lunedì 28 settembre 2015

Ingrao. Icona della nostra sconfitta, precursore e teorico della nostra ineffettualità


Una rassegna di articoli che, soprattutto da sinistra e tranne alcune eccezioni, stentano a fare i conti con la realtà e si rifugiano nella dimensione dell'utopia e dell'eresia.
E' normale e giusto che sia così, oggi. Meno normale e giusto è che sia così tutti i giorni, anzitutto per rispetto verso il suo pensiero politico e la sua figura storica [SGA].

E’ morto Pietro Ingrao
 Sergio Cararo Contropiano

La morte di Ingrao: tra stucchevole iconografia e problemi irrisolti
Martedì, 29 Settembre 2015 08:30 Michele Franco Contropiano

NON VOGLIAMO MORIRE INGRAIANISergio Cararo Editoriale di Radio Città Aperta 12 Maggio 2004
Le dichiarazioni su Cuba rilasciate da Pietro Ingrao al Corriere della Sera, dichiarazioni piuttosto banali, hanno dissipato in poche battute le parole per cui avevamo guardato con rispetto a Pietro Ingrao lo scorso anno. Commentando l’invasione dell’Iraq, Ingrao aveva detto che “la resistenza contro l’occupazione è la prima condizione per la pace”. Parole chiare, una volta tanto, che avevano avuto una funzione pedagogica positiva verso le migliaia di giovani che si stavano battendo in tutta Italia contro una guerra illegale e coloniale. Ma le cose dette su Cuba al Corriere della Sera nella cornice di un congresso – quello del Partito della Sinistra Europea – che gli aveva dedicato una vera ovazione, ci hanno restituito l’Ingrao di sempre. Non una parola sulla minaccia ormai reale di un’aggressione statunitense contro Cuba ma banalità sulle spiagge e i bagnini di Stato a Cuba, banalità che dovrebbero portarci a dire di non doverci più opporre alla privatizzazione dei litorali come invece fanno giustamente tanti compagni della sinistra nelle varie amministrazioni locali.
Pietro Ingrao è tornato così ad essere un “leader morale” della sinistra verso cui molti hanno sempre mostrato una indulgenza mal riposta e superiore alla qualità del personaggio. Lo fecero i fondatori del Manifesto, abbandonati da Ingrao quando il PCI decise la loro espulsione. Lo fecero migliaia di militanti della sinistra del PCI, che vedevano in lui una opposizione al compromesso storico che non si è mai manifestata come tale. Lo ha fatto per anni il quotidiano Il Manifesto, che lo ha intervistato ossessivamente e sistematicamente per anni anche quando Ingrao non aveva nulla di importante da dire al popolo della sinistra. Lo hanno fatto i militanti che diedero vita a Rifondazione Comunista mentre Ingrao rimaneva dentro il PDS scaturito dalla svolta della Bolognina e dall’ultimo congresso del PCI.
Ma c’è un altro fattore che ci porta a dire pubblicamente che noi, militanti nomadi o semplici attivisti di una sinistra antagonista che si rivendica ancora come tale, “non vogliamo morire ingraiani”. E’ la coincidenza quasi ossessiva con cui giornali e opinionisti ci dicono che, ogni svolta liquidazionista del nostro patrimonio storico e politico viene benedetta da “padri nobili della sinistra” come Pietro Ingrao e Vittorio Foa, due personalità agite strumentalmente come “vecchi innovatori” contro giovani conservatori. Quali sono i risultati positivi per la sinistra italiana che Ingrao o Foa possono rivendicare come propri? A ben guardare non ce n’è uno che abbia retto alla realtà dei fatti né ai grandi cambiamenti invocati come “madri di tutte le svolte”.
La nostra storia, dentro la sinistra italiana, è storia diversa da quella di Pietro Ingrao e con la sua non si è mai incontrata. Forse per questo ha retto al tempo, alla crisi della sinistra e al politicismo dominante. Il patrimonio storico del movimento operaio continuiamo a sentirlo ancora come nostro e guardiamo ai fallimenti delle suggestioni dell’iconoclastia di sinistra non solo con distacco ma con la pretesa di costruire ad essa ipotesi alternative. Se qualcuno volesse appiopparci come padri storici Pietro Ingrao e Vittorio Foa dichiariamo apertamente di volerci considerare volentieri orfani. La nostra è un’altra storia, un altro approccio, un’altra prospettiva nella lotta per la trasformazione sociale, una prospettiva che affonda le radici nella storia del movimento di classe in Italia e nel mondo, Cuba inclusa. E’ in questa prospettiva che non abbiamo mollato e non intendiamo mollare sul piano della lotta politica, sindacale, culturale anticapitalista ed è in questa prospettiva che ci auguriamo di poter vedere e costruire presto una sinistra in Italia e in Europa che non abbia voglia di “morire ingraiana”.






Il comunista irriducibile sempre a sinistra della realtàStaliniano finché Stalin visse, fu un compagno senza mai dubbi. Diresse "l'Unità", presiedette la Camera, non voleva cambiare il PciMario Cervi - Il Giornale Lun, 28/09/2015

LA FEDELTÀ AL PRINCIPIO SPERANZA 
MASSIMO CACCIARI Repubblica
Gli storici, meglio e più di compagni e colleghi, potranno aiutare a comprendere il ruolo civile e culturale svolto da Ingrao nel nostro Paese, ruolo che trascende di gran lunga l’importanza della sua figura politica e istituzionale. Io che lo conobbi prima come dirigente impegnato in una battaglia decisiva dentro il suo partito e poi come presidente della Camera durante anni tragici — e che da allora più da lui mi allontanavo per tanti aspetti nelle idee e nelle scelte e più lo stimavo e più l’ho sentito umanamente prossimo — vorrei ricordarlo con un’espressione sola: “Ingrao o della fedeltà”. Le personalità di grande formato hanno una parte da coprire, possono interpretarla diversamente, ma rimane quella. Il loro posto assume il carattere di un destino, spesso drammatico, ma è quello che devono tenere. Come si continua a restare in una lingua, in una nazione, in una cultura, nonostante tutto. Ingrao non si è mai arreso alla moda. Ciò può anche portare a errori: è possibile prender per mode anche aspetti di grandi, complessive trasformazioni. Ma l’essenziale è certo non illudersi che la vana moda sia chissà quale novitas , caratteristica principe della stupidità. Il “destino”’ che Ingrao sentiva in sé era quello di rappresentare il “principio speranza”, irriducibile alla prassi delle “modificazioni” permanenti, nella sinistra italiana. In questo senso Ingrao ha lottato per riformare questo Paese senza essere un riformista. Non si costruiscono “ismi” con le riforme, pena il fissare la prassi riformista come un limite ideologicamente insuperabile. Contro tale dogmatismo Ingrao, anche il poeta Ingrao, ha sempre combattuto. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Rossana Rossanda “Per proteggere il partito rinunciò a cambiare la storia” 
GIOVANNA CASADIO ROMA Repubblica
«Quando ha compiuto i cento anni la scorsa primavera, Pietro Ingrao è stato celebrato come un grande italiano punto e basta. Ma Pietro ci teneva a essere definito un comunista, e io è così che lo voglio ricordare…» Rossana Rossanda, raggiunta nella sua casa di Parigi dalla notizia della morte di Ingrao, ripensa alla sinistra alle sue spalle, a quel lungo tratto di storia fatto di conflitti e condivisioni. La cofondatrice del manifesto fa di Ingrao un ritratto commosso e inedito.
Rossanda, quale sentimento prova? E un’epoca che si chiude…

«Assolutamente sì, è un’epoca che con lui finisce ».

Cosa di Ingrao in questo momento vuole ricordare?

«Il suo modo di porsi delle domande, gli interrogativi. Talvolta anche esagerati. Talvolta lo hanno bloccato nelle scelte».

Ingrao disse poi di essersi pentito di avere votato per l’espulsione dal Pci di voi del gruppo del “manifesto”. Ammise che gli era mancata “l’immaginazione e il coraggio” per seguirvi?

«Affermò che si trovò solo nelle battaglia e che noi l’avevamo abbandonato. Non andò così».

Lei gli rimproverò di non essere stato abbastanza determinato?

«Si. Penso che sarebbe stata un’altra strada per il movimento comunista italiano se lui avesse attaccato il partito di Occhetto di cui non condivise la svolta. Non che il coraggio gli mancasse ma a prevalere fu la volontà di proteggere il partito, che per lui non era solo il gruppo dirigente ma qualche milione di persone che si sentivano rappresentate. Davvero tutta la storia di Rifondazione comunista sarebbe stata diversa e forse a sinistra dell’allora Pci ci sarebbe stata un voce più forte di quella di Garavini e di Bertinotti. Ma Pietro non lo volle fare».
Cosa era il comunismo per Ingrao?
«Cosa fosse nei suoi pensieri non lo so. Dello sviluppo dell’Urss, della Cina e di Cuba non abbiamo mai parlato, né lui ha scritto nulla. Però va fatta un’osservazione: la storia del comunismo reale di questi paesi non l’ha fatta lui come non l’ha fatta nessuno di noi. Se la storia è andata come è andata, chiunque di noi oggi può dire “forse ho sbagliato anche a tentare”. A Pietro non è venuto mai questo dubbio, di avere cioè sbagliato anche a tentare».
Della parola comunismo voleva preservare il valore evocativo?
«Non credo, piuttosto ritengo che lui pensasse che fosse il solo modo di uscire da una crisi molto grave della società contemporanea».
Una cosa che vale anche per lei?
«Per me sì. Ciascuno alla domanda risponde diversamente. Oggi la gran parte dei movimenti di base vengono da tradizioni diverse».
Quale episodio le piace ricordare di Ingrao?
«Ingrao era il punto di riferimento di una grossa sinistra interna nel Pci negli anni Sessanta. Era un fronte molto più vasto di quanto non fossimo noi “eretici” del manifesto , ogni volta che prendeva la parola era sommerso dagli applausi. Fu così anche nel congresso in cui tutta la direzione del Pci lo isolò. Fu messo rispettosamente ma completamente da parte. Mi piacerebbe sapere se Berlinguer, quando capitò a lui in seguito di trovarsi solo, non si sia chiesto se aveva fatto un errore grave ad allontanare Ingrao. Perché Ingrao non era un estremista, ma un uomo politico molto moderno, un riformista determinato, uno che avrebbe fatto ordine nel partito non camminando sui cadaveri».
Ma di Ingrao a lei cosa piaceva?
«Il bisogno di capire al di là delle formule».
Cosa vuol dire oggi essere di sinistra?
«Ma cos’è la sinistra? La bussola dell’uguaglianza non c’è quasi nessuno che ce l’abbia. Non c’è più una differenza tra una posizione di centrodestra e una di centrosinistra, Renzi ne è un esempio folgorante ».
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La grande eresia
di Guido Crainz Repubblica 28.9.15
È STATO un alto testimone del Novecento, Pietro Ingrao, e al tempo stesso della storia del comunismo italiano nelle speranze e nei drammi di un secolo. Un alto testimone, anche, di contraddizioni brucianti. In Volevo la luna ha raccontato benissimo una parte del suo percorso.
DAGLI ANNI giovanili, dall’adesione all’antifascismo e al Pci sino ai mesi terribili del rapimento di Moro, che visse come primo presidente comunista della Camera. Un percorso scandito dalla Resistenza, dalle speranze dell’immediato dopoguerra e poi dalla sconfitta elettorale delle sinistre nel 1948. Sino alla presa d’atto di una sconfitta ancor più grande, ed era il 1956: con le illusioni alimentate dal XX Congresso del partito comunista sovietico, prima, e poi con il trauma dell’invasione dell’Ungheria. L’ «indimenticabile 1956», fu lui a coniare quella definizione: una citazione di un vecchio film sovietico, ha ricordato (quasi una “richiesta d’aiuto” alla sua passione per il cinema nel momento più terribile). Iniziò da lì il vero dramma del comunismo italiano, iniziò nel momento in cui quella “rivelazione” non fu compresa per quel che era. Per le menzogne che lacerava, per le tragedie su cui gettava fasci di luce cruda. Ingrao l’ha vissuto per intero, quel dramma. In qualche modo ne è stato prigioniero, forse, ma ha vissuto la contraddizione con quel rigore intellettuale, quella coerenza morale, quell’ansia intellettuale che sono il suo segno distintivo più forte.
Iniziava a trasformarsi profondamente l’Italia, in quel declinare degli anni Cinquanta, e Ingrao fu fra i primi a dire all’interno del Pci che «l’arretratezza italiana» su cui il partito ancora insisteva stava diventando un ricordo del passato. Ed era quindi necessario misurarsi con la nuova «modernità» del Paese (con il neocapitalismo, per usare i termini di allora), con i nuovi squilibri che induceva ma anche con le sue potenzialità. Scompariva davvero la vecchia Italia, allora. Iniziava la fuga dalle campagne di quei braccianti e di quei mezzadri che avevano largamente aderito al “partito nuovo” togliattiano, la stessa classe operaia si trasformava profondamente ed erano messi in discussione gli orizzonti culturali su cui si era formata larga parte della classe dirigente della Repubblica.
La grande eresia di Pietro Ingrao fu quella di dire che non si poteva comprendere e trasformare quel mondo con il centralismo (anti)democratico vigente nel partito. Fu il tema che portò sino alla tribuna dell’XI congresso del Pci, nel 1966, nonostante i durissimi attacchi che aveva ricevuto all’interno del gruppo dirigente e sapendo bene che avrebbe pagato di persona. Fu sconfitto, e quella sconfitta lo segnò in profondità. Se non si comprende cos’ha significato essere “comunisti italiani” non si comprende neppure perché accettò poco più tardi l’espulsione del gruppo, cresciuto alla sua scuola, che aveva fondato il manifesto (Natoli, Rossanda, Pintor, Magri, Castellina e altri ancora). Un grande errore, ha riconosciuto poi, ma del tutto inscritto in una più lunga storia.
Ha risposto a quei nodi con una riflessione mai abbandonata sul rapporto fra socialismo e democrazia: sul rapporto fra “masse e potere”, per citare il titolo di un suo libro, sulle forme di democrazia partecipata e su altro ancora. Restando fedele al suo essere “comunista italiano” anche quando il comunismo internazionale e il Pci scomparvero insieme. Figlio del secolo, di nuovo: di quel secolo. Con quel rigore intellettuale e con quelle passioni intellettuali, dal cinema alla poesia, che lo hanno accompagnato fino all’ultimo. 

Pietro Ingrao, il comunista che voleva la luna
Morto a 100 anni. Una vita di battaglie dure e difficili, dentro e fuori del partito. Ma il mondo che sognava non è mai arrivato: “C’è poco da fare, siamo stati sconfitti”di Riccardo Barenghi La Stampa 28.9.15
È morto nel sonno, ieri pomeriggio verso le quattro e mezzo, nella sua casa del quartiere Italia, a Roma. Pietro Ingrao aveva compiuto 100 anni il 30 marzo. Ieri mattina ha avuto ancora la forza di fare colazione, ma da diversi mesi la sua vita scorreva in una sorta di letargo.
Le figlie e il figlio Guido (nome da partigiano di Pietro) si sono precipitati nell’appartamento del padre, e così gli innumerevoli nipoti e bisnipoti. Telefonate, messaggi, parenti, amici, leader politici, compagni di partito e di politica. E le istituzioni, a cominciare dalla presidente della Camera Laura Boldrini: si tratta anche di organizzare i funerali, l’ultimo saluto a uno storico dirigente del Pci e della sinistra comunista, nonché a sua volta presidente dell’assemblea di Montecitorio dal 1976 al 1979.
Tribuna dalla quale seguì minuto per minuto il drammatico rapimento di Aldo Moro sfociato nel suo assassinio.
Un’ora dopo la morte, Ingrao è steso sul letto: dimagrito ma non trasfigurato, nessuna malattia l’aveva colpito. Ha potuto lasciare la vita così, senza accorgersene.
Errori e orrori
Quasi cent’anni prima, quando era un bambino, Ingrao una sera d’estate aveva rifiutato di fare la pipì nel vasino. I genitori insistono ma niente, lui non cede. Alla fine il padre gli promette un regalo. Pietro accetta, fa la sua pipì, guarda il padre e gli fa: «Voglio la luna». Ma nessuno può dargliela, lui si arrabbia e sbotta: «E io rivoglio la piscia mia». L’episodio è una metafora della sua vita: la luna era la rivoluzione, il comunismo. O meglio un mondo che, attraverso il comunismo, sarebbe diventato più giusto, migliore.
Quel mondo non è mai arrivato, il comunismo è fallito, lo stesso Ingrao ne ha visti e denunciati gli errori e gli orrori (non sempre nel tempo giusto, come lui stesso ammetterà), la luna è rimasta lì dove è sempre stata. E adesso anche lui esce di scena dopo aver raggiunto il secolo di vita.
Un secolo, appunto, quel Novecento che, come lui stesso ha detto e scritto tante volte, è stato il periodo che ha visto i cambiamenti, i terremoti sociali e politici più importanti della storia. Dalla Rivoluzione russa al fascismo, dal nazismo alla Resistenza, dai lunghi anni di scontro con la Dc al crollo del Muro di Berlino e alla morte del Pci, fino alle guerre moderne, cominciate con quella del Golfo nel ‘91 e non ancora finite. Una lotta dopo l’altra, col partito ma anche dentro al partito. Lotte dure, difficili da vincere, e infatti lui nelle tante interviste o conversazioni fatte nel corso del tempo ha sempre enfatizzato con amarezza il risultato ottenuto: «C’è poco da fare, siamo stati sconfitti. È inutile nascondersi la realtà, per quando dura e difficile possa essere». E c’è un’altra metafora che sintetizza perfettamente il concetto, una sua poesia di poche parole: «Pensammo una torre / Scavammo nella polvere».
Tuttavia Ingrao la sua vita non l’avrebbe voluta indietro come la pipì. Se avesse potuto tornare indietro, avrebbe rifatto quello che ha fatto, quella «scelta di vita» - come la chiamò il suo compagno-avversario Amendola - Ingrao non l’ha mai messa in discussione, non si è mai pentito di essere stato comunista. Orgoglioso, a volte entusiasta di questa sua militanza così lunga e profonda. Ma spesso critico, autocritico, perfino sofferente di fronte ai grandi e drammatici fatti che hanno segnato la storia della sua «fede».
Cinema e poesia
Una storia talmente lunga e ricca che è difficile anche cominciarla. Negli anni Trenta era appassionato di cinema e di poesia, la politica non la considerava la sua missione. La scossa è arrivata con la guerra di Spagna, è a quel punto che Ingrao si schiera e parte per la sua avventura comunista. Seguirà la Resistenza, la clandestinità, la Liberazione, la direzione dell’Unità, il rapporto strettissimo ma anche conflittuale con Palmiro Togliatti, il suo famoso editoriale intitolato «Da una parte della barricata» in cui appoggiava l’invasione sovietica dell’Ungheria, editoriale di cui non ha mai smesso di pentirsi. E qui va ricordato un altro episodio: dopo aver scritto quell’articolo, rispettando la disciplina di partito, Ingrao andò a trovare proprio il leader del Pci per comunicargli il suo sgomento per quell’invasione. Togliatti gli rispose secco: «Oggi io ho bevuto un bicchiere di vino in più». Non voleva dire che aveva brindato ai carri armati, probabilmente, ma l’interpretazione autentica di quel bicchiere nessuno l’ha mai saputa dare.
Ed è dopo la morte di Togliatti che comincia la storia di Ingrao leader della minoranza del partito. La sua battaglia per la democrazia interna, la critica al comunismo reale, quello sovietico, sfociano nel congresso del 1966, l’XI, dove Ingrao e i suoi (quelli che qualche anno dopo fecero nascere il Manifesto e per questo furono radiati dal Pci con il voto favorevole del loro stesso maestro: altro episodio di cui Ingrao si è sempre autocriticato ferocemente) vennero duramente sconfitti: «Cari compagni, mentirei se vi dicessi che mi avete convinto», pronunciò dalla tribuna.
Una frase storica perché metteva in piazza, per la prima volta nella storia del Pci, il dissenso. Viene applaudito a lungo, una standing ovation si direbbe oggi, ma è un omaggio che non cambia i rapporti di forza. Vincono Longo, Amendola, Pajetta, Alicata, Napolitano col quale seguirono parecchi scontri politici. Qualche anno dopo saranno loro a eleggere Enrico Berlinguer segretario del Pci. I due, Berlinguer e Ingrao, avranno sempre un rapporto leale, ma difficilmente riusciranno a trovare punti profondi di convergenza politica.
La scoperta di Internet
Il resto è storia recente, lo strappo di Occhetto, l’opposizione del vecchio leader della sinistra (che all’epoca aveva «solo» 75 anni), la sua uscita solitaria dal Pds, la sempre più accentuata ritrosia a occuparsi della politica politicante (negli anni Ottanta si era appassionato dei video musicali, la sua curiosità per le novità era notevole, tanto che ultimamente aveva addirittura aperto un sito Internet).
Pensava molto alla guerra come paradigma del mondo moderno. Era nato durante la Grande guerra, aveva vissuto da giovane la «terribile» Seconda guerra mondiale, aveva combattuto per il Vietnam, si era schierato contro tutte le guerre «americane» degli ultimi venticinque anni. È morto senza riuscire a trovare la pace, e nemmeno la luna.

