lunga vicenda del Pci».
Senatore Macaluso, vuol riscrivere la storia di Ingrao?
«Niente affatto. Basta solo rileggere le tappe della sua carriera. Dal 1948 al ’58, per dieci anni, è stato direttore dell’Unità. Il giornale che Togliatti immaginava come il Corriere della Sera dei lavoratori, aperto alla discussione e al contributo degli intellettuali, lo costruì lui».
Ma nel ’56 non approvò in prima pagina l’invasione sovietica dell’Ungheria?
«È vero, fu un errore, un atto di sottomissione alla linea ufficiale del partito, coerente con la posizione che aveva sostenuto in direzione».
E nel ’66, all’XI congresso del Pci, quando ruppe con la regola del centralismo democratico, non venne emarginato?
«Non andò così. Intanto, dopo l’Unità, Ingrao era stato chiamato in segreteria da Togliatti. E nel ’64, al Comitato centrale che discusse e si divise sulla nascita del centrosinistra, sempre su richiesta di Togliatti, aveva svolto la relazione introduttiva».
Non era stato un esempio del metodo stalinista che esigeva di piegare a una sola linea anche le frange più estremiste del partito?
«Piuttosto era un riconoscimento del ruolo centrale che aveva. Magari, perché no?, Ingrao avrà dovuto limare i suoi convincimenti per sostenere quel ruolo: ciò non toglie che Togliatti avesse scelto lui. E quanto alla questione della democrazia interna, a porla, prima di Ingrao, era stato Amendola».
Amendola?
«Subito dopo il XXII congresso del Pcus, in cui Krusciov presentò il rapporto sullo stalinismo, Amendola accusò Togliatti di reticenza sugli orrori rivelati dal leader sovietico e chiese che al successivo congresso del Pci si potesse discutere apertamente da posizioni diverse e concludere eventualmente con una maggioranza e una minoranza».
Fatto inedito, per un partito fondato sulla regola autoritaria del centralismo democratico. Togliatti cosa rispose?
«Convocò la direzione e ci informò della discussione con Amendola. Poi aggiunse: “Al prossimo congresso, dunque, andremo con mozioni diverse. Io naturalmente presenterò la mia”».
E come andò a finire?
«Togliatti presentò la sua mozione, e nessuno, neppure Amendola, ne presentò un’altra in contrapposizione. Finì all’unanimità, come sempre. Ecco perché lo stesso Amendola, all’XI congresso, quando Ingrao ripropose la questione del centralismo, fu particolarmente duro con lui».
Amendola aveva cambiato idea sulla democrazia interna?
«In pratica si era rimangiato tutto. Dopo la morte di Togliatti, Amendola aveva un peso maggiore nel Pci. Ma la sua idea di fondere in un solo partito socialisti e comunisti, partendo dal riconoscimento del fallimento contemporaneo del centrosinistra e del modello comunista sovietico, era stata bollata come un’eresia. Ingrao, in totale disaccordo, chiedeva che fosse condannata, oppure che fosse riconosciuta legittimità a posizioni diverse».
E fu emarginato per questo?
«Non fu affatto messo da parte. Amendola, è vero, chiedeva che fosse fatto fuori da tutti gli organismi dirigenti, ma io e Berlinguer ottenemmo da Longo che restasse nell’ufficio politico. A essere emarginati, a quel punto, sempre su richiesta di Amendola, fummo noi: uscimmo dalla segreteria, Berlinguer spedito a fare il segretario del Lazio e io il responsabile della stampa e propaganda».
Poi arriva il ’69 e a Ingrao tocca di cacciare dal Pci il gruppo delManifesto. Magri, Pintor, Rossanda e Castellina erano tutti amici suoi.
«Anche stavolta non fu solo un gesto di obbedienza. Ingrao motivò le sue critiche nella sostanza, criticando come estremiste e pseudo-rivoluzionarie le posizioni assunte dal gruppo del Manifesto: facevano assomigliare i consigli di fabbrica ai soviet dell’Unione Sovietica e contraddicevano la linea democratica della via italiana al socialismo. Voi volete conquistare il potere con metodi che non sono i nostri, obiettava Ingrao».
In termini personali, la svolta dovette costargli.