Il comunista che amava il dubbio e voleva la luna
di Paolo Franchi Corriere 28.9.15
Se ne è andato a cent’anni un pezzo, e che pezzo, non solo della storia del Pci e della sinistra, ma anche e soprattutto, se l’espressione nell’Italia dei novissimi ha ancora un senso, della storia repubblicana. Perché Pietro Ingrao, nato nel 1915, nel Novecento italiano, e pure nel primo scorcio del Terzo Millennio, si è tuffato, o si è sentito buttato dentro, nel 1936, con la guerra di Spagna .
Poi Pietro Ingrao ha nuotato senza risparmio di sé finché ha avuto un minimo di energie per farlo. Nel Pci, finché c’è stato il Pci. Ma, prima e dopo, guardando oltre i confini del suo partito. Ai movimenti, sì, senza lasciarsi rinchiudere, se non da compagni e avversari avvezzi all’uso e all’abuso della banalità come strumento di lotta e di aggressione politica, nel movimentismo. Ma pure, eccome, alle istituzioni, allo Stato, a interlocutori molto lontani da lui, che a torto o a ragione gli sembravano interessati a tessere le fila di un discorso di cambiamento e di riforma. La cosa potrà sembrare strana o insensata a giovani politici di successo che si fanno un vanto di non avere passato e di non coltivare memoria. E però nel 1969 — lo stesso anno dell’autunno caldo che visse come un inveramento forse insperato delle sue posizioni sconfitte all’undicesimo congresso del Pci, lo stesso anno in cui i suoi compagni più cari, quelli del «manifesto», venivano radiati dal partito — fu lui, Ingrao, il primo interlocutore di Ciriaco De Mita non sul compromesso storico, che non convinse mai nessuno dei due, ma sulle riforme istituzionali che avrebbero potuto sbloccare la democrazia italiana. Più tardi, lasciata nel 1979, la presidenza della Camera, fu ancora lui ad avviare, con il Centro per la riforma dello Stato, il primo confronto di merito con le socialdemocrazie europee in tempi in cui, per i comunisti, socialdemocrazia era una parolaccia. E nella seconda metà degli anni Ottanta fu sempre lui il più radicale fautore del monocameralismo.
Tutto questo solo per ricordare che stiamo parlando di una personalità complessa, molto più complessa, del cliché dell’acchiappanuvole consegnatoci da tanti suoi ex compagni del vecchio gruppo dirigente comunista. Ingrao fu amato, amatissimo, dalla sua gente: il che, tocca dire, capita raramente agli intellettuali inclini all’astrattezza. Indimenticabile, per chi la ha vissuta, resta l’ovazione che gli riservò, correva l’anno 1966, la platea dell’undicesimo congresso del Pci, quello della sua sconfitta e del suo isolamento, mentre la presidenza dei vincitori lo guardava gelida: chissà quanto e come sarebbe cambiata la storia italiana, non solo quella del Pci e della sinistra, se il diritto a non essere d’accordo rivendicato da Ingrao non fosse stato liquidato come la più inammissibile delle eresie .
Ma tornano pure alla mente le parole con cui Ettore Scola spiegò perché volle collocare una scena chiave del suo film «Dramma della gelosia, tutti i particolari in cronaca» all’interno di un comizio di Ingrao a piazza San Giovanni. Perché, disse, tra i dirigenti comunisti lo sentivo il più vicino al dramma della povera gente: probabilmente oggi molti salirebbero in cattedra a spiegarci che si trattava, né più né meno, di populismo, dimenticando, o fingendo di dimenticare, che una sinistra senza popolo semplicemente non esiste.
Forse questo ha qualcosa, o molto, da spartire, con l’espressione, all’apparenza ermetica, cui Ingrao fece ricorso per spiegare, sul finire del 1989, la sua opposizione alla svolta di Achille Occhetto. Che, secondo lui, non solo cancellava un orizzonte ideale senza il quale il partito, comunque denominato, avrebbe perso la sua stessa ragion d’essere, ma tagliava seccamente un «grumo di vissuto», una storia collettiva fatta anche di un’infinità di microstorie: liquidava cioè quella capacità di stabilire un nesso tra passato, presente e futuro senza il quale (Matteo Renzi andava ancora a scuola) l’agire politico si snoda istante dopo istante, annuncio dopo annuncio, improvvisazione dopo improvvisazione. Forse sbagliava Ingrao, e così radicalmente da ritrovarsi per un tratto alleato, proprio lui, di quelle componenti più conservatrici del Pci che per una vita lo avevano contrastato, considerandolo una specie di matto in casa. Ma la sua preoccupazione, come dimostrano le tristi sorti del postcomunismo italiano, e più in generale quelle della Seconda Repubblica, non era infondata, e in ogni caso non era spiegabile solo come un rigurgito di passatismo.
Si ritrasse, allora, Ingrao, dalla milizia politica quotidiana. Non dalla politica, però, dentro il cui gorgo stava da più di cinquant’anni, e che continuava a rappresentare il fulcro della sua esistenza, anche quando poetava — ed è stato un poeta vero, non un dilettante della domenica — o si occupava di cinema, l’altra grande passione (memorabili le pagine su Charlie Chaplin, e non solo) della sua vita. Continuò a provare quella capacità di indignarsi senza la quale, pensava, l’impegno politico non ha senso, ma non diventò mai un indignato in servizio permanente effettivo: «Indignarsi non basta». Riguardò molto criticamente il passato. Ma restò comunista, come può esserlo un eterno sconfitto che, per provarsi a cogliere il senso di una storia e di una vita, ha scritto, in una delle sue poesie più dolenti: «Pensammo una torre/ scavammo nella polvere». Forse è anche per questo che tante generazioni di giovani, non solo nel Pci, gli hanno voluto bene, o almeno lo hanno rispettato e lo rispettano, sul serio. Di sicuro è anche per questo che a molti giovani di tanti anni fa, che diventando adulti e poi anziani hanno seguito percorsi così diversi dal suo, il centenario Ingrao mancherà moltissimo. 


Il ricordo «Quei mocassini in dono per dirgli: cammina con noi»
Castellina: votò per l’espulsione del gruppo del Manifesto, ma l’affetto non si è mai incrinatodi Giovanna Cavalli Corriere 28.9.15
ROMA «No, uno come lui non ci sarà più. Era un combattente, un leader. Però non ha mai pensato che rappresentare la maggioranza significasse avere sempre e comunque ragione. Pietro possedeva una dote umana rara: sapeva e amava ascoltare i pareri degli altri. Ti domandava sempre: ma tu come la vedi, tu che faresti?».
Luciana Castellina, 86 anni, ex deputata ed ex ingraiana, scrittrice, cofondatrice de il Manifesto risponde da Barcellona («Siamo qui in una fabbrica dismessa a seguire le elezioni catalane, oh, aspetti che devo tirare su una bambina che è scivolata correndo, ha un anno e mezzo: è la nipotina di Enrico Berlinguer»).
Una volta, una importante, siete stati quasi nemici. Nel 1969 il comitato centrale del Pci propose la sua radiazione, con il gruppo de il Manifesto: Natoli, Rossanda, Pintor, Magri. E Ingrao votò per il sì.
«Fu una rottura importante. Ce ne andammo. Pietro era convinto che bisognasse restare “nel gorgo”, non isolarsi dal grosso del popolo».
Avrebbe dovuto seguirvi?
«Impensabile, sarebbe stato un gesto troppo forte, noi invece eravamo giovani e con meno responsabilità».
Gli portò rancore per quell’esilio dal partito?
«Rancore mai. Ci furono momenti di freddezza, di tensione. Qualche anno più duro, poi un po’ alla volta ci siamo riavvicinati. L’amicizia, vera, non si è mai interrotta».
Vi siete ritrovati nella battaglia contro lo scioglimento del Pci. Riuniti dalla celebre Mozione 2 .
«Nel frattempo, dopo 15 anni, fallita la politica del compromesso storico, Berlinguer ci aveva invitato a rientrare. Perdemmo, si sa. Abbiamo poi condiviso le battaglie del movimento pacifista. Newsweek scrisse che eravamo la terza potenza mondiale. Forse non era vero e comunque non bastò».
Se va indietro nel tempo se lo ricorda quando.. .
«Quando io e Alfredo Reichlin ci sposammo e lui ci fece da testimone. Era il 1953, al Comune di Roma, officiava Aldo Natoli, ho ancora le foto. Pietro ci regalò un disegno di Guttuso, raffigurava una capra. Ce l’ha Alfredo da qualche parte».
Lei, per i suoi 50 anni, gli fece un presente particolare.
«Lui era molto sobrio nel vestire, portava solo scarpe con i lacci. Io e Sandro Curzi gli comprammo un paio di mocassini, non li aveva mai portati. Con un biglietto: “Cammina coi tempi, cammina con noi”».
E ne fu contento?
«Se li è messi tanto».
A marzo ne compì 100 e lei gli ha dedicato un lungo ricordo su « il manifesto» .
«Ci siamo visti fino a pochi mesi fa. Si parlava di politica. Era molto polemico con il Pd, con quello sguardo più lungo che hanno le persone anziane. Il suo dispiacere era che si fosse dispersa la grande forza del vecchio Pci».
Il nuovo che è avanzato non gli piaceva?
«No. Gli ingraiani erano i rinnovatori, ma questo è solo la reinvenzione della Dc». 

Addio Pietro Ingrao grande giovane vecchio del comunismo 

Eretico, coscienza critica della sinistra, partigiano. Fu padre della Repubblica e presidente della Camera. Criticò la svolta della Bolognina. Aveva compiuto cento anni

FILIPPO CECCARELLI Repubblica 28 9 2015
«E ora lente/ si riempiono, si nutrono/ della pioggia,/ figlie della solitudine:/ assenti al mondo,/ mutilate spoglie/ fuggite al loro tempo». Così comincia una poesia che Pietro Ingrao ha intitolato Statue , e anche per questo si ha qualche remora a fargli un monumento annaffiando questo straordinario personaggio di retorica e solennità.Dodici anni orsono, d’altra parte, alla bella età di 88, in mancanza di taxi Ingrao salì per la prima volta in motorino e si fece condurre per tempo a Montecitorio, dove l’ex presidente della Camera, che pure avrebbe diritto a una macchina con autista, doveva presentare un libro. A 89 anni, vinta ogni residua diffidenza per la “lingua dell’impero”, riscoprì i Beatles.

Un giorno, con lieto scandalo, confidò che rimpiangeva Scelba. E dire che nel 1960 a Porta San Paolo la Celere, altrimenti detta “la Scelbere”, gli aveva spaccato la testa a manganellate, ma l’indomani era già di nuovo in piazza bendato come una mummia. Quando ai tempi del Vietnam arrestarono sua figlia, all’autorità di Ps che gliene dava comunicazione ruggì: “Buon sangue non mente!”

Che personaggio! Nei penultimi anni della sua vita centenaria, quando con ambigua formula si può dire che era ormai fuori dalla politica attiva, in realtà seguitò più di tanti a farla scrivendo del mare celeste di Sperlonga, ispirandosi alla quotidianità della sua colf filippina, immedesimandosi nel Bobo di Staino, girando per eremi e chiese a parlare di Gesù; e una volta, senza malizia, fece intendere di preferire a D’Alema la tabaccaia tettona di Amarcord, per la quale compose un delizioso epicedio.

Ma la sua vera e grande virtù è che egli fece tutto questo e molto altro ancora senza mai perderne in dignità. Sembra impossibile al giorno d’oggi, ma in Pietro Ingrao il candore coincideva con l’autenticità. Ed è questo in fondo che lo fa unico e grande; e per questo si ha qualche ritegno a bloccarlo su uno o sull’altro dei suoi cliché: l’Amleto Comunista lucido e dubbioso; il Ragionatore Instancabile che rafforzava i concetti con la mano a pigna, “c’è un punto” mormorava, “un punto...”; oppure il Patriarca di Lenola, nipote di un garibaldino di ruvida scorza contadina; o magari l’Eretico, l’Eterno Perdente, quando perdere non era senza conseguenze.

Figura politica d’altri tempi. Onestà assoluta. Mai un lamento. Ostinazione senza rigidità. Ingrao perseguì l’utopia dell’ideale, ma prima di tanti dovette riconoscere negli sguardi dei “compagni” lo sfinimento di una politica povera e debole. Come pure la coscienza che il linguaggio non aveva più «la capacità di definire le cose che ci stanno intorno». Eppure ancora oggi suscita ammirazione per quel suo comunismo a tal punto privo di burocratismi e ottusità da apparire quasi libertario. Del destino di quel nome — “comunismo” — Ingrao parlò in modo emozionante nel comitato centrale sulla svolta di Occhetto, nel novembre 1989: «Non un lamento di reduci, ma un grumo di vissuto».

Così forse alla fine è la sua esistenza a evocare qualcosa che supera il suo stesso tempo e assomiglia molto alla poesia, in senso alto, profetico. E viene in mente l’Ingrao che provava «non so se una stretta o uno stupore » dinanzi alla guerra, «quella sfilata di flotte in tv, quelle sagome scure sfreccianti in cielo». Oppure l’Ingrao che prima di ogni altro vide, più che la scissione, la “dissoluzione” del suo vecchio partito; e che mentre tutto veniva giù, «sapete, compagni — gli disse — mi sarebbe piaciuto andare in convento, ma invece ho scelto di rimanere nella metropoli, dove siamo tanti, di tanti luoghi e di tanti colori, e la libertà si costruisce qui dentro».

Poeta d’altra parte lo fu sul serio. Vinse i Littoriali nel 1934 con dei versi sulla bonifica delle paludi pontine. Ha continuato a scriverne fino a vent’anni fa, ma rifiutò il premio di Ciarrapico qualche centinaio di milioni. Ebbe serie sbandate in politica internazionale, Mao, Castro, perfino Khomeini, eppure nessuno ha mai potuto accusarlo di stalinismo.

Certo a volte l’entusiasmo del poeta era travolto dalla complicazione del teorico, e allora, per dire: «La mediazione prismatica che frantuma il rapporto col reale in un seguito di rifrazioni susseguentesi circolarmente senza cogliere mai un centro», frasi da inserto satirico dell’ Unità , e infatti, per quanto autentica, questa la si è presa da lì. Twitter era lontano, ma l’ingraismo, si scherzava, «ha i ragni in testa». Eppure il cuore popolare del Pci, dai fonditori lombardi ai gasisti bolognesi, dagli edili della capitale ai braccianti delle Calabrie, ha sempre adorato il vecchio Pietro; così come non c’è avversario, da Almirante a Berlusconi passando per Dossetti, Moro, Fanfani e De Mita, che gli abbia mancato di rispetto.

La sua biografia rimane come minimo ammirevole. Era entrato nella “cospirazione”, come diceva lui, molto giovane, a Roma, in contatto col gruppo di Amendola, Lombardo Radice, Giolitti, Bufalini, Natoli, Alicata, Trombadori. Tessera del Pci nel 1940. Organizzazione clandestina in Calabria, ricercato nei boschi della Sila. Giornalista, nel 1943 a Milano, primo comizio a Porta Venezia con un microfono rubato da Elio Vittorini. Prima caporedattore e poi per dieci anni direttore dell’ Unità . Quindi protagonista, insieme con Amendola, del rinnovamento del Pci a spese della vecchia guardia. Di lì in poi punto di riferimento della sinistra del partito, sia pure all’interno di una dinamica governata da Togliatti.

È dopo la morte del Migliore che nacquero i primi sospetti di eresia e frazionismo. Sono dispute oggi abbastanza incomprensibili che investono teoria e pratica, diritto al dissenso e giudizio sul centrosinistra. Ma soprattutto l’accusa è che ci fossero gli ingraiani: Reichlin, Rossanda, Pintor, Trentin, il giovane Bassolino, Occhetto e l’intera Fgci, già messa sotto tutela. La resa dei conti all’XI congresso (1966). La destra di Amendola e Alicata ebbe la meglio, donde la diaspora dei seguaci. Ormai sconfitto, resta celebre l’esordio del suo discorso al congresso: «Non sarei sincero, compagni, se dicessi che sono rimasto persuaso». Breve periodo di solitudine e poi la presidenza del gruppo alla Camera, brillante intesa con il suo collega Andreotti. Al culmine dei trionfi di Berlinguer, nel 1976 Ingrao fu il primo comunista a ottenere un posto di rilievo nelle istituzioni. Stimato e imparziale, il nuovo presidente della Camera teorizzò quella “centralità del Parlamento” che si configura come il suo apporto al nuovo clima e alla linea del compromesso storico.
Alla fine della solidarietà nazionale senza polemiche rifiutò di continuare, ponendosi al crocevia fra dissenso e impegno, esilio e studio. Nel 1980 il ritorno in segreteria al fianco del Berlinguer della “diversità”. In realtà, da allora è difficile collocare Ingrao nella movimentata geometria del Pci di Natta e poi di Occhetto, cui prima concede e poi ritira la fiducia dopo la Bolognina e il cambio di nome. Con qualche approssimazione si può dire che riuscì tuttavia a rimanere sopra la nascita del Pds, le peripezie di Rifondazione, per rincorrere quel che di nuovo andava affermandosi. La nebulosa del sociale, la costellazione della democrazia, la lotta delle donne, il pacifismo, l’ecologia, la necessità di antidoti al formarsi di «conglomerati oligarchici a base finanziaria proiettati nel campo del sapere». Straordinaria figura di giovane-vecchio e vecchio-giovane alla ricerca di una cultura all’altezza dei tempi. Ma senza mai rinunciare a quella grazia inconfondibile di umanità che ancora si disvela in una delle sue ultime poesie, L’alta febbre del fare , che dice: «Per gli incolori/ che non hanno canto/ neppure il grido,/ per chi solo transita/ senza nemmeno raccontare il suo respiro,/ per i dispersi nelle tane, nei meandri/ dove non c’è segno, né nido,/ per gli oscurati dal sole altrui,/ per la polvere/ di cui non si può mai dire la storia,/ per i non nati mai/ perché non furono riconosciuti,/ per gli inni che nessuno canta/ essendo solo desiderio spento,/ per le grandi solitudini che si affollano/ i sentieri persi/ gli occhi chiusi/ i reclusi nelle carceri d’ombra/ per gli innominati,/ i semplici deserti:/ fiume senza bandiere senza sponde/ eppure eterno fiume dell’esistere”. Eppure. E bisognava ascoltarlo mentre la leggeva lui, con quella faccia, con quella voce. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Il paesaggio che annuncia l’altrove del comunismo 

La Storia di Pietro. Nel suoi libri il ritorno nei luoghi dell’infanzia che lo hanno poi visto incamminarsi verso la maturità. Terre aspre, ma anche spazi dove il passato si apre a un desiderato futuro di libertà e uguaglianza 

Alberto Olivetti  31.3.2015, 0:27 Aggiornato 23.5.2015, 16:07 

La descri­zione del pae­sag­gio che intro­duce l’autobiografia Volevo la luna di Pie­tro Ingrao è con­dotta nel rispetto delle regole della perie­gesi antica ove si pro­fi­lano i con­torni d’un ter­ri­to­rio per­cor­ren­dolo secondo i tra­gitti che vi hanno trac­ciato gli acca­di­menti inter­corsi nel tempo, eventi con­ser­vati in una memo­ria tanto tenace da con­fe­rire ai luo­ghi un loro rico­no­sci­bile senso. 

Pagina impron­tata, non per caso, al tempo imper­fetto a deno­tare una dimen­sione che per­mane costante e dura intatta tra pre­sente e pas­sato. Credo sia oppor­tuno tenere in par­ti­co­lare conto que­sta viva con­giun­zione tra inal­te­rato e mutante che il ricorso all’imperfetto con­sente di resti­tuire nella scan­sione di un non com­piuto che si atte­sta come un per sempre. 

È pro­ba­bile che in Ingrao un ammae­stra­mento alla natura e ai luo­ghi sia stato pre­coce ed abbia ali­men­tato la sua edu­ca­zione al pae­sag­gio. Sta di fatto che, in una rac­colta di con­ver­sa­zioni con Ingrao che Maria Luisa Boc­cia e chi scrive ha rac­colto con il pro­po­sito di pub­bli­carla sotto il titolo Verso la Grotta di Tibe­rio, Ingrao ricorda: «Mia madre, Cele­ste Nota­r­janni, con­ser­vava, tra altre carte di fami­glia e scritti, il cele­brato Viag­gio per l’Ausonia. Ram­mento d’aver letto, ragazzo, quelle pagine dove Fran­ce­sco Anto­nio Nota­r­janni descrive, agli inizi dell’Ottocento, i luo­ghi e i paesi che si sten­dono fra il Liri, i Vol­sci e il mare e rin­trac­cia negli scrit­tori clas­sici, nei reperti e nelle iscri­zioni, la vicenda degli anti­chi Ausoni». 

La rico­stru­zione sto­rica, atte­stata nel culto dei monu­menti, san­ci­sce l’identità d’un luogo. Quando è in grado di resti­tuir­gli un nome, la nomina, evo­can­dola dall’oblio seco­lare e, col nome, ne con­se­gna al pre­sente l’antica gran­dezza. Nota­r­janni, si avvale nei suoi scritti sulla for­miana regio, del pas­sato remoto e del pre­sente. Ingrao ricorre all’imperfetto. Perché? 

Chie­dia­moci: che signi­fica paesaggio? 

Una domanda tanto esi­gente sol­leva molte que­stioni. Per impo­stare una rifles­sione mi avvalgo della Pala della Annun­cia­zione, con i santi Ono­rato e Mauro di Cri­sto­foro Scacco, rea­liz­zata dall’artista pado­vano nel 1499 per la chiesa cat­te­drale di San Pie­tro a Fondi. 

Nel com­parto di sini­stra della vene­rata tavola si con­tem­pla Sant’Onorato. Sostiene in palmo di mano il Castello baro­nale di Fondi. Ne rico­no­sciamo la invitta torre cilin­drica del maschio, eretto da pochi anni, quando Cri­sto­foro lo raf­fi­gura. Ed ecco, il santo pro­tet­tore lo eleva nello splen­dore dell’alto dei cieli, lo pre­serva nel tempo impe­ri­turo della glo­ria. Così la salma di Ono­rato aveva pre­ser­vato Fondi dal con­ta­gio di morte che incru­de­liva, nell’anno mille due­cento quin­dici di nostra sal­vezza. Ora custo­di­sce, intatto ed intan­gi­bile, il monu­mento epo­nimo della città. Una volta per sempre. 

Simul­ta­nea­mente, qui, davanti a noi, nel castone d’un altro com­parto della Pala, por­tando noi lo sguardo tra le aeree quinte for­mate dai due corpi ange­lici, di là del pavi­mento della stanza di Maria, scor­giamo netti il Castello e il con­ti­guo Palazzo Cae­tani, deli­neati da Cri­sto­foro sur le motif, immersi nella dimen­sione dell’ora quo­ti­diana, pre­sente e viva. Ne sen­tiamo il suono. Ci giunge con le voci dei tre uomini appie­dati — il primo qual­che passo avanti — e del quarto, a cavallo, che, oltre­pas­sato l’arco get­tato a col­le­gare Palazzo e Castello — sotto il quale altri due vediamo indu­giare — pro­ce­dono ora lungo il muro donde ver­deg­giano al sole le fronde pri­ma­ve­rili di deli­cate piante, nel ven­ti­cin­que­simo giorno di marzo, a Fondi, poca gente in strada.
Il dipinto di Cri­sto­foro Scacco crea un «pae­sag­gio», com­bi­nando eter­nità e quo­ti­dia­nità lo pro­duce, lo col­loca di fronte a noi e lo affida alla nostra rece­zione. Si atte­sta come pae­sag­gio indu­cendo lo stato d’animo che alterna effi­mero ed eterno. 
Veri­fi­chiamo nelle coor­di­nate della Pala dell’Annunciazione il tempo immu­ta­bile della glo­ria e il tempo tran­seunte dell’esistenza nostra accolti nello spa­zio della nostra rico­no­sci­bile dimora. 
Pae­sag­gio si con­verte in dimora. Il luogo natale anima una iden­tità inte­riore par­te­ci­pata con altri in ter­mini tali, cor­ri­spon­denti tanto, da con­no­tare una con­di­visa appartenenza. 
Nella pala di Cri­sto­foro Scacco, l’annuncio del Verbo che si fa carne fio­ri­sce in Glo­ria. Sovra­sta per un verso e per un verso risiede, si accampa. Quell’accadimento epo­cale innalza al cielo il Castello nelle mani di sant’Onorato e si appog­gia, tocca terra nel Castello di Fondi e nel Palazzo Cae­tani, lungo il recinto del giar­dino chiuso, abbiam visto. Effi­mero e permanente. 
«La durata intrin­seca e spe­ci­fica della città, la sua inten­sità – ha scritto Rosa­rio Assunto – il tempo che in essa rap­pre­senta se stesso nello spa­zio, anzi come spa­zio; la suc­ces­sione che nella città si capo­volge in simul­ta­neità. Il tempo della città, la durata della città, la sua suc­ces­sione, è il tempo della sto­ria, la suc­ces­sione e durata della sto­ria. Epo­che ed eventi, isti­tu­zioni, e cre­denze, e costumi, e cul­ture suc­ces­sive, che diven­tano simul­ta­nee nella imma­gine spa­ziale della città».
Chi sia nato a Fondi, ogni qual volta volga lo sguardo alla torre del Castello, sa di sof­fer­marsi là dove si sono pog­giati gli occhi dei suoi per anni e anni, i vivi e i morti: «vive insieme – dice Assunto – il pre­sente e il pas­sato: istanti nei quali l’oggi con le sue cure e i suoi inte­ressi e le sue attese è insieme se stesso e una età remota: quella delle costru­zioni che ci attor­niano, del trac­ciato che per­cor­riamo». Men­tre tra­scorre le ingial­lite pie­tre dell’imponente antica fab­brica, quel suo sguardo dise­gna un’architettura della mente, con­duce a un edi­fi­cio che egli trova costruito den­tro sé stesso, lo invita ad attra­ver­sare le vaste aule che in cia­scuno di noi si aprono secondo una suc­ces­sione di ambienti, una teo­ria di stanze quali Ago­stino per primo, forse, ci indusse a visi­tare: noi, esor­tati ad aggi­rarci par­te­cipi nei tran­siti della nostra memoria. 
«Grande – dice Ago­stino — è que­sta potenza della memo­ria. Ammi­rare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le cor­renti amplis­sime dei fiumi, la cir­con­fe­renza dell’Oceano, le orbite degli astri den­tro di me, nella memo­ria tanto estesi come se li vedessi fuori di me». 
Spe­cu­lare osser­vando, «ospi­tare nella mente», intus in memo­ria mea, con l’attitudine di chi voglia inten­dere il mondo in un con­tatto libero da ragioni stru­men­tali e mosso, invece, da pres­santi domande intorno a un suo arduo signi­fi­cato. È que­sto un sen­ti­mento che Ingrao cono­sce bene, costante in lui nel corso degli anni e più volte acco­stato in forma dilem­ma­tica alla dimen­sione ope­ra­tiva e tra­sfor­ma­trice che ha ani­mato il suo impe­gno poli­tico. Fino a dare un senso di inter­ro­ga­zione e pro­ble­ma­ti­cità ai medi­tati bilanci e alle intense rifles­sioni che Ingrao ha dedi­cato alle vicende del comu­ni­smo dopo il 1945. In una delle con­ver­sa­zioni, delle quali ho avuto modo di far cenno, Ingrao torna, sul filo della memo­ria, alla casa natale e ai luo­ghi della sua prima infan­zia, a Lenola. 
Riguardo ai signi­fi­cati rac­chiusi negli sti­lemi del pae­sag­gio ai quali Ingrao, con par­ti­co­lare pre­di­le­zione, anche in que­sta pagina ricorre, uno, e di rile­vanza spe­ciale, pare con­den­sato in frasi come «si for­mu­lava per me la par­venza dell’isola come un da rag­giun­gere. Un da rag­giun­gere che emer­geva e sva­niva sul filo dell’orizzonte». 
Le cose impos­si­bili, titolo d’uno dei libri di Ingrao sono le «cose» che tra­ve­diamo, che tra­guar­diamo come oltre. L’oltre, una costru­zione della mente che finge inter­mi­nati spazi e, poi­ché dispone lo spa­zio effet­tuale ad una deter­mi­nata com­po­si­zione pro­spet­tica, fa, del luogo sen­tito come aper­tura a un da rag­giun­gere, un paesaggio. 
Mobili nell’indurre, nel con­fi­gu­rare un oltre i per­si­stenti fon­dali auso­nii di Ingrao. Come nella antica pala d’altare di Cri­sto­foro Scacco, il pae­sag­gio nella pagina di Ingrao si apre ad acco­gliere, nella descri­zione di un luogo deter­mi­nato, una posi­zione dell’animo e della mente, della cono­scenza e della emo­ti­vità, cioè dello spirito. 
Una natura allu­siva dun­que, nelle sue parole, quella del pae­sag­gio natale. Allude alla com­bi­na­zione di pre­sente e di pas­sato. Quo­ti­diano e memo­ria. Il qui e l’oltre. 
V’è per certo un para­digma che mostra con per­fetta evi­denza i nessi tra pre­sente attuale e pre­sente inat­tuale, tra atto della Glo­ria e attuo­sità della deter­mi­na­zione quo­ti­diana, nel giorno per giorno della vita di ciascuno. 
Tale para­digma, raf­fi­na­tosi lungo i secoli nell’ordine teo­lo­gico, ha for­nito un para­me­tro costante di valenza poli­tica alle istanze di libe­ra­zione intese ad affer­mare l’integrale dignità di cia­scuno e di tutti. 
Si dice che tali ragio­na­menti por­tano inu­til­mente lon­tano, che ci allon­ta­nano dalla effet­tiva, con­creta con­di­zione del nostro esi­stere. Dovremmo, invece, credo, e al con­tra­rio, con­ve­nire che que­sti ragio­na­menti ci man­ten­gono vicini a noi stessi. 
Si dice «pae­sag­gio», e, con pae­sag­gio, troppo di fre­quente, si intende una mera con­for­ma­zione della natura, un sito. Ma il pae­sag­gio sito non è. Pae­sag­gio è dimora. E dimora è una deter­mi­na­zione dello spi­rito. Ogni vio­lenza cieca che alla dimora, al pae­sag­gio, sia recata, come con­sta­tiamo ogni giorno, sfi­gura e viola e, infine, è noi che uccide. Noi, il pae­sag­gio inte­riore, quella cogni­zione dei tempi che con­fe­ri­sce senso ai luo­ghi, la stessa che si dà in figura di luogo alla nostra con­sa­pe­vo­lezza. La dimora, ove con­ver­gono e si custo­di­scono per­ma­nenza di memo­ria ed esi­stenza, ovvero cor­ri­spon­denza di affetti e costrutti di senso. 
Pie­tro Ingrao è un uomo che si con­fronta con cru­deli acca­di­menti nel corso della sua lunga vita, mosso da una deter­mi­na­zione attiva, da una par­te­ci­pa­zione appas­sio­nata ai casi del suo tempo. 
Nella fedeltà al pae­sag­gio, l’ager for­mia­nus, la dimora che con tanta inten­sità sente sua, Ingrao, se la let­tura che abbiamo qui svolta non è errata, richiama alla respon­sa­bi­lità che la dimora con­ser­vata entro di noi comporta. 
In essa è un lie­vito che ali­menta lo spi­rito di libertà al quale Ingrao impronta la sua vita.

Quella rottura che ancora ci interroga 
L'articolo. Quei giovani comunisti che entrano all’«Unità» nel 1944. La scelta di Togliatti di chiamare Ingrao alla direzione del giornale della futura classe dirigente. Per dimenticare la Pravda e studiare il modello «Corriere della Sera». E l’ingraismo come superamento del togliattismo, verso un nuovo modello di sviluppo 
Alfredo Reichlin 31.03.2015 Aggiornato 23.5.2015, 16:07 
Comin­cio così col ricordo di quel grup­petto di gio­vani poco più che ven­tenni i quali costi­tui­vano la reda­zione dell’Unità che final­mente usciva alla luce del sole: estate del 1944, una Roma libe­rata dai fasci­sti, esul­tante di gioia , pul­lu­lante di idee e di spe­ranze ma popo­lata anche da “bor­sari neri” e “signo­rine”. In uno di quei giorni arrivò un gio­vane diri­gente con un curioso accento cio­ciaro. Era Pie­tro Ingrao. Fu per me come un vento nuovo rispetto ai “mostri sacri” che veni­vano da Mosca e dall’esilio. 
(… ) Che tipo di comu­ni­sti erano quei gio­vani? Essi non veni­vano da Mosca. Si erano for­mati sui libri, sulle espe­rienze e le inquie­tu­dini di quell’Italia che già si muo­veva sotto la pelle del fasci­smo e che si rivelò di colpo dopo la libe­ra­zione con i film di Visconti e Ros­sel­lini, i qua­dri di Gut­tuso e di Mafai, le poe­sie di Mon­tale, i romanzi di Mora­via e la casa Einaudi. Quei gio­vani veni­vano da sto­rie molto diverse. Che cosa c’era alla base di una mobi­li­ta­zione etico-politica, così intensa e così radi­cale? C’entrava poco il mito sovie­tico, con­tava mol­tis­simo quello che scrisse Giaime Pin­tor nell’ultima let­tera al fra­tello e che anche Pie­tro ci ha detto tante volte: il dovere asso­luto di sal­vare l’Europa dalla bar­ba­rie hitle­riana. La nascita dell’antifascismo come grande cor­rente politico-ideale europea. 
A cia­scuno di quei gio­vani Vit­to­rio Foa avrebbe potuto rivol­gere la domanda che in tempi più recenti pose anche a me. Ma voi cre­de­vate dav­vero nella rivo­lu­zione? In effetti di “rivo­lu­zione” tra i grandi Capi del Pci non si par­lava mai. Si par­lava molto però e con enorme pas­sione, della lotta per cam­biare il tes­suto pro­fondo, anche cul­tu­rale e morale, del paese. 

(…) Que­sta fu la sua grande pas­sione. Immer­gersi nell’Italia vera, ade­rire a “tutte le pie­ghe della società”. Aprire una sezione comu­ni­sta accanto ad ogni cam­pa­nile. E que­sta pas­sione io non l’ho vista in nes­suno così assil­lante come in Pie­tro Ingrao. Il suo comin­ciare non per caso da capo-cronista. La cro­naca dell’Unità tra­sfor­mata in una spe­cie di labo­ra­to­rio per la sco­perta del mondo del sot­to­suolo e dei bas­si­fondi di Roma. Le grandi inchie­ste su Tibur­tino III, Pie­tra­lata, Val Mela­nia, auten­tici lager, informi barac­co­poli in cui il fasci­smo aveva rele­gato all’estrema peri­fe­ria la mano­va­lanza mise­ra­bile venuta a Roma per costruire i monu­menti del regime. Così io comin­ciai a capire che cosa doveva essere un gior­nale di sini­stra, il cui pro­blema non erano i retro­scena del “palazzo” ma la sco­perta dell’Italia vera, con le sue mise­rie, le sue tra­ge­die, le sue violenze. 

Del resto sono cose come que­ste che spie­gano quello strano impa­sto che fu il Pci. Due milioni di iscritti, la mag­gio­ranza degli intel­let­tuali. Su che base si raduna que­sto popolo? Non credo che basti il mito del socia­li­smo, e nem­meno il ruolo che i comu­ni­sti ave­vano avuto nella guerra par­ti­giana. Penso che dob­biamo andare più indie­tro, al modo come si è andato for­mando lo Stato uni­ta­rio, alle sue basi ristrette, all’esclusione delle grandi masse povere, alla frat­tura pro­fonda fra popolo e intel­let­tuali. Per­ché è in que­sto più ampio qua­dro sto­rico che si trova la spie­ga­zione di quell’impasto sin­go­lare che fu la for­ma­zione del gruppo diri­gente del Pci. La con­vi­venza di per­so­na­lità così diverse tra loro: Ingrao e Amen­dola Sec­chia e Di Vit­to­rio, Ber­lin­guer e Napo­li­tano. Il modo come la pic­cola schiera così carica di glo­ria e di auto­rità poli­tica e morale che usciva dalle car­ceri e dai lun­ghi anni del Comin­tern si mischiò con l’altra schiera, quella dei gio­vani cre­sciuti sotto il fasci­smo e pas­sati attra­verso la Resi­stenza. Ciò che avvenne non era un sem­plice inne­sto del nuovo nel vec­chio tronco bol­sce­vico ma la rifon­da­zione di un nuovo partito. 

Di qui l’assillo togliat­tiano di col­ti­vare il rap­porto con i gio­vani vis­suti in Ita­lia, sotto il fasci­smo. Ingrao ne sa qual­cosa e anch’io ne sono testi­mone. Cro­ni­sta par­la­men­tare, appena ven­tenne, la sera, dopo la seduta della Costi­tuente, mi capi­tava di essere invi­tato da Togliatti a man­giare insieme a lui e a pochi altri come Ingrao i filetti di bac­calà in qual­che oste­ria intorno a Mon­te­ci­to­rio. Era curioso di tutto. Ci som­mer­geva di domande, cer­cava di rivi­vere quella vita quo­ti­diana dell’Italia che da venti anni gli era sco­no­sciuta. Lo dico per­ché a me pare che la scelta di Pie­tro Ingrao come diret­tore dell’Unità non fu una deci­sione come tante altre. Su di lui Togliatti fece affi­da­mento per una ope­ra­zione poli­tica e cul­tu­rale molto inno­va­tiva: fare dell’organo del Pci un grande gior­nale popo­lare moderno sia nel senso della dif­fu­sione di massa che della capa­cità di dare conto di tutti gli aspetti della vita sociale: dalla poli­tica alla cul­tura, dalle cro­na­che cit­ta­dine, com­presa la cro­naca nera, lo sport, le cor­ri­spon­denze inter­na­zio­nali. Il modello a cui dovete guar­dare –ci diceva– è il Cor­riere della Sera, non è la Pra­vda né l’Avanti delle vignette di Sca­la­rini con­tro i padroni. Noi non abbiamo biso­gno di un bol­let­tino di par­tito né di uno stru­mento solo di agi­ta­zione. Noi vogliamo far cre­scere una nuova classe diri­gente e que­sta non si forma se non cono­sce il mondo per quello che è. 



E lì che si saldò con Ingrao un rap­porto par­ti­co­lare e ne sco­prii la com­ples­sità, il miscu­glio che è in lui di idee e di pas­sioni. La lunga vita di que­sto caro amico. Una vita ricca di svolte e di con­trad­di­zioni. Era un rigido custode delle regole di Par­tito ma poi in realtà emer­geva in lui il movi­men­ti­sta, la fac­cia popu­li­sta. Era un clas­sico fun­zio­na­rio di par­tito ma al tempo stesso ha cre­duto come pochi al ruolo delle isti­tu­zioni e il modo esem­plare come fece il Pre­si­dente della Camera lo atte­sta. Aveva dubbi su tutto ma come pochi era un grande tra­sci­na­tore di folle e ora­tore di piazze. 