«Per tutti fu un errore, non solo per Ingrao. Che comunque, nel ’71, andò a fare il capogruppo dei deputati, e con Andreotti, capogruppo Dc, e Pertini, presidente della Camera, concordò il nuovo regolamento parlamentare. Un compromesso di cui si disse che introduceva il consociativismo come regola. Poi arrivano i governi di unità nazionale e Ingrao diventa presidente della Camera dal ’76 al ’79. Il primo del Pci. Questo per dire che non era solo il capo della sinistra comunista».
Nel ’79, però, dopo la fine della solidarietà nazionale, Ingrao lasciò bruscamente la presidenza della Camera. Perché?
«Avvertiva il richiamo della scelta di Berlinguer verso l’alternativa. Una svolta avversata da Bufalini, da Napolitano e da me stesso, e che invece Ingrao sentiva di dover sostenere. Infatti tornò in segreteria, dove poi rimase anche con Occhetto, dopo la morte di Berlinguer».
Occhetto, nato ingraiano, ritrovava così il suo maestro.
«C’è un dettaglio rivelatore raccontato nelle sue memorie da Lucio Magri, che insieme con un altro gruppo di politici e intellettuali di area, dentro e fuori il Pci, aveva preparato un documento per spingere a sinistra il partito. Ingrao si rifiutò di firmarlo e approvò la linea del segretario».
Siamo nell’89, al congresso dell’Amazzonia, dalle immagini della foresta che aprirono i lavori. Poi però, pochi mesi dopo, quando Occhetto cambiò il nome al partito, Ingrao si ribellò.
«Era in Spagna. E non accettò che il segretario non lo avesse avvertito prima della svolta della Bolognina. Ma, a quel punto, la storia del Pci era finita. Ingrao a poco a poco cominciò ad allontanarsi».
Lo perse di vista anche lei?
«No, ricordo che nel ’95 andai a una manifestazione in Campidoglio, a Roma, in cui il filosofo Remo Bodei celebrava gli ottant’anni di Ingrao. C’era poca gente, assenti i dirigenti del Pds, e quasi nessuno di quelli che l’altro giorno lo hanno celebrato nei funerali di Stato. Mi fu molto grato e mi scrisse una bella lettera, che conservo. Anche per questo ho voluto ricordare cosa ha fatto e ciò che ha rappresentato Ingrao per il Pci. Possibile che la damnatio memoriae, in questo paese, sia arrivata al punto da non poter più dire che Ingrao è stato innanzitutto un grande comunista italiano?».
Emanuele Macaluso, 91 anni, una vita al vertice del Pci, lo dice con un pizzico di malinconia siciliana: «Dopo la morte di Ingrao, sono rimasto il solo della segreteria di Togliatti in cui c’erano Longo, Pajetta, Amendola, Natta, Alicata, appunto Ingrao, e Berlinguer e io che eravamo i più giovani...».
Il grande vecchio, la memoria storica...
«Beh, a proposito di memoria, ce ne sarebbero di cose da rimettere a posto. A partire proprio dal modo in cui Ingrao è stato ricordato al funerale: in cui, confesso, mi sono commosso a sentire parlare le sue figlie e nipoti».
Cosa non le è piaciuto?
«Lo hanno descritto come un sognatore, un poeta, un acchiappanuvole, un innamorato della luna, un eretico, un dissidente, e come una sorta di alieno nel suo partito. Il contrario della verità: perché Pietro è stato prima di tutto un costruttore e un dirigente del Pci, dal 1940 al ’91, per mezzo secolo».
Ma non potrà negare che fosse il capo della sinistra interna, e abbia difeso fino all’ultimo posizioni di minoranza.
«E allora? Ciascuno aveva le sue idee, anche Amendola, e tutti contribuivano ad animare il dibattito interno di un grande partito. Ma non per questo Ingrao può essere dipinto come il capo della sinistra interna. Se fosse stato solo il leader di una parte, non avrebbe potuto avere il ruolo che ha avuto nella lunga vicenda del Pci».
Senatore Macaluso, vuol riscrivere la storia di Ingrao?
«Niente affatto. Basta solo rileggere le tappe della sua carriera. Dal 1948 al ’58, per dieci anni, è stato direttore dell’Unità. Il giornale che Togliatti immaginava come il Corriere della Sera dei lavoratori, aperto alla discussione e al contributo degli intellettuali, lo costruì lui».
Ma nel ’56 non approvò in prima pagina l’invasione sovietica dell’Ungheria?
«È vero, fu un errore, un atto di sottomissione alla linea ufficiale del partito, coerente con la posizione che aveva sostenuto in direzione».