(…) Accadde così che colui che le dice­rie con­si­de­ra­vano il del­fino di Togliatti è lo stesso che comin­cia a sen­tire l’insufficienza della grande let­tura togliat­tiana dell’Italia come paese arre­trato in cui il com­pito sto­rico dei comu­ni­sti era risol­vere le grandi “que­stioni” sto­ri­che: il Mez­zo­giorno, la que­stione agra­ria, il rap­porto col Vati­cano. Que­sta let­tura, nell’insieme, non riu­sciva più a dare conto delle tra­sfor­ma­zioni che comin­cia­vano a cam­biare radi­cal­mente il volto dell’Italia: il pas­sag­gio da paese agri­colo a paese indu­striale, una biblica emi­gra­zione che svuo­tava le cam­pa­gne del Sud, l’avvento dei con­sumi di massa, la rivo­lu­zione dei costumi. Si dica quello che si vuole, ma que­sta fu per me la sostanza del cosid­detto “ingrai­smo”. E tale memo­ria io la con­servo non avendo vis­suto né con­di­viso altre sue vicende. Ridotto all’osso quell’ingraismo fu l’assillo di spin­gere il Pci a misu­rarsi con la grande tra­sfor­ma­zione dell’Italia alla fine degli anni ’50. 

Di qui l’idea di un nuovo “modello di svi­luppo” che impe­gnò Ingrao e i suoi amici. Un dibat­tito molto intenso oggi impen­sa­bile che coin­volse le nuove cor­renti sin­da­cali ani­mate da Bruno Tren­tin e si con­frontò con tutto ciò che si muo­veva sin nelle file cat­to­li­che (i dia­lo­ghi con Gal­loni, De Mita, i “pro­fes­so­rini”) e sia nel mondo intel­let­tuale che guar­dava a La Malfa della “nota aggiun­tiva”. E’ in que­sta tem­pe­rie che comin­cia il dis­senso che esplo­derà all’XI Congresso. 

Con il diritto a mani­fe­stare pub­bli­ca­mente il dis­senso pro­cla­mato da Ingrao davanti ai dele­gati egli rompe quel vin­colo quasi sacrale in base al quale il ver­tice ristretto del par­tito si pre­senta unito all’esterno anche se al suo interno il con­fronto è a viso aperto, ma la regola è tale per cui nes­suno, nem­meno il lea­der, può sca­val­care la volontà di quel col­let­tivo: il mitico gruppo diri­gente comu­ni­sta. Poi c’è l’Ingrao della riforma delle isti­tu­zioni e delle rifles­sioni sulle nuove forme del potere e quindi del rap­porto con le masse e la crisi della demo­cra­zia. Si tratta di grandi squarci di pre­veg­genza. E poi via via il suo distacco accom­pa­gnato dalla fre­quen­ta­zione di un set­tore radi­cale dell’intellettualità di sini­stra. Poi la rot­tura con la svolta di Occhetto. 

Il pro­blema che mi sono posto molte volte è capire fino a che punto la rot­tura del rap­porto di Ingrao col gruppo diri­gente comu­ni­sta, un rap­porto che fu stret­tis­simo e anche molto affet­tuoso con Togliatti costi­tui­sce un pro­blema che ci inter­roga. E ciò nel senso di capire il peso che ha avuto la sua scon­fitta nella vicenda del Pci. Ma su que­sto inter­ro­ga­tivo io mi fermo. (…)

A che ora è il comunismo 
La Storia di Pietro. La sfida di Ingrao quando si arresta il circolo virtuoso fra sviluppo capitalistico, crescita del movimento operaio e democrazia. Dalla forte polemica con Norberto Bobbio emerge la sua statura di politico. In mezzo alle macerie teoriche del postcomunismo, incapace di una visione critica del processo di unificazione europea 
Leonardo Paggi 31.03.2015 Aggiornato 23.5.2015
Nella sto­ria del comu­ni­smo ita­liano Ingrao si distin­gue incon­fon­di­bil­mente per l’enfasi che pone su due aspetti della via ita­liana al socialismo. 
In primo luogo la con­sa­pe­vo­lezza che le sorti della demo­cra­zia sono sem­pre affi­date non alle pro­ce­dure ma ai rap­porti di forza. E’ que­sto il nucleo auten­ti­ca­mente machia­vel­lico del pen­siero di Togliatti che dall’andamento cata­stro­fico della prima metà del 900 ha rica­vato la con­vin­zione che nes­suna con­qui­sta del movi­mento ope­raio possa essere con­si­de­rata acqui­sita una volta per tutte. L’attenzione che Ingrao porta ai movi­menti sociali non è «movi­men­ti­smo» (come gli viene spesso rim­pro­ve­rato), ma con­sa­pe­vo­lezza che solo nel con­flitto sta la pos­si­bi­lità di accu­mu­lare nuove risorse poli­ti­che indi­spen­sa­bili per una stra­te­gia di lunga lena. 
Nello stesso tempo, ancora una volta come nel Togliatti mem­bro della Costi­tuente, c’è una atten­zione costante ai pro­fili isti­tu­zio­nali della forma della rap­pre­sen­tanza e della forma di governo, ossia una grande con­sa­pe­vo­lezza del ruolo che la forma giu­ri­dica può svol­gere nell’esito del con­flitto sociale. 
Credo tut­ta­via che se vogliamo ono­rare Ingrao, ossia andare ad una con­si­de­ra­zione non solo cele­bra­tiva e di maniera del suo pro­filo intel­let­tuale e poli­tico, sia giu­sto met­terlo a con­fronto con la grande dif­fi­cile sfida che si pro­fila alla metà degli anni Set­tanta, quando improv­vi­sa­mente si arre­sta il cir­colo vir­tuoso tra svi­luppo capi­ta­li­stico, cre­scita del movi­mento ope­raio e allar­ga­mento della demo­cra­zia, e la crisi di iden­tità del par­tito comu­ni­sta che ne deriva comin­cia a riflet­tersi spe­cu­lar­mente nella crisi di sta­bi­lità della repub­blica. Con il «com­pro­messo sto­rico» Ber­lin­guer ha evo­cato la pos­si­bi­lità di una avven­tura rea­zio­na­ria. Ma all’orizzonte si affac­cia qual­cosa di molto più radi­cale del tin­tin­nare delle scia­bole. Per usare il lin­guag­gio di Mon­tale, la sto­ria cam­bia ora di binario. 
Non è facile rias­su­mere in breve quella cesura pro­fonda nella sto­ria del capi­ta­li­smo inter­na­zio­nale, che è anche in qual­che misura fine del lungo dopo­guerra. Per rima­nere ai ter­mini di una ana­lisi essen­zial­mente eco­no­mica, eppure den­sis­sima di impli­ca­zioni poli­ti­che, si può dire che l’obbiettivo sto­rico della piena occu­pa­zione viene retro­cesso rispetto a quello della lotta all’inflazione. Le gran­dezze mone­ta­rie comin­ciano a coman­dare gli anda­menti della eco­no­mia reale. Cosa vuol dire que­sto per il movi­mento ope­raio? Che le lotte riven­di­ca­tive che fino a ieri hanno frut­tuo­sa­mente spinto per un allar­ga­mento del mer­cato interno e per l’attuazione di riforme sociali che tar­di­va­mente hanno alli­neato l’Italia allo stan­dard euro­peo di stato sociale, sono improv­vi­sa­mente dichia­rate incon­gruenti e nocive. (…) 
Fa la sua prima appa­ri­zione il vin­colo esterno come nuovo, cru­ciale pro­ta­go­ni­sta poli­tico, che deriva la sua forza dal pre­sen­tarsi come risul­tante di una pre­sunta asso­luta e indi­scu­ti­bile ogget­ti­vità eco­no­mica. (…)
Il lin­guag­gio del Pci è chia­mato a fare i conti con uno sce­na­rio radi­cal­mente mutato. Secondo Ingrao la fase in corso, è con­tras­se­gnata da «l’inceppo com­ples­sivo nei mec­ca­ni­smi con cui lo stato assi­sten­ziale tende a con­trol­lare e a gover­nare la vita delle masse». Si tratta di una crisi di ege­mo­nia, egli dice espres­sa­mente, che in quanto tale apri­rebbe la pos­si­bi­lità di equi­li­bri più avanzati. 
Da qui la pro­po­sta di una terza via, oltre il fal­li­mento di comu­ni­smo e social­de­mo­cra­zia. L’indicazione non supe­rerà la soglia di una vaga sug­ge­stione, senza riu­scire a tra­dursi in con­cre­tezza pro­gram­ma­tica. Eppure, che le poli­ti­che key­ne­siane non siano più appli­ca­bili, che lo stato sociale diventi sem­pre più one­roso per i costi cre­scenti del debito, e così via, non è cosa che riguardi solo le social­de­mo­cra­zie. Frana anche il ter­reno su cui il Pci, e il sin­da­cato, hanno costruito il rap­porto tra riven­di­ca­zioni e riforme (…). 
Insomma il par­tito comu­ni­sta, ad onta dei suoi col­le­ga­menti inter­na­zio­nali che ne hanno segnato la indub­bia diver­sità, ha avuto suc­cesso nella misura in cui ha saputo bene­fi­ciare delle stesse con­di­zioni che hanno favo­rito il movi­mento ope­raio euro­peo. Ed è esso stesso inve­stito dalla crisi nel momento in cui quelle con­di­zioni ven­gono meno. E’ quanto l’ipotesi della terza via sem­bra non volere accet­tare.
Mi spiego anche con la man­canza di un con­fronto rav­vi­ci­nato con i pro­blemi strin­genti insorti con lo shock degli anni Set­tanta il fatto che la sini­stra comu­ni­sta non rie­sca a con­tra­stare la cul­tura del post­co­mu­ni­smo che comin­cia ora a pren­dere piede all’interno del par­tito e del sindacato.
Con la voca­zione nazio­nale della classe ope­raia il post­co­mu­ni­smo giu­sti­fica l’accoglimento della poli­tica di mode­ra­zione sala­riale richie­sta, in nome del vin­colo esterno, dalla Con­fin­du­stria di Guido Carli. Natu­ral­mente le poli­ti­che dei red­diti sono parte inte­grante della espe­rienza social­de­mo­cra­tica, ma sem­pre nel più vasto qua­dro di accordi com­ples­sivi sull’andamento delle gran­dezze macroe­co­no­mi­che. Il tratto sin­go­lare di que­sta ver­sione post­co­mu­ni­sta della poli­tica dei red­diti sta nell’assenza di garan­zie o con­tro­par­tite di alcun tipo. C’è solo la pre­sun­zione azzar­data, priva di qual­siasi sup­porto teo­rico e poli­tico, che sia suf­fi­ciente ridare spa­zio al pro­fitto, a sca­pito del sala­rio, per avere più inve­sti­menti e quindi più occu­pa­zione(…)
Que­sta idea poli­ti­ca­mente sui­cida, oltre che priva di ogni fon­da­mento di teo­ria eco­no­mica, che il peg­gio­ra­mento delle con­di­zioni con­trat­tuali e retri­bu­tive del lavoro sia un pas­sag­gio neces­sa­rio per la ripresa eco­no­mica arriva come è noto fino ad oggi.
Suc­ces­si­va­mente, negli anni Novanta, la cul­tura del post­co­mu­ni­smo si eser­ci­terà essen­zial­mente nel vei­co­lare una visione total­mente acri­tica del pro­cesso di uni­fi­ca­zione europea.
La filo­so­fia del Trat­tato di Maa­stri­cht, costruita attorno alla cen­tra­lità del mer­cato, è fron­tal­mente con­trap­po­sta alla filo­so­fia della nostra Costi­tu­zione, costruita attorno alla cen­tra­lità del lavoro. Ma tutti pre­fe­ri­scono fare finta di nulla.
Ancora Guido Carli, che firma il Trat­tato in qua­lità di Mini­stro del Tesoro, scrive nelle sue memo­rie: «Ancora una volta si è dovuto aggi­rare il Par­la­mento sovrano della Repub­blica, costruendo altrove ciò che non si riu­sciva a costruire in patria… ancora una volta dob­biamo ammet­tere che un cam­bia­mento strut­tu­rale avviene attra­verso l’imposizione di un vin­colo esterno» (…). 

Il con­fronto più rav­vi­ci­nato che Ingrao impe­gna con il post­co­mu­ni­smo si svi­luppa tut­ta­via nella let­tura della crisi del sistema poli­tico repub­bli­cano che esplode visto­sa­mente negli anni Ottanta. A que­sto pro­po­sito il suo scam­bio di let­tere con Nor­berto Bob­bio pub­bli­cato da Maria Luisa Boc­cia, Alberto Oli­vetti e Luigi Fer­ra­joli, costi­tui­sce un docu­mento di grande inte­resse storico. 

Riletti oggi, gli inter­venti di Bob­bio col­pi­scono per una certa loro arro­ganza intel­let­tuale. L’intenzione è quella di azze­rare, desti­tuen­dole di ogni signi­fi­cato, le parole chiave di un intero les­sico poli­tico che è, sì , quello dei comu­ni­sti ita­liani, ma in misura non secon­da­ria anche quello della Costi­tu­zione, non a caso nata all’unisono con la cul­tura della stato sociale, domi­nante in Europa dopo la seconda guerra mondiale. 
Affer­mare che l’unico lin­guag­gio dotato di signi­fi­cato con­creto è quello dello stato di diritto, per cui la libertà si defi­ni­sce solo in nega­tivo, signi­fica met­tere in mora l’articolo 3 della Carta. Bob­bio se la prende con il ter­mine «masse». Ma il tratto incon­fon­di­bile della demo­cra­zia euro­pea rinata con il 1945, dopo il fal­li­mento cla­mo­roso degli anni Venti e Trenta, è stato quello di rea­liz­zare la piena inte­gra­zione del movi­mento ope­raio, che è per l’appunto un movi­mento di massa. Il caso ita­liano pre­senta par­ti­co­la­rità solo per gli effetti di esclu­sione impo­sti dalla guerra fredda, ma non costi­tui­sce una ecce­zione rispetto a que­sto più com­ples­sivo per­corso storico. 
Si denun­cia poi la poli­tica di unità come impos­si­bile alter­na­tiva al «modello West­min­ster» della alter­nanza. Ma nella sto­ria del comu­ni­smo ita­liano il tema nasce da una rifles­sione sui peri­coli poli­tici insiti in una stra­ti­fi­ca­zione eco­no­mica e sociale segnata da frat­ture e con­trad­di­zioni pro­fonde. Pro­ce­dendo su que­sta strada Bob­bio vuole met­tere nell’angolo, in puni­zione, anche Anto­nio Gram­sci. Per­ché ricor­rere al con­cetto fumoso di ege­mo­nia quando il dispo­si­tivo elet­to­rale basta a dirci chi ha il con­senso e chi no? A que­sto punto le rispo­ste di Ingrao si fanno di neces­sità dida­sca­li­che : il con­senso elet­to­rale della Dc non è facil­mente spie­ga­bile senza il ruolo della Chiesa, senza il con­trollo di tutte le isti­tu­zioni che fun­gono da volano dello svi­luppo, senza la gestione ad libi­tum del bilan­cio pubblico.(…) 
Per­ché allora misu­rare i pro­blemi poli­tici di una società di capi­ta­li­smo maturo con il costi­tu­zio­na­li­smo di primo Otto­cento, con «la libertà dei moderni» di Ben­ja­min Con­stant? Siamo dinanzi ad una scelta tutta poli­tica. La gover­na­bi­lità, si pensa, può e deve essere garan­tita con la ridu­zione della com­ples­sità, con un espli­cito ritorno allo sta­tuto. Ma alleg­ge­rire così visto­sa­mente la respon­sa­bi­lità e vor­rei dire la com­plessa carica seman­tica del les­sico demo­cra­tico signi­fica inco­rag­giare la sepa­ra­zione della poli­tica dalla società civile, ossia spin­gere di fatto in dire­zione della casta. Non a caso al cen­tro della pro­po­sta di Bob­bio sta la riforma della legge elet­to­rale. Lo scopo è quello di fare arre­trare il potere dei par­titi con mec­ca­ni­smi di inge­gne­ria isti­tu­zio­nale, senza riflet­tere sulle ragioni di una crisi che si ori­gina nei mutati rap­porti con la società e con lo stato. 
La tesi di Bob­bio sarà lar­ga­mente vin­cente. In un clima di attacco sem­pre più gene­ra­liz­zato al par­tito di massa, le con­di­zioni dell’alternanza sono, con il cam­bia­mento del nome, il tema che più di ogni altro carat­te­rizza lo scio­gli­mento del Pci.
Il tema della riforma elet­to­rale, di cui stiamo vivendo ora una pre­oc­cu­pante rie­di­zione, è insomma nel Dna di que­sto par­tito, che fin dalla sua costi­tu­zione punta deci­sa­mente ad una modi­fi­ca­zione di tratti fon­da­tivi della repub­blica par­la­men­tare.
Credo sia giu­sto ricor­dare che Ingrao è l’unico mem­bro del gruppo diri­gente comu­ni­sta che fin dagli anni Set­tanta con­tra­sta aper­ta­mente l’offensiva di Bob­bio su Gram­sci e sul pro­blema isti­tu­zio­nale. Altri l’accolgono come libe­ra­to­ria, por­ta­trice di lai­cità e moder­nità, sti­molo utile per eman­ci­parsi dalle vec­chie iden­tità del passato. 
La rispo­sta di Ingrao sta nella difesa a oltranza della cen­tra­lità del par­la­mento. Fer­ra­joli ha già messo in evi­denza quanto forti siano nelle sue ana­lisi di allora le pre­mo­ni­zioni della crisi in cui versa oggi la nostra demo­cra­zia. La sua debo­lezza, invece, mi sem­bra con­si­stere nel fatto che la ripro­po­si­zione di quel tema non si fa carico di un fatto nuovo. Ossia la crisi della forma par­tito su cui invece insi­ste con toni sem­pre più aper­ta­mente liqui­da­tori la cul­tura del libe­ra­li­smo ristretto ora ricor­data.
E’ que­sta la vera chiave per leg­gere il dibat­tito isti­tu­zio­nale degli anni Ottanta. In effetti la cen­tra­lità del par­la­mento voluta dal costi­tuente implica come corol­la­rio neces­sa­rio l’esistenza di par­titi che pur nascendo nelle pie­ghe della società civile siano capaci di tra­scen­derla, supe­rando il con­di­zio­na­mento degli inte­ressi sezio­nali. Se nel modello libe­rale, che allora viene ripro­po­sto in toto, il par­tito è fonte di disgre­ga­zione, nel modello demo­cra­tico è risorsa essen­ziale per la for­ma­zione dell’indirizzo di governo. Solo con par­titi capaci di svol­gere la fun­zione di sin­tesi il par­la­mento può dive­nire il luogo in cui prende corpo un pro­cesso legi­sla­tivo spe­dito ed efficace. 
Ingrao pro­pone l’abolizione del Senato come rispo­sta alla cre­scente insi­dia cor­po­ra­tiva, ma non si misura a suf­fi­cienza con que­sto più grave tema sottostante (…). 
Certo il 1989 rap­pre­sentò un pas­sag­gio arduo, anche sul piano inter­na­zio­nale. Emma­nuel Levi­nas disse nel 1992: «Il dramma è che la fine del comu­ni­smo è la ten­ta­zione di un tempo che non è più orien­tato. Noi siamo abi­tuati da sem­pre a con­si­de­rare che il tempo va da qual­che parte… ed ecco che oggi si ha l’impressione che il tempo non vada più da nes­suna parte». Oggi è più facile vedere come la pro­spet­tiva di un futuro pos­si­bile, entro cui for­mu­lare la domanda «che ora è ?», può essere arti­co­lata poli­ti­ca­mente, lai­ca­mente, senza il sup­porto del mito, ma sulla base di un pro­gramma dotato di una forte coe­renza intel­let­tuale e politica. 
Quanto pub­bli­cato sono alcuni pas­saggi, a nostro avviso i più signi­fi­ca­tivi, del testo scritto da Leo­nardo Paggi in occa­sione della cele­bra­zione che si svolge oggi alla Camera dei Deputati.


La democrazia di base tra masse e potere 
La Storia di Pietro. La socializzazione della politica e la diffusione della partecipazione popolare come antidoto alla conservazione insita nelle istituzioni, nello stato e nei partiti. La sinistra negli anni Novanta prenderà altre strade ma la «luna» che voleva Ingrao deve tornare a essere la stella polare della politica 
Guido Liguori 31.3.2015, 0:15  Aggiornato 23.5.2015
Negli anni in cui Pie­tro Ingrao pub­blica Masse e potere prima, nel 1977, e poi, l’anno seguente, il libro-intervista Crisi e terza via, con la intel­li­gente inter­lo­cu­zione di Romano Ledda e con la ami­che­vole col­la­bo­ra­zione di Pie­tro Bar­cel­lona, egli occupa un ruolo di grande pre­sti­gio e impor­tanza: è pre­si­dente della Camera, la terza carica isti­tu­zio­nale dello Stato italiano. 
Ma il ruolo – pur così rile­vante, e rico­perto con grande cor­ret­tezza e rico­no­sciuta sen­si­bi­lità per tutte le com­po­nenti del Par­la­mento – non limita la ten­sione poli­tica di Ingrao. Egli non si fa «rin­chiu­dere» entro i con­fini del suo ruolo ma seguita, da pre­si­dente della Camera, a incon­trare ope­rai, stu­denti, asso­cia­zioni demo­cra­ti­che: masse orga­niz­zate di donne e uomini che cer­cano di agire per tra­sfor­mare il mondo. E con­ti­nua a riflet­tere sullo Stato, le isti­tu­zioni e la società, sul rap­porto tra il potere e le classi e i movi­menti, ani­mato dalla stessa domanda di sem­pre: quale rap­porto isti­tuire tra il potere e le masse, per ampliare la par­te­ci­pa­zione e per creare le con­di­zioni di una effet­tiva demo­cra­tiz­za­zione della poli­tica e, dun­que, dell’economia e della società? (…) 
Balza subito agli occhi, leg­gendo i testi, come nella sua ana­lisi Ingrao non accetti la dico­to­mia Stato-società civile, che strut­tura tanta parte del dibat­tito anche di que­sti ultimi anni e che ha una forte impronta libe­rale. Anche un intel­let­tuale di grande sta­tura e aperto al dia­logo come Nor­berto Bob­bio, col quale Ingrao a lungo incro­cia la lama della disputa teo­rica, cul­tu­rale e poli­tica, resta interno a que­sto limite. Ingrao invece – pur tanto attento a ciò che nella società si muove – parte da Gram­sci e dal con­cetto di «Stato allar­gato», o «inte­grale»: una visione dia­let­tica del nesso Stato-società, sfere della realtà pro­fon­da­mente con­nesse e in cui agi­scono gli stessi sog­getti col­let­tivi: le classi, i gruppi sociali, i movi­menti, i par­titi, gli aggre­gati di inte­ressi e di idee. 
La cen­tra­lità del ruolo dello Stato – tanto forte nel Nove­cento – è esplo­rata con forte senso cri­tico: lo Stato dà luogo a una azione eco­no­mica estesa ma anche subal­terna e fun­zio­nale alla classe domi­nante. Non solo: esso – scrive Ingrao – tende a inglo­bare par­titi e sin­da­cati, cer­cando di neu­tra­liz­zare così l’azione inno­va­trice delle masse, che chie­dono di cam­biare a van­tag­gio dei molti gli equi­li­bri eco­no­mici e poli­tici del Paese. Per evi­tare que­sta azione di resi­stenza con­ser­va­trice delle isti­tu­zioni sta­tuali occorre che il par­tito delle classi subal­terne, il par­tito comu­ni­sta, non si con­fonda in toto con lo Stato, non perda il suo impeto tra­sfor­ma­tore e il suo carat­tere di anti­ci­pa­zione e di pro­getto, il suo «spi­rito di scis­sione», per usare le parole di Gram­sci. L’orizzonte, la meta cui ten­dere, è per Ingrao la socia­liz­za­zione della poli­tica, per dare con­cre­tezza alla democrazia. (…) 
Ingrao vede in que­sto pro­cesso di dif­fu­sione e socia­liz­za­zione della poli­tica una grande occa­sione per sostan­ziare la stessa demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva. Non si tratta – nella sua visione – di ripro­porre una ormai anti­sto­rica con­trap­po­si­zione tra demo­cra­zia dele­gata e demo­cra­zia soviet­ti­sta, ma di ricer­care i sog­getti e le forme tra­mite cui allar­gare i con­fini della demo­cra­zia par­la­men­tare esi­stente, intrec­ciando isti­tu­zioni più tra­di­zio­nali e nuovi orga­ni­smi, voto e par­te­ci­pa­zione diretta, par­titi e movi­menti, allo scopo di orga­niz­zare la mobi­li­ta­zione poli­tica che viene dal basso e di rias­sor­bire gra­dual­mente il prin­ci­pio della delega a un ristretto corpo di poli­tici di pro­fes­sione o comun­que pro­fes­sio­na­liz­zati dalla con­sue­tu­dine, in una par­te­ci­pa­zione poli­tica di massa e permanente. 
«Demo­cra­zia di massa», la chiama Ingrao, o «demo­cra­zia di base», spe­ci­fi­cando sia le dif­fe­renze con la «demo­cra­zia diretta», sia il fatto che gli orga­ni­smi di que­sta demo­cra­zia di base dovreb­bero essere intesi come «veri e pro­pri momenti isti­tu­zio­na­liz­zati di inter­vento e di deci­sione, che si col­le­gano e si intrec­ciano alla vita delle grandi assem­blee elet­tive, in modo da assi­cu­rare una pre­senza dif­fusa e orga­niz­zata delle masse, dando un colpo alla sepa­ra­tezza e al ver­ti­ci­smo delle assem­blee e degli stessi par­titi poli­tici. Dun­que: un intrec­cio orga­niz­zato tra demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva e demo­cra­zia di base, che favo­ri­sca la pro­ie­zione per­ma­nente del movi­mento popo­lare nello Stato, tra­sfor­man­dolo». Demo­cra­zia di base e demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva sono com­ple­men­tari, Ingrao lo riba­di­sce in pole­mica con Bob­bio e richia­mando tutti i limiti della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva, se essa resta solo imper­niata sul «cit­ta­dino astratto». 
Una visione uto­pica, sem­bre­rebbe oggi. Ma, allora, una aspi­ra­zione e una ricerca di massa, quella della par­te­ci­pa­zione poli­tica e della demo­cra­zia di base – una espe­rienza che certo venne poi scon­fitta, ma che riguardò per un decen­nio e più milioni di per­sone alla ricerca di una demo­cra­zia non solo for­male o addi­rit­tura fit­ti­zia, e comun­que non limi­tata al giorno delle ele­zioni. In que­sta ricerca di una demo­cra­zia diversa, più par­te­ci­pata e dif­fusa, che nella sto­ria del Pci del primo e anche del secondo dopo­guerra aveva impor­tanti pre­ce­denti, che non a caso Ingrao richiama e valo­rizza, egli fu cer­ta­mente uno dei poli­tici, dei diri­genti e dei teo­rici più impe­gnati e convinti. 
Negli scritti di Masse e potere costanti sono la affer­ma­zione della neces­sità di una «socia­liz­za­zione della poli­tica», per dare «con­cre­tezza alla demo­cra­zia» e pro­ce­dere verso un «ordine nuovo»; la con­sa­pe­vo­lezza che la esal­ta­zione della «spon­ta­neità» (tanto dif­fusa in que­gli anni) è una illu­sione per­dente e che la carica inno­va­tiva deve attra­ver­sare le isti­tu­zioni non meno che la società; il rife­ri­mento a una neces­sa­ria riforma dello Stato, vista anche come «la prin­ci­pale riforma eco­no­mica da rea­liz­zare». Lo Stato, per le forze che si bat­tono per una sua pro­fonda tra­sfor­ma­zione, è luogo della lotta e insieme posta di que­sta lotta. 
Ingrao riporta sem­pre i pro­blemi poli­tici alle loro radici sociali, e con­tem­po­ra­nea­mente illu­mina il ruolo dello Stato moderno nel deter­mi­nare la stessa com­po­si­zione di classe, ed egli lo fa senza mai cedere né alla ten­ta­zione della «auto­no­mia del poli­tico», né a quella, spe­cu­lare, della «auto­no­mia del sociale». (…) 
Masse e potere e Crisi e terza via appar­ten­gono a un tempo che per molti aspetti oggi appare lon­tano. Eppure que­sti libri sono ancora ric­chi di inse­gna­menti, per­ché in primo luogo foto­gra­fano, sia pure in una tem­pe­rie sto­rica tanto diversa, la crisi della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva, che oggi si è ulte­rior­mente accentuata. 
Hanno pre­valso a par­tire dagli anni Ottanta, ma ancor più in Ita­lia negli anni della cosid­detta «seconda repub­blica», quelle posi­zioni politico-culturali che già prima (si pensi alle indi­ca­zioni della cele­bre «Tri­la­te­ral Com­mis­sion», fon­data nel 1973 da David Roc­ke­fel­ler, Henry Kis­sin­ger, Zbi­gniew Brze­zinsk e altri, o – se si pre­fe­ri­sce – ad alcuni punti del cele­bre “pro­gramma” della P2 di Licio Gelli) lamen­ta­vano un «eccesso di demo­cra­zia» – espres­sione che di per sé pre­sup­pone una valu­ta­zione nega­tiva della demo­cra­zia stessa – e la neces­sità di un mag­giore accen­tra­mento del potere poli­tico nell’esecutivo (risul­tato tena­ce­mente per­se­guito nel nostro paese e rea­liz­zato con il con­corso di tutti gli ultimi governi), a sca­pito del ruolo del Par­la­mento e ancor di più della reale par­te­ci­pa­zione alla vita poli­tica delle masse. 
Ingrao crede nella cen­tra­lità del Par­la­mento, affian­cato dagli orga­ni­smi della demo­cra­zia di base, e invoca «più poli­tica», una poli­tica dif­fusa in tutto il corpo sociale. La sini­stra pren­derà invece una strada del tutto diversa, che avrà come tappe la fine del Pci e della idea stessa di un par­tito di massa, l’approdo al sistema elet­to­rale mag­gio­ri­ta­rio (quello dura­mente com­bat­tuto dai comu­ni­sti ai tempi della «legge truffa»), la per­so­na­liz­za­zione della poli­tica, l’accettazione del prin­ci­pio del raf­for­za­mento dell’esecutivo. 
Erano dun­que quelle di Ingrao sem­plici «uto­pie», mere illu­sioni? Era un «volere la luna»? Una idea poli­tica – in que­sto caso l’idea di una demo­cra­zia par­te­ci­pata e dif­fusa, strada per avan­zare verso l’autogoverno poli­tico, eco­no­mico e sociale – viene spesso defi­nita in que­sto modo quando viene scon­fitta. E, senza dub­bio, nella con­giun­tura sto­rica degli anni Ottanta e Novanta ha vinto una diversa ege­mo­nia, un diverso «blocco sto­rico», fatto di inte­ressi e ideali oppo­sti rispetto a quelli per i quali ha lot­tato per tutta la vita Ingrao. 
Non per que­sto le con­trad­di­zioni che egli indi­cava sem­brano supe­rate. «Non basta un libro a fare una rivo­lu­zione», afferma il nostro autore, ed è sicu­ra­mente vero. Serve che, sulla spinta di deter­mi­nate con­trad­di­zioni, masse di donne e uomini matu­rino con­vin­ci­menti col­let­tivi, si orga­niz­zino, cre­dano e lot­tino per cam­biare «lo stato di cose pre­senti», come scrive Marx. Non man­cano oggi i segnali che vanno in que­sta dire­zione, anche in Europa. Per chi vorrà con­tri­buire a tale ricerca e a tale lotta, le idee, i libri, l’esempio di Pie­tro Ingrao sono ancora estre­ma­mente preziosi. 
Nota: quanto pub­bli­chiamo è un estratto dalla Intro­du­zione di Guido Liguori a P. Ingrao, «Masse e potere. Crisi e terza via» (Edi­tori Riu­niti, 2015, pp. 354, euro 23,50), un volume che rac­co­glie due dei più noti libri degli anni Set­tanta. Il volume, nei pros­simi mesi in libre­ria, è già repe­ri­bile presso il sito www​.edi​to​ri​riu​niti​.it.



Un secolo in una vita. Il cinema, la letteratura, le istituzioni, la democrazia. Quando una nuova generazione di giovani comunisti porta nel Pci l’assillo di un confronto con le trasformazioni del capitalismo italiano

di Luciana Castellina

Ricordo ancora nitidamente la prima volta che celebrai un compleanno di Pietro Ingrao: era il 1965, lui compiva cinquant’anni (un’età che mi parve avanzatissima) ed era mezzo secolo fa. Con Sandro Curzi, ambedue non da molto usciti dalla irrequieta Federazione Giovanile, gli regalammo il suo primo paio di mocassini, con una dedica che lo sollecitava ad essere meno prudente: «Cammina coi tempi, cammina con noi».

Lo ricordo bene perché eravamo in piena battaglia «ingraiana», proprio alla vigilia del fatidico XI congresso del Pci, quando i compagni che si riconoscevano nelle sue idee (non una corrente, per carità), uscirono un po’ più allo scoperto per sostenerle; e lui stesso operò quella che fu definita una inedita rottura. Disse con chiarezza nel suo intervento congressuale: «Sarei insincero se tacessi che il compagno Longo non mi ha persuaso rifiutando di introdurre nella vita del nostro partito il nuovo costume di una pubblicità del dibattito, cosicché siano chiari a tutti i compagni non solo gli orientamenti e le decisioni che prevalgono e tutti impegnano ma anche il processo dialettico di cui sono il risultato».

Fu, come è noto, applauditissimo, ma tuttavia successivamente emarginato dal vertice del partito e «relegato» (allora Botteghe Oscure contava più di Montecitorio) alla presidenza del gruppo parlamentare e poi della Camera dei Deputati. E noi dispersi in ruoli minori, fuori dal palazzo.
Lo ricordo bene perché in fondo fu allora che cominciò la storia de «il manifesto», che pure vide la luce solo quattro anni più tardi. Senza Pietro, che come sempre nella sua vita ha fatto prevalere sulle sue scelte politiche la preoccupazione di non abbandonare il «gorgo», quello entro cui si addensava il popolo comunista. Non per paura, sia chiaro, ma per via di quello che era il modo di sentire profondo di tutto il partito, il timore di sacrificare l’opinione collettiva alla propria individuale.
Noi del manifesto alla fine lo facemmo, ma anche perché le nostre responsabilità nel Pci erano infinitamente minori e dunque il nostro gesto non avrebbe potuto certo avere le stesse conseguenze di quello di Ingrao. Ma non crediate che sia stato facile neppure per noi, fu anzi una scelta molto molto sofferta e talvolta è capitato anche decenni dopo di interrogarsi se non avremmo dovuto restare a combattere dentro anziché metterci nelle condizioni di essere messi fuori.
(Per favore non reagite, voi giovani, dicendo: ma che tempi, non si poteva neppure dichiarare un dissenso! È vero, non era bello. E però le opinioni nonostante tutto pesavano più di adesso, la nostra radiazione fu un trauma per tutto il partito. Ora si può dire di tutto, ma perché non conta più niente).
Oggi Pietro Ingrao di anni ne compie 100, e noi de il manifesto, se contiamo anche l’incubazione, 50.
Col tempo si è forse smarrito il senso di cosa sia stato l’ingraismo, e anzi mi chiedo se tra i giovani della redazione del giornale c’è ancora qualcuno che sa di cosa si sia trattato. Non fu, badate, solo una battaglia per la democratizzazione del partito, il famoso diritto al dissenso. C’era molto di più: si è trattato del tentativo più serio del pensiero comunista di fare i conti con il capitalismo nei suoi punti più alti, di individuare le nuove, moderne contraddizioni e su queste — più che su quelle antiche dell’Italietta rurale — far leva, non per «inseguire mille rivoli rivendicativi» (per usare l’espressione di allora), ma per costruire un vero modello di sviluppo alternativo.
Si trattava della rottura con l’idea di uno sviluppo lineare, col mito della «modernità acritica», che fu alla base della cultura neocapitalista (e craxiana) di quegli anni. E, ancora, il tentativo di capire che la crisi italiana non rappresentava una anomalia (un vizio tutt’ora diffuso), ma poteva essere capita solo nel nesso con il capitalismo avanzato quale si stava sviluppando nel mondo.
Dal giudizio sulla fase discendevano due diverse linee strategiche e per questo il confronto non fu solo teorico, ma strettamente intrecciato con il che fare politico: se bisognava agire per rendere l’Italia «normale», e cioè allinearla alla modernità europea, o invece incidere su quel nesso anche per risolvere i vecchi problemi e preparare un’alternativa anche alla «normalità» capitalistica.
La destra del Pci ovviamente si oppose a questa prospettiva. Quando il Pci, dopo la Bolognina, fu avviato allo scioglimento, proprio su questa necessaria innovazione costruimmo — questa volta ufficialmente assieme a Pietro Ingrao — il senso della famosa «Mozione 2» che alla liquidazione del partito si opponeva. Non in nome della conservazione ma, al contrario, del cambiamento, che non faceva però venir meno le ragioni dell’alternativa al sistema ma anzi le rafforzava. Le vecchie categorie non bastavano più e Ingrao è sempre stato attento a non ripetere litanie ma a individuare ogni volta le potenzialità nuove offerte dallo sviluppo storico, i soggetti antagonisti, a capire come si formano e si aggregano per diventare classe dirigente in grado di prospettare una società alternativa. Oggi e qui.
Come sapete, perdemmo.
Su quel nostro dibattito degli anni 60 — che trovò poi una sistemazione nel 1970 proprio nelle «Tesi per il comunismo» del Manifesto (che non dissero che il comunismo era maturo nel senso di imminente, come qualcuno equivocò — e ironizzò -, ma che non sarebbe stato più possibile dare soluzione ai problemi posti dalla crisi nel quadro del sistema capitalistico sia pure ammodernato).
Questo fu l’XI congresso del Pci, quello spartiacque delle cui emozioni, passioni, sofferenze Pietro Ingrao ha dato eco nel suo libro «Volevo la luna».
Nell’anniversario del suo centesimo anno di vita avrei forse dovuto parlare di Pietro Ingrao ricordandone di più i suoi aspetti umani, la sua personalità, il modo come ha dipanato la sua esistenza, e non invece andar subito dritta al nocciolo politico della sua vita di comunista.
L’ho fatto per due ragioni: perché troppo spesso ormai nel celebrare gli anniversari si tende a ridurre tutto ai tratti del carattere di chi si ricorda, alle sue qualità morali, e sempre meno a riflettere sulle loro scelte politiche. E poi perché Pietro in particolare, invecchiando, — e forse anche per via di come sono andate le cose nella sinistra italiana — ha finito per ricordarsi sottotono, persino con qualche vezzo civettuolo, più come poeta che come dirigente politico. Che è invece stato e di primo piano.
Poeta non ha in realtà mai smesso di essere, basti pensare al suo modo di esprimersi, mai politichese, sempre attento a illuminare l’immaginazione e non a ripetere catechismi. Vi ricordate la sua sorprendente uscita nell’intervento al primo dei due congressi di scioglimento del Pci, il XIX nel 1990, quando se ne uscì col suo clamoroso «viventi non umani», per chiedere attenzione alla natura e alle sue speci? Non era forse una poesia, che come tale suonò, del resto, in quel grigio e mesto dibattito di fine partita?
Pietro non usava il politichese perché ascoltava. Sembra banale, ma quasi nessuno ascolta. E siccome ascoltava è stato anche ascoltato da generazioni assai più giovani, quelle che dei nostri dibattiti all’XI congresso del Pci, e del Pci stesso, non sapevano niente. Penso al Forum sociale europeo di Firenze nel 2002, per esempio, dove il suo discorso sulla pace conquistò ragazzi che non sapevano neppure chi fosse.
Ascoltava perché della democrazia ha sempre sottolineato un elemento ormai in disuso, soprattutto il protagonismo delle masse, la partecipazione.
Può sembrare curioso, ma molto del pensiero politico di Ingrao è stato segnato dalla sua adolescenziale formazione cinematografica. Nei molti anni in cui per via del mio incarico nella promozione del cinema italiano ho avuto con i big di Hollywood molti incontri e spesso la discussione scivolava sull’Italia e sul come era stato possibile che ci fossero tanti comunisti. Un po’ scherzando e un po’ sul serio ho sempre finito per ricorrere ad un paradosso: «Badate — dicevo — il comunismo italiano è così speciale perché oltreché a Mosca ha le sue radici qui a Hollywood, che dunque ne porta le responsabilità». E poi raccontavo loro la storia, tante volte sentita da Pietro, della formazione di un pezzo non secondario di quello che poi diventò il gruppo dirigente del Pci nel dopoguerra: Mario Alicata, lui stesso, e anche altri che pur fuori dai vertici sul partito avevano avuto una fortissima influenza, Visconti, Lizzani, De Santis. Tutti allievi del Centro sperimentale di cinematografia.
Raccontavo loro, dunque, di Ingrao che mi aveva detto di come la sua generazione, già a metà degli anni ’30, avesse avuto il suo ceppo proprio nel cinema. E, segnatamente, nel grande cinema — e nella letteratura — americani del New Deal, tortuosamente conosciuti proprio al Centro grazie a una fortuita circostanza: l’arrivo, come insegnante, di un singolare personaggio, Ahrnheim, ebreo tedesco sfuggito al nazismo e chissà come approdato proprio lì, prima che le leggi razziali fossero introdotte anche in Italia.
«Proprio quelle pellicole — mi disse Pietro in occasione di un’intervista (per il settimanale Pace e guerra che allora dirigevo) su una importante mostra allestita a Milano sugli anni ’30 — mostravano cariche di socialità, in cui c’era la classe operaia, la solidarietà sociale, la lotta. Proprio grazie a quei film, che erano mezzi di comunicazione fra i movimenti sociali e l’americano qualunque, così diversi dalla cultura antifascista italiana degli anni ’20 — elitaria, ermetica — che avevamo amato, ma non ci aveva aiutato; proprio quei film che ci aprivano una finestra sull’intellettuale impegnato, noi ci siamo politicizzati. Sono stati il primo passo verso la politica».
Questo nesso fra cultura e politica è stato un tratto che ha distinto il comunismo italiano. E Pietro Ingrao ne è stato uno dei più significativi interpreti.
Grazie e tanti auguri, Pietro.