E nel ’66, all’XI congresso del Pci, quando ruppe con la regola del centralismo democratico, non venne emarginato?
«Non andò così. Intanto, dopo l’Unità, Ingrao era stato chiamato in segreteria da Togliatti. E nel ’64, al Comitato centrale che discusse e si divise sulla nascita del centrosinistra, sempre su richiesta di Togliatti, aveva svolto la relazione introduttiva».
Non era stato un esempio del metodo stalinista che esigeva di piegare a una sola linea anche le frange più estremiste del partito?
«Piuttosto era un riconoscimento del ruolo centrale che aveva. Magari, perché no?, Ingrao avrà dovuto limare i suoi convincimenti per sostenere quel ruolo: ciò non toglie che Togliatti avesse scelto lui. E quanto alla questione della democrazia interna, a porla, prima di Ingrao, era stato Amendola».
Amendola?
«Subito dopo il XXII congresso del Pcus, in cui Krusciov presentò il rapporto sullo stalinismo, Amendola accusò Togliatti di reticenza sugli orrori rivelati dal leader sovietico e chiese che al successivo congresso del Pci si potesse discutere apertamente da posizioni diverse e concludere eventualmente con una maggioranza e una minoranza».
Fatto inedito, per un partito fondato sulla regola autoritaria del centralismo democratico. Togliatti cosa rispose?
«Convocò la direzione e ci informò della discussione con Amendola. Poi aggiunse: “Al prossimo congresso, dunque, andremo con mozioni diverse. Io naturalmente presenterò la mia”».
E come andò a finire?
«Togliatti presentò la sua mozione, e nessuno, neppure Amendola, ne presentò un’altra in contrapposizione. Finì all’unanimità, come sempre. Ecco perché lo stesso Amendola, all’XI congresso, quando Ingrao ripropose la questione del centralismo, fu particolarmente duro con lui».
Amendola aveva cambiato idea sulla democrazia interna?
«In pratica si era rimangiato tutto. Dopo la morte di Togliatti, Amendola aveva un peso maggiore nel Pci. Ma la sua idea di fondere in un solo partito socialisti e comunisti, partendo dal riconoscimento del fallimento contemporaneo del centrosinistra e del modello comunista sovietico, era stata bollata come un’eresia. Ingrao, in totale disaccordo, chiedeva che fosse condannata, oppure che fosse riconosciuta legittimità a posizioni diverse».
E fu emarginato per questo?
«Non fu affatto messo da parte. Amendola, è vero, chiedeva che fosse fatto fuori da tutti gli organismi dirigenti, ma io e Berlinguer ottenemmo da Longo che restasse nell’ufficio politico. A essere emarginati, a quel punto, sempre su richiesta di Amendola, fummo noi: uscimmo dalla segreteria, Berlinguer spedito a fare il segretario del Lazio e io il responsabile della stampa e propaganda».
Poi arriva il ’69 e a Ingrao tocca di cacciare dal Pci il gruppo delManifesto. Magri, Pintor, Rossanda e Castellina erano tutti amici suoi.
«Anche stavolta non fu solo un gesto di obbedienza. Ingrao motivò le sue critiche nella sostanza, criticando come estremiste e pseudo-rivoluzionarie le posizioni assunte dal gruppo del Manifesto: facevano assomigliare i consigli di fabbrica ai soviet dell’Unione Sovietica e contraddicevano la linea democratica della via italiana al socialismo. Voi volete conquistare il potere con metodi che non sono i nostri, obiettava Ingrao».
In termini personali, la svolta dovette costargli.
«Per tutti fu un errore, non solo per Ingrao. Che comunque, nel ’71, andò a fare il capogruppo dei deputati, e con Andreotti, capogruppo Dc, e Pertini, presidente della Camera, concordò il nuovo regolamento parlamentare. Un compromesso di cui si disse che introduceva il consociativismo come regola. Poi arrivano i governi di unità nazionale e Ingrao diventa presidente della Camera dal ’76 al ’79. Il primo del Pci. Questo per dire che non era solo il capo della sinistra comunista».
Nel ’79, però, dopo la fine della solidarietà nazionale, Ingrao lasciò bruscamente la presidenza della Camera. Perché?