L’uomo del Pci attratto dai movimenti 
Nel ’56 appoggiò l’invasione sovietica in Ungheria, poi si pentì: “imperdonabile” 

Umberto Gentiloni Stampa 28 9 2015

Era nato l’anno dell’ingresso dell’Italia nella Grande guerra, nel 1915, a Lenola in provincia di Latina; si definiva «un ragazzo introverso, un po’ lunatico, spesso emotivo». Negli Anni Trenta i primi spostamenti: Formia per il liceo e Roma per l’università. Legge i classici della letteratura, ma la sua passione più autentica va alla poesia di Leopardi, Ungaretti e Montale. S’iscrive ai Gruppi Universitari Fascisti fino alla svolta con la guerra di Spagna. Alla fine degli Anni Trenta entra nel gruppo romano degli antifascisti mettendo da parte le passioni letterarie e cinematografiche: «con i comunisti e dai comunisti ho imparato a cospirare contro il fascismo».

Il 25 luglio, alla caduta del regime, è a Milano, partecipa alla prima manifestazione della sua lunga militanza politica: «Fu per me la sensazione fisica che la gente diventava attiva. Non eravamo più un’isola disperata in un mare chiuso. Eravamo ormai parte di un movimento di popolo: bene o male, quello che è stato poi il corso della mia vita, con le sue luci e le sue ombre». Scrive queste riflessioni quando la parabola del comunismo è giunta al capolinea, agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso. 

Ingrao attraversa la storia del Pci con un disegno spesso abbozzato e difficile, controverso, da lui stesso descritto come un itinerario di cose impossibili, eppure un tratto costitutivo e duraturo della sinistra italiana o comunque di una sua parte. Un politico del Partito comunista, un leader della seconda generazione, quella successiva a Togliatti. Nel 1956, di fronte all’invasione ungherese, sta con i sovietici, firma un celebre editoriale dal titolo: «Da una parte della barricata». Anni dopo lo definirà «un errore imperdonabile». Negli anni Sessanta inizia a prendere le distanze, fino alla condanna della repressione contro la primavera di Praga nel 1968. Un lungo cammino che giunge fino alla presidenza della Camera dei deputati nello scorcio drammatico della fine degli Anni 70, durante il sequestro Moro: politico, dirigente comunista e figura istituzionale.

I suoi pensieri sono quelli «di un uomo di frontiera, comunista testardo ma sempre pieno di curiosità verso gli altri». Ha coltivato una lunga alterità alle forme del capitalismo del lungo dopoguerra; attratto dai movimenti: giovani, studenti e da ultimo i nuovi temi della pace e dell’ecologia come critiche al modello di sviluppo. La sua ultima battaglia in difesa di un’identità minacciata e travolta dagli eventi dell’89: si batte contro la svolta di Occhetto e fino al 1992 rimane nella sinistra del Pds. Da allora fino a ieri lontano dai luoghi della politica, immerso nei dubbi di una lunga militanza. Così si apre il suo sito Internet, «mezzo non consueto per chi è nato nel 1915. Sono un figlio dell’ultimo secolo dello scorso millennio: quel Novecento che ha prodotto gli orrori della bomba atomica e dello sterminio di massa, ma anche le speranze e le lotte di liberazione di milioni di esseri umani».

“Avevamo le stesse passioni lasciate per gettarci nella politica” 

Il ricordo del Presidente emerito della Repubblica che fu suo avversario: “Una persona di assoluta limpidezza morale, mai un interesse personale” 

Mario Calabresi Stampa 28 9 2015

Sono scosso emotivamente da un evento che, anche se non si può definire inatteso, per me resta molto doloroso». Dieci anni di età dividevano Pietro Ingrao e Giorgio Napolitano, insieme a molte battaglie politiche su fronti opposti, ma quando il Presidente emerito della Repubblica riceve la notizia della morte dello storico esponente comunista nella sua voce si sente la sofferenza per la scomparsa di quello che a lungo è stato un suo compagno di partito.

Ricorda il vostro primo incontro?

«Io e Pietro Ingrao ci siamo conosciuti nel luglio del 1948 al Policlinico di Roma dopo l’attentato a Togliatti. Il leader del Pci era uscito dalla sala operatoria e c’era un pellegrinaggio in ospedale, quello fu il momento in cui ci incontrammo per la prima volta. Il nostro rapporto si intensificò quando cominciai a occuparmi del Mezzogiorno: la questione meridionale era uno dei temi che aveva più a cuore e proprio su questa cominciammo a discutere e a confrontarci».

Prima di parlare delle storiche divisioni politiche tra voi, le chiedo: cosa più vi accomunava?

«Potrei dire la biografia. Certo tra noi c’erano dieci anni di differenza, però era molto simile il cammino fatto da giovanissimi, che non si nutriva di politica ma di cultura: soprattutto di cinema per lui e di teatro per me, e poi la poesia. I poeti che lui citava erano gli stessi che amavo leggere io, in modo particolare Montale, Ungaretti e Quasimodo. Abbiamo avuto le stesse letture e le stesse passioni che poi abbiamo dovuto lasciare alle spalle per gettarci nelle contese della politica».
Il momento di maggior divisione?
«La più aspra polemica tra noi fu alla vigilia dell’XI congresso del Pci nel 1966, due anni dopo la morte di Togliatti. La scomparsa di un leader che aveva garantito una guida unitaria aprì una stagione nuova in cui emersero posizioni apertamente conflittuali». Napolitano si ferma all’improvviso e resta in silenzio per alcuni secondi: «Mi fa impressione pensare che sono passati quasi cinquant’anni da quel momento, mezzo secolo ci divide da quella stagione di scontro e oggi mi fa piacere ricordare che l’amicizia tra noi non è mai venuta meno, non è mai stata scossa dalle divergenze, e comunque non ci fu mai più virulenza politica paragonabile alla stagione del dopo Togliatti».
Qual è il suo giudizio sulla vita politica di Ingrao?
«È un giudizio che va dato su un’intera generazione non solo di comunisti ma di politici che avevano un forte retroterra ideale e intellettuale, che arricchivano di continuo la loro conoscenza politica con l’elaborazione culturale. Ingrao è stato un uomo di assoluta limpidezza morale, non ha mai combattuto battaglie per interessi o ambizione personale». 
Nessuna critica?
«Ci furono momenti in cui manifestò una certa tendenza schematica nell’analisi e nelle conclusioni, gli imputavo di non avere sufficiente duttilità, ma sono cose su cui non si può tornare con slogan passati».
E che ricordo ne ha come presidente della Camera, incarico che ricoprì dal 1976 al ’79?
«Fu assolutamente impeccabile, compreso nel suo ruolo e nella responsabilità che aveva assunto, un vero uomo delle Istituzioni. Dimostrò di avere grande polso e quando ci furono il rapimento e poi l’uccisione di Aldo Moro tenne una linea di condotta esemplare. Quando poi toccò a me occupare lo stesso posto a Montecitorio ebbi da lui un magnifico ed esemplare sostegno».
Che idea aveva delle istituzioni?
«Fu sempre un forte fautore di un rinnovamento istituzionale e fu un fermo e convinto sostenitore del monocameralismo, anche durante la preparazione dei lavori per la commissione Bozzi spinse il Pci ad avere l’idea di una sola Camera come posizione di principio e di partenza».
La sua opposizione alla svolta di Occhetto che peso ebbe nella scissione che portò alla nascita di Rifondazione?
«Non penso che lo si possa considerare tra i promotori di Rifondazione comunista, Ingrao certo non si sentì di avallare il superamento del Pci, e questo fu anche un suo limite, ma non era uomo da scissioni, anche se poi in solitaria uscì dal Pds per aderire a Rifondazione».
Quando vi siete visti l’ultima volta?
«L’ultima volta che ci siamo incontrati di persona fu certamente a Montecitorio, mentre l’ultimo messaggio che ho ricevuto da lui me lo ha portato sua figlia Chiara dopo che nel marzo scorso gli mandai un telegramma per festeggiare i suoi 100 anni, era lucido e mi ringraziava con affetto».

La nostra tribù, mai una corrente
La storia di Pietro. L’ascolto degli altri e l’idea della politica come partecipazione, due caposaldi dell’ingraismo che valgono assai più di ogni ortodossia. Perché restano una buona bussola per un nuovo impegnoLuciana Castellina Manifesto 29.09.2015
Così, quando dome­nica mi ha rag­giunto la tele­fo­nata di Chiara e io ero a sedere al sole in un caffè delle Ram­blas a Bar­cel­lona dove, essendo di pas­sag­gio per la Spa­gna, mi ero fer­mata per aspet­tare i risul­tati elet­to­rali della Cata­lo­gna, il suo tri­stis­simo annun­cio è stato quasi una fuci­lata. Per­ché prima di ogni altra cosa è stato come mi venisse aspor­tato un pezzo del mio stesso corpo.
Così, io credo, è stato per tutta la lar­ghis­sima tribù chia­mata «gli ingra­iani», qual­cosa che non è stata mai una cor­rente nel senso stretto della parola per­ché la nostra intro­iet­tata orto­dos­sia non ci avrebbe nep­pure con­sen­tito di imma­gi­nare tale la nostra rete.
E però siamo stati forse di più: un modo di inten­dere la poli­tica, e dun­que la vita, al di là della spe­ci­fi­cità delle ana­lisi e dei pro­grammi che soste­ne­vamo. Sic­ché sin dall’inizio degli anni ’60 e fino ad oggi, gli ingra­iani sono in qual­che modo distin­gui­bili, seb­bene le loro scelte indi­vi­duali siano andate col tempo diver­gendo, den­tro e fuori del Mani­fe­sto; e poi den­tro e fuori le suc­ces­sive labili rein­car­na­zioni del Pci. Oggi poi — den­tro una sini­stra che fatica a rico­no­scere i pro­pri stessi con­no­tati e nes­suno si sente a casa pro­pria dove sta per­ché vor­rebbe la sua stessa casa diversa da come è –que­sto tratto sto­rico dell’ingraismo direi che pesa in cia­scuno anche di più.
Vor­rei che non si per­desse, per­ché al di là delle scelte diverse cui ha con­dotto cia­scuno di noi, è un patri­mo­nio pre­zioso e utile anche oggi.
Di quale sia stato il nucleo forte del pen­siero di Pie­tro Ingrao, ho già par­lato, io e altri, tante volte, e ancora nell’inserto che il mani­fe­sto ha dedi­cato ai suoi cent’anni, ripro­po­sto on line pro­prio ieri. Vor­rei che quelle sue ana­lisi e linee pro­gram­ma­ti­che che pur­troppo il Pci non fece pro­prie, non venisse anne­gato, come è acca­duto per Enrico Ber­lin­guer, nella reto­rica ridut­tiva e stra­vol­gente dell’ “era tanto buono, bravo one­sto, ci dà corag­gio e passione”.
Oggi, comun­que, di Pie­tro vor­rei affi­dare alla memo­ria soprat­tutto due cose, che poi sono in realtà una sola: l’ascolto degli altri e l’idea della poli­tica come, innan­zi­tutto, par­te­ci­pa­zione e per­ciò sog­get­ti­vità delle masse.
Quando incon­trava qual­cuno, o anche nelle riu­nioni e per­sino nel dia­logo con un com­pa­gno ai mar­gini di un comi­zio, era sem­pre lui che per primo chie­deva: “ma tu cosa pensi?” ;“come giu­di­chi quel fatto?”; “cosa pro­por­re­sti?”. Non era un vezzo, voleva pro­prio saperlo e poi stava a sen­tire. Per­ché il suo modo di essere diri­gente stava nel cer­care di inter­pre­tare il sen­tire dei com­pa­gni. Anche di por­tare le loro idee a un più alto livello di ana­lisi e pro­po­sta, cer­ta­mente, ma sem­pre a par­tire da loro, per arri­vare, assieme a loro, e non da solo, a una con­clu­sione, a una scelta.
Per que­sto quel che per lui con­tava, quello che a suo parere qua­li­fi­cava la demo­cra­zia e la qua­lità di un par­tito, era la par­te­ci­pa­zione, la capa­cità di sti­mo­lare il pro­ta­go­ni­smo, la sog­get­ti­vità delle masse. Senza di cui non poteva esserci né teo­ria né prassi significativa.
Non voglio espli­ci­tare para­goni con l’oggi, sarebbe impietoso.
Ros­sana, rispon­dendo ad un’intervista di La Repub­blica, ieri ha detto di Pie­tro, anche della sua reti­cenza nell’assumere posi­zioni più nette, come fu al momento in cui noi, pur “ingra­iani doc”, ope­rammo la rot­tura della pub­bli­ca­zione della rivi­sta Il mani­fe­sto. E poi ricorda anche Arco di Trento, quando quel 30 per cento del Pci che rifiu­tava lo scio­gli­mento del par­tito pro­po­sto dalla mag­gio­ranza occhet­tiana, pur rico­no­scen­dosi nella rela­zione che a nome di tutti aveva fatto Lucio Magri, si divise sulle scelte da com­piere: fra chi decise di uscire e dette vita a Rifon­da­zione, e chi — come Pie­tro — decise invece che sarebbe comun­que restato nell’organizzazione, il Pds, che, già mala­tic­cio, veniva alla luce. “Per stare nel gorgo”, come disse con una frase che è rima­sta scol­pita nella testa di tutti noi. Certo, è vero: se Pie­tro si fosse unito alla costru­zione di un nuovo sog­getto poli­tico sarebbe stato diverso, molto diverso. La rifon­da­zione comu­ni­sta più ricca e dav­vero rifon­da­tiva, per via del suo per­so­nale apporto ma anche di quella larga area di qua­dri ingra­iani che costi­tuiva ancora un pezzo vivo del Pci e sareb­bero stati pre­ziosi alla nuova impresa; e invece resta­rono invi­schiati e di mala­vo­glia nel lento depe­rire degli orga­ni­smi che segui­rono: il Pds, poi i Ds, infine, ma ormai solo alcuni, nel Pd.
Pie­tro però capì subito che stare in quel con­te­sto non era più “stare nel gorgo”, per­ché il gorgo, seb­bene assai inde­bo­lito, scor­reva ormai altrove. E infatti ruppe poco dopo e si impe­gnò nei movi­menti che gene­ra­zioni più gio­vani ave­vano avviato. E da que­sti fu ascoltato.
La sto­ria come sap­piamo non si fa con i se. Ma riflet­tere su quel pas­sag­gio sto­rico, per ragio­nare sugli errori com­piuti, da chi e per­ché e quali, sarebbe forse utile a chi, come tutti noi, sta cer­cando di costruire un nuovo sog­getto politico.
Per farlo nascere bene mi sem­bra comun­que essen­ziale por­tarsi die­tro l’insegnamento fon­da­men­tale di Pie­tro, che non è infi­ciato dal non avere, qual­che volta, ten­tato abba­stanza : che non c’è par­tito che valga la pena di fare se non si attrezza, da subito, a diven­tare una forza in grado di sol­le­ci­tare la sog­get­ti­vità popo­lare, per­ché que­sta è più pre­ziosa di ogni ortodossia.
Ma vor­rei che di Pie­tro ci por­tas­simo die­tro anche l’ottimismo della volontà.
Era lui che amava citare la famosa para­bola di Bre­cht sul sarto di Ulm (da cui Lucio Magri trasse poi il titolo del suo libro sul comu­ni­smo ita­liano). Come ricor­de­rete, il sarto insi­steva che l’uomo avrebbe potuto volare, fin­ché, stufo, il vescovo prin­cipe di Ulm gli disse “prova” e que­sti si gettò dal cam­pa­nile con le fra­gili ali che si era costruito. E natu­ral­mente si sfra­cellò. Bre­cht però si chiede: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Per­ché alla fine l’uomo ha volato. E’ la para­bola del comu­ni­smo: fino ad ora chi ha pro­vato a rea­liz­zarlo su terra si è sfra­cel­lato, ma alla fine, come è acca­duto con l’aviazione, ci riusciremo.
E’ que­sto l’impegno che nel momento della scom­parsa del nostro pre­zioso com­pa­gno Pie­tro Ingrao vor­rei pren­des­simo: di provarci.

Il potere del pensare e del fare
Ingrao. Sentirsi ingraiani ha significato intensità di spirito critico, tensione continua a lottare pensando possibile una nuova societàGianni Ferrara Manifesto 29.09.2015
Ha voluto sem­pre sen­tire, capire, scru­tare, cri­ti­ca­mente anche quanto a pre­sup­po­sti, tra­di­zioni, metodi, prima di indi­care, inse­gnare, con­durre sin­goli e masse. E capire era per lui pene­trare nella realtà dei rap­porti umani, comin­ciando da quelli di pro­du­zione e coglien­done ogni pro­se­cu­zione, ogni effetto imme­diato e pro­tratto a qua­lun­que altezza e in quale dimen­sione si col­lo­casse, qual­siasi suo pro­filo potesse rile­vare sulla con­di­zione umana nell’età del capitalismo
Del più alto valore è stata la con­ce­zione della demo­cra­zia che Ingrao ha defi­nito e per cui ha com­bat­tuto. Soste­nendo che «il voto non basta». E «non basta» infatti nei regimi che ne iso­lano la rile­vanza e ne limi­tano il potere reale di inci­dere diret­ta­mente o indi­ret­ta­mente sui rap­porti di potere eco­no­mico, oltre che di quello sociale e di quello politico.
Tanto meno nei regimi che ne distor­cono gli effetti devian­doli da quelli auten­ti­ca­mente rap­pre­sen­ta­tivi. Né basta se non col­le­gato ad altri isti­tuti di par­te­ci­pa­zione diretta alla dina­mica poli­tica. Soste­nendo poi la coor­di­na­zione di tutte le assem­blee elet­tive come con­di­zione e stru­mento di una demo­cra­zia che per­vada l’intera com­ples­sità isti­tu­zio­nale della aggre­ga­zione umana a forma stato. Soste­nendo, infine, con grande luci­dità ed eguale fer­mezza la neces­sità di opporsi alla deca­denza di civiltà poli­tica, cul­tu­rale e morale che andava matu­rando in Ita­lia con la cri­mi­nosa pro­spet­tiva di un uomo solo al comando.
In modo diverso, sen­tirsi ingra­iani ha signi­fi­cato inten­sità di spi­rito cri­tico, ten­sione con­ti­nua a lot­tare pen­sando pos­si­bile una società in cui il « libero svi­luppo di cia­scuno sia con­di­zione del libero svi­luppo di tutti».

Ingrao, il commosso saluto è l’ultimo
Cerimonia. La camera ardente a Montecitorio per l’ex presidente, sipario su una storia ormai chiusa. Compagni divisi che si ritrovano, Napolitano non sfugge alla tentazione di arruolare la memoria. La camera ardente a Montecitorio per l’ex presidente, sipario su una storia ormai chiusa. Compagni divisi che si ritrovano, Napolitano non sfugge alla tentazione di arruolare la memoria ROMA Manifesto 
Al primo piano della camera dei depu­tati, la camera ardente è alle­stita nella sala che da qual­che anno è inti­to­lata ad Aldo Moro (e nel ’78 toccò ad Ingrao pre­si­dente dell’assemblea di Mon­te­ci­to­rio avver­tire l’aula del rapi­mento del segre­ta­rio Dc, con un discorso che fu cri­ti­cato per­ché troppo breve e senza dibat­tito, ma in quell’ora tra­gica il comu­ni­sta avver­tiva l’urgenza di far nascere un governo, quello Andreotti, che pure non gli pia­ceva). Il primo pic­chetto attorno alla bara sco­perta è quello della Fiom, con Mau­ri­zio Lan­dini. La grande fami­glia Ingrao è siste­mata in una fila di sedie sul lato sini­stro, la sorella Giu­lia, le figlie Cele­ste, Bruna, Chiara e Renata, il figlio Guido, tanti nipoti. Alle pareti le corone di fiori della alte cari­che isti­tu­zio­nali e una sola di par­tito, il Pd. Un ritratto di Ingrao stac­cato dalla «Corea» — la Gal­le­ria dei pre­si­denti — è siste­mato al cen­tro tra una ban­diera del Pci e una della pace. Men­tre si alter­nano i pic­chetti — Ber­ti­notti, Ven­dola e il gruppo diri­gente di Sel, Fas­sina, il pre­si­dente della Regione Lazio Zin­ga­retti e il vice sin­daco di Roma Causi — arriva subito Gior­gio Napo­li­tano. Saluta i parenti con un bacio, resta un po’ in appog­gio sul bastone di fronte al fere­tro, poi si avvi­cina e dà un col­petto a mano aperta sul legno, forse una carezza. Alla Stampa ha detto che «Ingrao è stato un uomo di asso­luta lim­pi­dezza morale, non ha mai com­bat­tuto bat­ta­glie per inte­ressi o ambi­zione per­so­nale»; i due sono stati molto avver­sari nel Pci, divisi da tutto ancora prima del cele­bre dis­senso di Ingrao nel con­gresso del ’66 e fino allo scio­gli­mento del ’90. «Ingrao era per il mono­ca­me­ra­li­smo», trova il modo di ricor­dare il pre­si­dente eme­rito della Repub­blica che oggi è il primo spon­sor della riforma costi­tu­zio­nale di Renzi. Ed è vero, salvo che nella sua costante rifles­sione sui «pro­blemi dello Stato», Ingrao par­tiva dall’esigenza di raf­for­zare par­la­mento e rap­pre­sen­tanza (rac­colto da poco in volume il suo car­teg­gio con Nor­berto Bob­bio): il mono­ca­me­ra­li­smo con l’Italicum è tutta un’altra storia.
La ten­ta­zione di accor­dare il pen­siero di un grande lea­der con il pro­prio è com­pren­si­bile — si faceva anche nel Pci con le posi­zioni di Togliatti, «lo chia­ma­vamo “tirare la coperta”, ha ricor­dato Ingrao nel suo Le cose impos­si­bili -, alla camera ardente arriva Achille Occhetto pre­ce­duto da un fondo sull’Unità ren­ziana in cui sostan­zial­mente rac­conta che Ingrao avrebbe ade­rito alla svolta della Bolo­gnina se solo gliel’avesse spie­gata lui. Renzi è a New York per l’assemblea Onu, il governo è pre­sente con la mini­stra delle riforme Boschi, il vice­mi­ni­stro Morando e il sot­to­se­gre­ta­rio De Vin­centi, che fa anche un turno di pic­chetto. Assenti in massa alla cele­bra­zione uffi­ciale della camera del cen­te­simo com­pleanno di Ingrao, i ren­ziani sta­volta fanno capo­lino: il capo­gruppo del Pd alla camera Rosato, il capo­gruppo al senato Zanda, il depu­tato Car­bone, la pre­si­dente della prima com­mis­sione del senato Finoc­chiaro. Pochi gli espo­nenti dei par­titi di cen­tro e destra che ven­gono a ren­dere omag­gio, il vice pre­si­dente for­zi­sta della camera Bal­delli, l’ex Dc D’Onofrio, Rutelli, Mariotto Segni, Nando Ador­nato che ha tra­scorsi comu­ni­sti. In serata fa il suo ingresso il pre­si­dente del senato Piero Grasso. Ma è soprat­tutto un incon­trarsi a sini­stra, tra i tanti che sono stati ingra­iani almeno un po’, o «mino­ranza di sini­stra» come pre­fe­riva Ingrao. Come Occhetto, del resto, che va incon­tro e si fa rico­no­scere dall’ottantenne Luigi Schet­tini, che è stato una colonna dell’ingraismo meri­dio­nale. Un po’ alla volta arri­vano Gavino Angius, Luigi Ber­lin­guer, Gianni Cuperlo, Wal­ter Tocci, Cesare Damiano, Vin­cenzo Vita, Cesare Salvi, Gior­gio Ruf­folo, Ugo Spo­setti, Wal­ter Vel­troni. Invece entra unita la dele­ga­zione dell’Ars: Aldo Tor­to­rella, Alfiero Grandi e Piero De Siena.
La ceri­mo­nia nel palazzo si pre­sta poco alla par­te­ci­pa­zione popo­lare, ma sono comun­que cen­ti­naia i cit­ta­dini romani che sfi­lano davanti al cada­vere di Ingrao. A tratti davanti all’ingresso prin­ci­pale della camera si forma una pic­cola fila. Molti por­tano un fiore, qual­cuno alza veloce un pugno chiuso. Domani i fune­rali saranno in piazza Mon­te­ci­to­rio, all’aperto. Come quelli di Pajetta, 25 anni fa.

Un vuoto pesante, eredità per l’Europa
XX Secolo. Rilettura degli scritti che annunciavano un nuovo periodo storico nel mondo gravido di contraddizioni e conflitti come mai nel passato. Profondità sociale e dimensione globale di un leader della sinistra continentale che non si è mai stancato di opporre il superamento critico del presente. Mentre nasceva la "cultura della stabilità" che rielaborava restrittivamente il riformismo socialdemocratico. La radicalità del pensiero che ci aiuta a uscire dall’imbuto della crisi profonda che stiamo vivendoLeonardo Paggi Manifesto 
Quella di Ingrao è una bara pesante. In essa c’è in primo luogo rac­chiuso un enorme patri­mo­nio di lotte e di sacri­fici del popolo ita­liano che se non hanno rea­liz­zato il socia­li­smo hanno cam­biato la fac­cia del nostro Paese, ren­den­dolo immen­sa­mente più civile e più digni­toso. Una grande espe­rienza col­let­tiva, che Ingrao ha voluto fino in fondo ricor­dare e rap­pre­sen­tare anche sim­bo­li­ca­mente, con quella sua tenace volontà di man­te­nere il pugno alzato, per­sino quando il corpo pie­gato dagli anni comin­ciava ad abban­do­narlo. Quel gesto ele­men­tare non era vuota litur­gia; inten­deva piut­to­sto ripro­porre al popolo, come agli intel­let­tuali, il rigetto di ogni pre­sunta fata­lità della sto­ria, inteso non solo come atto di volontà, ma come forma obbli­gata di qual­siasi abi­ta­zione intel­li­gente del mondo. Al “disin­canto” webe­riano con cui tanti intel­let­tuali ita­liani sono rien­trati come veri aba­tini nel con­for­mi­smo dell’ordine, Ingrao non si è mai stan­cato di opporre la tra­scen­denza cri­tica del pre­sente come espres­sione neces­sa­ria di una ragione ragio­nante degna di que­sto nome.
L’esercizio di que­sta ragione è più impor­tante che mai. La bara di Ingrao ci ripro­pone anche l’obbligo di cimen­tarsi senza mezze misure con quel dram­ma­tico rove­scia­mento dei rap­porti di forza che comin­cia a pro­fi­larsi nel nostro Paese, come nel resto di Europa, sullo scor­cio del XX secolo, a pro­po­sito del quale autori di tra­di­zione social­de­mo­cra­tica par­lano oggi di post demo­cra­zia. Mi rife­ri­sco alla svolta che si pro­duce nel con­ti­nente tra il 1989 e il 1992, con la caduta del muro di Ber­lino, la fine dell’Unione sovie­tica, la riu­ni­fi­ca­zione della Ger­ma­nia e la firma del Trat­tato di Maa­stri­cht, che con la moneta senza stato e la piena libertà di movi­mento dei capi­tali pre­fi­gura l’Europa di oggi, fla­gel­lata, senza difese, dai marosi della crisi.
E’ lo spa­zio tem­po­rale in cui si inse­ri­sce l’ultima bat­ta­glia di Ingrao. Riper­cor­rendo i suoi scritti col­pi­sce la tena­cia con cui si batte con­tro l’idea, allora senso comune, della fine della sto­ria; quella stessa che viene messa alla base dell’8 set­tem­bre, del «tutti a casa», del Pci. Non sono ana­lisi com­piute e for­mal­mente con­cluse, le sue, ma netta vi è la con­sa­pe­vo­lezza che un nuovo periodo della sto­ria del mondo si sta annun­ciando, gra­vido di con­trad­di­zioni e con­flitti supe­riori a quelli del pas­sato, sia per pro­fon­dità sociale che per dimen­sione glo­bale. Insomma non è un caso che nel suo comu­ni­cato Tsi­pras abbia par­lato di Ingrao come di un lea­der della sini­stra europea.
In que­gli stessi anni la tra­di­zione libe­ral­de­mo­cra­tica ita­liana ela­bora con la nozione di “cul­tura della sta­bi­lità” una rein­ter­pre­ta­zione sin­go­lar­mente restrit­tiva del rifor­mi­smo social­de­mo­cra­tico. La scienza eco­no­mica, nata e cre­sciuta come inda­gine sulla pro­du­zione della ric­chezza e sulla sua distri­bu­zione tra le classi sociali in con­flitto, diventa moneta e finanza, ossia scienza del rien­tro dal debito, che i tede­schi hanno posto come con­di­zione peren­to­ria per l’abbandono del marco. La sta­bi­lità dei prezzi che il Modell Deu­tschland è riu­scito a rea­liz­zare diventa motivo di una ammi­ra­zione subal­terna. I “para­me­tri” di Maa­stri­cht, che pon­gono limiti sem­pre cre­scenti al soste­gno della domanda interna, aprendo la strada alla sta­gna­zione di oggi, sono invo­cati come salu­tare «vin­colo esterno» capace di met­tere a norma una classe poli­tica spen­dac­ciona. Per quanto riguarda la “que­stione tede­sca” il limite pro­fondo di que­sto rifor­mi­smo libe­ri­sta sta nel non vedere come die­tro la vir­tuosa sta­bi­lità dei prezzi ci sia un’economia che, dopo aver poten­ziato inin­ter­rot­ta­mente la sua forza com­pe­ti­tiva in ter­mini di qua­lità e di prezzo, si appre­sta a lan­ciare un nuovo assalto ai mer­cati mon­diali, aggio­gando al suo carro tutto il pro­getto europeo.
Oggi che le poli­ti­che di auste­rità si intrec­ciano con una espli­cita defla­zione del sistema della rap­pre­sen­ta­zione poli­tica, sen­tiamo che tutta la cul­tura demo­cra­tica del Paese è giunta a un punto serio di veri­fica. Sen­tiamo che l’enorme patri­mo­nio sto­rico sim­bo­li­ca­mente rac­chiuso nella figura di Pie­tro Ingrao può essere sal­vato solo attra­verso la sua tra­smis­sione e la sua tra­du­zione in un con­te­sto sociale com­ple­ta­mente mutato. Per uscire dall’imbuto della crisi orga­nica che stiamo vivendo è indi­spen­sa­bile anche uno sforzo di pen­siero, una nuova radi­ca­lità nelle ana­lisi. L’esperienza sto­rica ci dice che da una crisi orga­nica si esce solo con la for­ma­zione di una nuova classe diri­gente. «Si parla di capi­tani senza eser­cito – scri­veva Gram­sci nel car­cere– ma in realtà è più facile for­mare un eser­cito che for­mare dei capi­tani». La natura della fase che stiamo vivendo, oltre che la per­so­na­lità di Ingrao a cui diamo l’estremo saluto, ci fa capire oggi meglio di prima la con­gruità di que­sta affermazione.

Last generation. Cosa ci insegna il vecchio maestroRiccardo Laterza Manifesto 
Pro­prio cal­cando la mano sulle vicende più discusse del suo impe­gno nel Pci e in par­ti­co­lare sul suo voto favo­re­vole all’espulsione del gruppo del Mani­fe­sto nel 1969, in molti riten­gono di poter con­fi­nare il rac­conto della figura di Ingrao nella dimen­sione col­lo­ca­bile tra l’eclettismo ana­li­tico e l’etica del Par­tito, una dimen­sione ormai sepolta dalla caduta del Muro e dalla fine della Prima Repub­blica. In que­sta rico­stru­zione le con­trad­di­zioni che egli stesso amava inda­gare e met­tere in ten­sione, sot­to­po­nen­dole alla prova dell’intelletto umano e della sua capa­cità di illu­mi­nare gli angoli più oscuri della realtà, risul­tano irri­me­dia­bil­mente spia­nate. Quella di Ingrao, dun­que, sarebbe una figura dalla quale oggi è pos­si­bile trarre al limite qual­che ele­mento di rile­vanza sto­rica, vaga­mente mito­lo­gica e agio­gra­fica, ma nes­sun inse­gna­mento con­creto, nes­suno stru­mento da met­tere nella cas­setta degli attrezzi per smon­tare le brut­ture di que­sto mondo.
Mi sento di poter dis­sen­tire. Dal pen­siero e dall’azione di Pie­tro Ingrao sto ancora impa­rando molte cose, e tante credo di poterne impa­rare.
Innan­zi­tutto su cos’è il dub­bio, cosa signi­fica pro­vare a farne stru­mento potente in una società in cui esso è molto evo­cato e assai poco pra­ti­cato. Era più dif­fi­cile met­tere in dub­bio, inter­ro­garsi e inter­ro­gare, dis­sen­tire, fare tutto ciò in forma pro­dut­tiva, con una con­ti­nua ten­sione verso la tra­sfor­ma­zione della realtà, nell’epoca dello scon­tro tra ideo­lo­gie con­trap­po­ste? Oppure oggi, nell’epoca del domi­nio incon­tra­stato dell’ideologia unica del libero mer­cato? Per que­sto credo che que­sto primo inse­gna­mento non sia affatto scontato.
Ancora, credo sia gra­zie a Ingrao che è diven­tato per me un po’ più chiaro cosa sia la luna. La luna, per alcuni, sarebbe la cifra della scon­fitta di Ingrao: per me è piut­to­sto il segno di una bat­ta­glia che è ancora aperta. Lungi dall’essere un luogo situato in una posi­zione inde­fi­nita tra l’astrazione dalla realtà e l’eterna scon­fitta, come qual­che detrat­tore masche­rato vuole far pas­sare in alcuni coc­co­drilli, essa è piut­to­sto quella dire­zione verso la quale far avan­zare ancora l’orizzonte delle aspet­ta­tive. La luna è pos­si­bile? Sì, lot­tando den­tro il con­ti­nuo svi­luppo della società, den­tro le vec­chie forme di domi­nio e le nuove pos­si­bi­lità di libe­ra­zione, sapendo che «in fondo, a ben vedere, certi guar­diani, per forti e feroci che siano, sono tut­ta­via alla fine abba­stanza stu­pidi», come disse Ingrao al XIX Con­gresso del PCI, nel 1990.
Ciò che ancora non credo di aver colto in tutta la sua com­ples­sità è il signi­fi­cato primo dell’indicazione di «rima­nere nel gorgo». Quando mi imbat­tei per la prima volta nella for­mula reto­rica uti­liz­zata da Ingrao all’XI Con­gresso in rispo­sta a Longo sulla que­stione del cen­tra­li­smo demo­cra­tico, la tro­vai di un tatto incom­pren­si­bile per la dia­let­tica poli­tica di oggi: quel vol­teg­gio di piuma, accolto da applausi scro­scianti, era stato tut­ta­via capace di ferire come una lama d’acciaio. Dif­fi­cile dun­que astrarre da un periodo sto­rico com­ple­ta­mente diverso da quello di oggi: credo tut­ta­via che «rima­nere nel gorgo» fosse un’indicazione di ricerca e di azione — e del rap­porto indis­so­lu­bile tra que­sti due aspetti — rivolta alla realtà, all’intricato rap­porto tra masse e potere, impos­si­bile da ridurre alla sem­plice col­lo­ca­zione den­tro o fuori dal Par­tito (che pure era parte fon­da­men­tale di quell’indicazione).
Infine, l’insegnamento più pre­zioso, che più sento den­tro, è quello di lasciarsi inter­ro­gare dalle rivolte. Non ho mai avuto la for­tuna di incon­trare Pie­tro Ingrao, ma ho incon­trato spesso la misura con­creta di que­ste sue parole nella costru­zione delle orga­niz­za­zioni stu­den­te­sche, negli sguardi delle migliaia di stu­den­tesse e stu­denti in strada e in piazza, nell’impegno poli­tico e nella neces­sità di cam­biare il mondo. Il nostro cam­mino è ancora nel tempo delle rivolte che non è sopito.
Gra­zie di tutto Pie­tro Ingrao.