«Avvertiva il richiamo della scelta di Berlinguer verso l’alternativa. Una svolta avversata da Bufalini, da Napolitano e da me stesso, e che invece Ingrao sentiva di dover sostenere. Infatti tornò in segreteria, dove poi rimase anche con Occhetto, dopo la morte di Berlinguer».
Occhetto, nato ingraiano, ritrovava così il suo maestro.
«C’è un dettaglio rivelatore raccontato nelle sue memorie da Lucio Magri, che insieme con un altro gruppo di politici e intellettuali di area, dentro e fuori il Pci, aveva preparato un documento per spingere a sinistra il partito. Ingrao si rifiutò di firmarlo e approvò la linea del segretario».
Siamo nell’89, al congresso dell’Amazzonia, dalle immagini della foresta che aprirono i lavori. Poi però, pochi mesi dopo, quando Occhetto cambiò il nome al partito, Ingrao si ribellò.
«Era in Spagna. E non accettò che il segretario non lo avesse avvertito prima della svolta della Bolognina. Ma, a quel punto, la storia del Pci era finita. Ingrao a poco a poco cominciò ad allontanarsi».
Lo perse di vista anche lei?
«No, ricordo che nel ’95 andai a una manifestazione in Campidoglio, a Roma, in cui il filosofo Remo Bodei celebrava gli ottant’anni di Ingrao. C’era poca gente, assenti i dirigenti del Pds, e quasi nessuno di quelli che l’altro giorno lo hanno celebrato nei funerali di Stato. Mi fu molto grato e mi scrisse una bella lettera, che conservo. Anche per questo ho voluto ricordare cosa ha fatto e ciò che ha rappresentato Ingrao per il Pci. Possibile che la damnatio memoriae, in questo paese, sia arrivata al punto da non poter più dire che Ingrao è stato innanzitutto un grande comunista italiano?».
Emanuele Macaluso, 91 anni, una vita al vertice del Pci, lo dice con un pizzico di malinconia siciliana: «Dopo la morte di Ingrao, sono rimasto il solo della segreteria di Togliatti in cui c’erano Longo, Pajetta, Amendola, Natta, Alicata, appunto Ingrao, e Berlinguer e io che eravamo i più giovani...».
Il grande vecchio, la memoria storica...
«Beh, a proposito di memoria, ce ne sarebbero di cose da rimettere a posto. A partire proprio dal modo in cui Ingrao è stato ricordato al funerale: in cui, confesso, mi sono commosso a sentire parlare le sue figlie e nipoti».
Cosa non le è piaciuto?
«Lo hanno descritto come un sognatore, un poeta, un acchiappanuvole, un innamorato della luna, un eretico, un dissidente, e come una sorta di alieno nel suo partito. Il contrario della verità: perché Pietro è stato prima di tutto un costruttore e un dirigente del Pci, dal 1940 al ’91, per mezzo secolo».
Ma non potrà negare che fosse il capo della sinistra interna, e abbia difeso fino all’ultimo posizioni di minoranza.
«E allora? Ciascuno aveva le sue idee, anche Amendola, e tutti contribuivano ad animare il dibattito interno di un grande partito. Ma non per questo Ingrao può essere dipinto come il capo della sinistra interna. Se fosse stato solo il leader di una parte, non avrebbe potuto avere il ruolo che ha avuto nella lunga vicenda del Pci».
Senatore Macaluso, vuol riscrivere la storia di Ingrao?
«Niente affatto. Basta solo rileggere le tappe della sua carriera. Dal 1948 al ’58, per dieci anni, è stato direttore dell’Unità. Il giornale che Togliatti immaginava come il Corriere della Sera dei lavoratori, aperto alla discussione e al contributo degli intellettuali, lo costruì lui».
Ma nel ’56 non approvò in prima pagina l’invasione sovietica dell’Ungheria?
«È vero, fu un errore, un atto di sottomissione alla linea ufficiale del partito, coerente con la posizione che aveva sostenuto in direzione».
E nel ’66, all’XI congresso del Pci, quando ruppe con la regola del centralismo democratico, non venne emarginato?
«Non andò così. Intanto, dopo l’Unità, Ingrao era stato chiamato in segreteria da Togliatti. E nel ’64, al Comitato centrale che discusse e si divise sulla nascita del centrosinistra, sempre su richiesta di Togliatti, aveva svolto la relazione introduttiva».
Non era stato un esempio del metodo stalinista che esigeva di piegare a una sola
Nessun commento:
Posta un commento