Il costruttore di democrazia
Ingrao. Si rischia di dimenticare che il suo andare «oltre» la politica non voleva essere contrapposizione ma arricchimento. Una dimensione non immediatamente visibile a uno sguardo distratto ma che si doveva cogliere con uno sguardo lungo
Gianpasquale Santomassimo Manifesto 29.09.2015
Oggi c’è molta ipo­cri­sia nel nascon­dere o smi­nuire que­sto dato cen­trale della sua vita, nel ricon­durlo a enne­simo san­tino della litur­gia di una «società civile» sgan­ciata dalla poli­tica o addi­rit­tura ad essa con­trap­po­sta.
Fu cer­ta­mente con­si­de­rato – e lui stesso si con­si­derò – «ere­tico»: ma all’interno di una comu­nità di donne e di uomini unita da ideali comuni, se pure decli­nati in forme diverse, di cui con­di­vise fino alla fine (ed anche oltre per pochi anni, a comu­nità ormai dis­solta) senso di appar­te­nenza e obbli­ghi, spesso gra­vosi, che lo por­ta­rono a com­pro­messi e sacri­fici che rap­pre­sen­ta­rono nel tempo un rovello mai inte­ra­mente pla­cato. Se si osserva con distacco la sua vicenda poli­tica, di là dalle leg­gende e anche dalle auto­rap­pre­sen­ta­zioni, emer­gerà il pro­filo di un poli­tico rea­li­stico, capace di porre pro­blemi e pro­porre solu­zioni. Dalla con­sa­pe­vo­lezza nei primi anni Ses­santa di una nuova fase aperta dal mira­colo eco­no­mico e dal cen­tro­si­ni­stra, che impo­ne­vano un ripen­sa­mento di tutti i ter­mini della lotta poli­tica e sociale del movi­mento ope­raio, alla bat­ta­glia del decen­nio suc­ces­sivo per un rin­no­va­mento com­ples­sivo delle isti­tu­zioni, fon­dato sulla cen­tra­lità del par­la­mento in vista di una nuova rela­zione fra Stato, popolo e trama delle assem­blee elet­tive locali, in spi­rito di fedeltà alla Costituzione.
C’era in que­ste bat­ta­glie la con­sa­pe­vo­lezza che la demo­cra­zia par­la­men­tare e costi­tu­zio­nale non era un dato acqui­sito per sem­pre, ma un patto tra isti­tu­zioni e popolo che andava rin­no­vato e rin­sal­dato men­tre all’orizzonte si pro­fi­la­vano nuove insi­die interne ed eterne che ne mina­vano il fon­da­mento: «come se stes­simo in bilico — avver­tiva nel 1977 — tra un salto di qua­lità verso una civiltà supe­riore e il pre­ci­pi­tare nella degenerazione».
Divenne col pas­sare del tempo sem­pre più sim­bolo di qual­cosa dif­fi­cile da defi­nire in ter­mini uni­voci (ma comun­que lie­vito e sti­molo per molti).
Si inne­stò e si sovrap­pose alla sua vicenda sto­rica una mito­lo­gia facile, fatta di luo­ghi comuni dif­fusi e da ultimo per­fino inte­rio­riz­zata da Ingrao mede­simo nell’ultima fase della sua lunga vita: l’enfasi sull’utopia con­trap­po­sta alla realtà (che aveva invece stu­diato e ana­liz­zato con sguardo mai banale), la fama di «acchiap­pa­nu­vole», di poeta e sogna­tore… Col che si rischiava di dimen­ti­care che il suo andare «oltre» la poli­tica, nel porre temi che essa abi­tual­mente non si poneva, non voleva essere con­trap­po­si­zione ma arric­chi­mento, offerta di una dimen­sione non imme­dia­ta­mente visi­bile a uno sguardo distratto ma che si poteva e doveva cogliere con uno sguardo lungo.
Dimen­ti­cando che «sca­vare nella pol­vere» fra le rovine delle torri fra­nate non può ser­vire a baloc­carsi model­lando castelli di sab­bia, che dal «gorgo» biso­gna dove­ro­sa­mente farsi tra­sci­nare — ma senza affo­gare — per rie­mer­gere infine su nuove sponde. Guar­dare sto­ri­ca­mente alla sua atti­vità poli­tica dovrebbe impli­care anche eva­dere dalle neb­bie dell’«ingraismo» dive­nuto gergo e maniera, della poli­tica ridotta a stato d’animo, inde­ter­mi­na­tezza pro­gram­ma­tica, elo­gio del «dub­bio» che non pre­lude a una nuova azione, ma si com­piace e si para­lizza in esso.
Nel modo cor­rente di ricor­dare Ingrao temo che oggi molta parte della sini­stra stia cele­brando e assol­vendo anche la pro­pria inconcludenza.

Pietro
In una parola. La rubrica di Alberto Leiss questa settimana su Pietro IngraoAlberto Leiss Manifesto 29.09.2015
E non solo per essere stato lui il primo a riven­di­care un diritto al dis­senso, pur rima­nendo sem­pre obbe­diente alla disci­plina del par­tito. Ma per aver testi­mo­niato con­ti­nua­mente, lungo tutta la sua sto­ria poli­tica, l’ansia di una ricerca aperta sulla realtà, sem­pre spinta dalla pas­sione per la giu­sti­zia, per la libertà di chi subi­sce l’oppressione del potere, e per il dubbio.
Il suo nome, Pie­tro, e il suo volto, il suo corpo, par­la­vano di que­sta for­mi­da­bile ener­gia, mai spenta dagli errori poli­tici che pure il diri­gente comu­ni­sta Ingrao ha com­messo, e che è stato molto più dispo­sto di altri a riconoscere.
Sto leg­gendo o rileg­gendo i suoi scritti nel recente volume Coniu­gare al pre­sente (Ediesse), dove Maria Luisa Boc­cia e Alberto Oli­vetti hanno rac­colto inter­venti, inter­vi­ste e appunti tra l’89 e il ‘93. Gli anni del crollo del muro, della fine del Pci, e anche della scelta di Ingrao di abban­do­nare il Pds, dopo quel primo periodo dopo la svolta vis­suto, come disse, nel gorgo della tra­sfor­ma­zione trau­ma­tica del suo partito.
Segnalo due di que­ste testimonianze.
La prima è un dia­logo tra Ingrao e Alex Lan­ger, pub­bli­cato nel ’90 da Nuova eco­lo­gia. Il lea­der ambien­ta­li­sta valu­tava posi­ti­va­mente, ma non in modo acri­tico, la svolta di Occhetto, e si ram­ma­ri­cava che un uomo «con l’autorità della sto­ria poli­tica e della figura morale» di Ingrao non si fosse messo «alla testa di que­sto pos­si­bile cam­bia­mento». Lan­ger vedeva bene come molti che sta­vano con il Sì di Occhetto inten­des­sero la svolta quale «omo­lo­ga­zione, come la rimo­zione di un osta­colo per entrare nei salotti buoni». E vedeva anche nello schie­ra­mento del No molte «per­sone più impe­gnate a difen­dere il diritto all’identità che a inci­dere politicamente».
Ingrao risponde di non cre­dere a un «atto sal­vi­fico»: un vero «rin­no­va­mento radi­cale del Pci» pre­sup­po­neva una ben diversa ana­lisi del pas­sag­gio sto­rico che stava vivendo il mondo e delle forze in campo. E il comu­ni­smo, come oriz­zonte, come punto di vista cri­tico – non certo il regime fal­lito a Est — «per­mette di leg­gere molto meglio i feno­meni attuali».
Allora io ero sulla posi­zione di Lan­ger. Oggi penso che sba­gliavo valu­ta­zione sulla svolta. Ma soprat­tutto mi sem­bra che le opi­nioni, le pas­sioni e le inquie­tu­dini di per­sone come Lan­ger e Ingrao vales­sero molto di più del loro schie­rarsi per il Sì o per il No nel con­fronto aperto nel Pci. E che abbiano molto da dire ancora oggi.
Come attuali sono gli appunti di Ingrao sul tema: «Può la poe­sia cam­biare il mondo?» Ne aveva discusso con Adriana Zarri e Erne­sto Car­de­nal all’Eremo di Monte Giove, nel giu­gno del ’91.
La tra­scri­zione di una sca­letta mano­scritta mima in un certo modo la scrit­tura in versi. Con frasi in let­tere maiu­scole, parole in cor­sivo. Una spe­cie di par­ti­tura. In cui, dopo la cita­zione dell’Infi­nito di Leo­pardi, si può leggere:
«e que­sto cam­bia
o meglio dilata il signi­fi­cato
delle parole
SCOPRE
SCOPRE
qual­cosa
che si può dire rap­pre­sen­tare
solo den­tro
quella tona­lità musi­cale
quindi LEGGE
in un altro modo
– secondo me molto più ricco -
la vita, l’esperienza vitale».
La poe­sia non può cam­biare il mondo? Ma senza una radi­cale ope­ra­zione sul lin­guag­gio, sul sim­bo­lico, non si farà una poli­tica capace di cambiarlo.

Pietro Ingrao, comunista eretico e senza scismi
di Guido Compagna Il Sole 29.9.15
«Coscienza critica della sinistra», «acchiappanuvole», «l’utopista che sognava la luna»: sono solo alcune che delle tante definizioni che hanno accompagnato la vita e la morte di Pietro Ingrao. Il quale però fu prima di tutto «un comunista» e subito dopo «un eretico senza scismi». Ha spiegato magistralmente nel suo sito facebook Emanuele Macaluso: «Ingrao è stato un comunista del partito di Togliatti e della via italiana e democratica al socialismo, nel quale convivevano uomini con posizioni diverse, ma convergenti sugli obiettivi di fondo ed egualmente impegnati con passione e con l’amore per una politica che guardasse essenzialmente agli interessi del mondo del lavoro e del Paese».
Ma Ingrao è stato anche un eretico. Ho aggiunto senza scismi. E in politica gli scismi sono le scissioni. Così non seguì i suoi amici e per certi versi discepoli, che diedero vita al gruppo de “Il manifesto”, subito dopo la radiazione del Pci. Anzi. In Comitato centrale neanche si oppose a quella radiazione. Lo ha ricordato lui stesso in una accorata autocritica nel suo libro “Volevo la luna”. Quasi a dimostrazione che dal partito ci si poteva discostare, ma che comunque non ci potevano e dovevano essere fratture. Qualcosa di simile avvenne con la svolta di Occhetto, anche quest’ultimo un suo, se non discepolo, compagno di idee e di ideali. Così ancora una volta il già anziano leader si discostò. L’eresia l’aveva fatta valere soprattutto in occasione dell’XI Congresso in discussione il principio del centralismo democratico. Andò alla tribuna e disse: «Non sono stato persuaso», ponendo con vigore la questione del diritto al dissenso. Colpì l’assoluto e immobile silenzio dei dirigenti e l’applauso entusiasta dei militanti.
Intendiamoci: la platea non era composta di eretici, ma di iscritti solitamente molto disciplinati e soprattutto ligi nei fatti alle direttive del partito. Probabilmente Ingrao era uno di quegli eretici che piacevano soprattutto agli ortodossi. Lo scontro al Congresso del 1966 fu comunque durissimo, la tensione con Amendola era palpabile, e secondo una ricostruzione dello stesso Pietro, Giorgio non esitò a metterlo in guardia da possibili scontri anche fisici. Ingrao fu comunque un leader molto amato dal popolo del Pci. Gli unici che hanno avuto il suo livello di sua popolarità probabilmente sono stati Togliatti e Berlinguer. Non è un caso che il regista Ettore Scola in un suo film (”Dramma della gelosia...”) abbia voluto inserire alcune scene di un comizio del dirigente ciociaro in piazza San Giovanni. Alla vigilia del Congresso di Firenze del 1986 (segretario Alessandro Natta), rispondendo ad una domanda su come si sarebbe svolto il Congresso, un altro dirigente migliorista Napoleone Colajanni rispose con non celata malizia: «Ci sarà un discorso di Ingrao, molto appalaudito, ma pressochè identico a quello del precedente Congresso e a quello prima ancora». Era un modo per spiegare due cose: la prima che comunque non ci sarebbero state grandi novità, la seconda che Ingrao, nonostante fosse molto amato dalle platee di partito, ancora una volta avrebbe contato poco nel definire la linea politica.
È stato veramente così? Forse nel Pci il grande merito di Ingrao è stato di avere talvolta capito alcune cose prima e soprattutto con maggiore chiarezza e coraggio di altri. Per esempio Ingrao, che pure in occasione dell’Ungheria, da direttore dell’Unità, aveva scritto e titolato: “Da una parte della barricata”, sostenne prima e con più nettezza le ragioni di Dubcek e Svoboda, anche prima dell’arrivo dei carri armati sovietici a Praga del 1968. Fin qui il rapporto di Ingrao con il suo partito. C’è poi l’uomo delle istituzioni. Dal 1976 al 1979 è il primo comunista a essere presidente della Camera con grandi di imparzialità che gli riconoscono anche gli avversari. Ma è anche l’animatore del Centro per la riforma dello Stato. A conferma dell’importanza che la tenuta e la buona salute delle istituzioni democratiche hanno per molti dirigenti dell’allora Pci lo stesso rilievo che il contrasto alle diseguaglianze sociali. Monocameralista fin dalla Commissione Bozzi ha comunque sempre ritenuto irrinunciabile la rappresentatività e la centralità del Parlamento. Ma Ingrao, lo ha ricordato molto bene Alfredo Reichlin nel marzo scorso in un discorso alla Camera in occasione dei suoi 100 anni, non fu soltanto un punto di riferimento per i comunisti. Negli anni ’60 con lui interloquirono nel dibattito sul nuovo modello di sviluppo sindacalisti come Bruno Trentin, e soprattutto politici come Ugo La Malfa e i cosiddetti “professorini” della sinistra dc come Giovanni Galloni e Ciriaco De Mita.

Democrazia è sostanza ecco l’eredità di Ingrao
La lezione del grande uomo politico appena scomparso Non contano soltanto le regole del gioco, il “come”, ma anche il “cosa”. Al formalismo studiato da Bobbio va unito il realismodi Gustavo Zagrebelsky Repubblica 29.9.15
«Il voto, da solo, non basta». In questa breve frase di Pietro Ingrao può essere racchiuso tutto il senso della sua lunga riflessione sulla democrazia, sulla rappresentanza, sul sistema parlamentare. Le considerazioni che seguono sono un commento a queste parole: un commento che ha sullo sfondo — non potrebbe essere diversamente — le condizioni attuali della democrazia nel nostro Paese. Prendo lo spunto da un carteggio tra lo stesso Ingrao e Norberto Bobbio, a margine e a seguito d’un convegno torinese svoltosi nell’autunno del 1985. Le lettere sono, la prima (di Bobbio), del 12 novembre e l’ultima (d’Ingrao) del 30 gennaio 1986 (ora in P. Ingrao, Crisi e riforma del Parlamento, Ediesse). In quel dialogo si discute di “vera e falsa democrazia”. Sono a confronto due posizioni. Bobbio ripropone quella ch’egli stesso definiva la “definizione minima” di democrazia. Questa definizione a Ingrao appariva insufficiente. Anzi, nelle condizioni economiche e sociali date, gli appariva vuota e ingannevole: in sostanza, la copertura d’interessi di oligarchie nazionali e sovranazionali, contrastanti con i diritti delle masse lavoratrici e con la loro urgenza d’emancipazione. La riflessione e la terminologia di Ingrao vengono da lontano. Masse e potere è il titolo d’una raccolta di scritti (il primo è del 1964), pubblicata nel 1977, che ispirò in quegli anni parte della sinistra. I concetti- chiave di Ingrao sono tre: masse, unità ed egemonia. Naturalmente, stiamo parlando delle masse popolari, dell’unità della sinistra e dell’egemonia della cultura che ne costituiva l’identità.
Ma — ecco entrare in scena Bobbio — nell’intento di accordare la democrazia ai contesti storici, esistono limiti concettuali che devono essere tenuti fermi, a pena di confusione, fraintendimenti e, anche, d’inganni. Una definizione è necessaria, ma una definizione troppo pretenziosa non aprirebbe, bensì chiuderebbe il confronto. Ecco l’attaccamento di Bobbio alle “definizioni minime”. Sono minime le sue definizioni di socialismo, liberalismo, destra e sinistra, ad esempio. Ed è minima la definizione di democrazia; potremmo anzi dire minimissima: a) tutti devono poter partecipare, direttamente o indirettamente, alle decisioni collettive; b) le decisioni collettive devono essere prese a maggioranza. Oltre che minima, questa definizione è anche solo formale: si riferisce al “chi” e al “come”, ma non al “che cosa”. Riguarda soltanto — come si usa dire per analogia — le “regole del gioco”, ma non il risultato del gioco. In un testo del 1987 (ora in Teoria generale della politica, Einaudi), le due regole diventano sei, così: 1. tutti i cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età senza distinzione di razza, di religione, di condizione economica, di sesso, debbono godere dei diritti politici, cioè ciascuno deve godere del diritto di esprimere la propria opinione o di scegliere chi la esprime per lui; 2. il voto di tutti i cittadini deve avere peso uguale; 3. tutti coloro che godono dei diritti politici debbono essere liberi di poter votare secondo la propria opinione formatasi quanto più è possibile liberamente, cioè in una libera gara tra gruppi politici organizzati in concorrenza fra loro; 4. debbono essere liberi anche nel senso che debbono essere posti in condizione di scegliere tra soluzioni diverse, cioè tra partiti che abbiano programmi diversi e alternativi; 5. sia per le elezioni, sia per le decisioni collettive, deve valere la regola della maggioranza numerica, nel senso che si consideri eletto il candidato, o si consideri valida la decisione, che ha ottenuto il maggior numero di voti; 6. nessuna decisione presa a maggioranza deve limitare i diritti della minoranza, particolarmente il diritto di diventare maggioranza a parità di condizioni. Ripercorrendo questi sei punti, ci accorgiamo che la definizione minima e formale resta ferma, ma si introducono precisazioni, per così dire, di ambiente.
In sintesi, può dirsi che, mentre la posizione di Bobbio si giustifica sul piano della teoria; la posizione di Ingrao si radica nella realtà politica e sociale del suo tempo. Le riflessioni istituzionali di Ingrao prendono origine, sempre, da analisi realistiche. A differenza di quel che sarebbe successo in tempi a noi più vicini, le “regole del gioco” non sono da lui considerate in astratto, ma sempre in relazione ai contenuti della politica, la politica di emancipazione delle classi subalterne. L’aspetto sostanziale è sempre presente. Si tratta di promuovere realizzazioni e contrastare tendenze, avendo come obiettivo i principi di libertà, di giustizia e di emancipazione sociale scritti nella Costituzione, in particolare nell’art. 3, secondo comma, richiamato in ogni possibile occasione. Nessuna riforma delle regole è indifferente rispetto alla sostanza — per rimanere nell’immagine — del gioco che viene giocato.
Al di là delle questioni di parole, ciò che si può dire conclusivamente dal carteggio da cui ho preso spunto, è, forse, che il contrasto tra Bobbio e Ingrao è più apparente che reale. Questa conclusione non è dettata dall’amore per il compromesso a ogni costo. Ciò di cui parla Bobbio ha bisogno di ciò di cui parla Ingrao. Il loro discorso si svolge su piani diversi che non si scontrano, ma si completano. Bobbio parla della democrazia rispetto alle sue leggi di cornice entro la quale la lotta politica deve contenersi, Ingrao della democrazia come lotta politica; l’uno della democrazia come forma che presuppone una sostanza, l’altro della sostanza che implica una forma. Bobbio parla delle condizioni della democrazia, ma le possibilità non bastano se non ci sono forze che sappiano che farsi della democrazia, che traggano la democrazia dal regno delle possibilità al regno della realtà.
Se queste forze mancano, le forme, da sole, non sono capaci di suscitarle e la democrazia è destinata a essere solo il titolo d’un capitolo nei libri di diritto costituzionale. Del resto, che la forma non sia sufficiente; che essa sia destinata a diventare un guscio vuoto e a risultare una formula mendace, occultatrice di realtà non o anti- democratiche, alla fine ripudiata dai cittadini, è Bobbio stesso a riconoscerlo: «Io non posso separare la democrazia formale dalla democrazia sostanziale. Ho il presentimento che dove c’è soltanto la prima, un regime democratico non è destinato a durare» (Lettera a Guido Fassò del 14 febbraio 1972, citata in L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia,
Laterza. Una conclusione perfettamente conforme alle preoccupazioni di Ingrao che credo giusto rammentare nel momento in cui di lui festeggiamo riconoscenti il contributo alla vita della Repubblica, ricordando cose dette più di trent’anni fa, ma valide non solo per quei tempi.
(Questo testo è un estratto del discorso pronunciato da Gustavo Zagrebelsky il 31 marzo 2015 in occasione dei 100 anni di Pietro Ingrao su invito della Camera dei deputati).

Pietro Ingrao, tra partito e pacifismoAgostino Giovagnoli Avvenire 29 settembre 2015

Così fu travolta la sinistra comunista
Il funerale di stato per Pietro Ingrao a Montecitoriodi Alberto Burgio
Ha fatto bene il manifesto a pubblicare il discorso in memoria di Pietro Ingrao — un testo breve ma denso di implicazioni — pronunciato da Alfredo Reichlin in piazza Montecitorio.
Colpisce in primo luogo il riferimento all’attenzione che il gruppo dirigente comunista e Ingrao in particolare sempre riservarono alla costruzione di strutture sindacali, politiche e culturali adeguate alle forme di vita che via via venivano affermandosi nell’esperienza della classe operaia e dei ceti subalterni. Si trattava dell’idea gramsciana del radicamento del partito nella vita reale del «soggetto». Ed era, forse più semplicemente, il riflesso della consapevolezza della necessità di trarre dal contatto diretto col mondo del lavoro gli elementi essenziali della lettura critica della società e, di qui, le direttrici della battaglia per l’emancipazione e la trasformazione.
Non è un passaggio trascurabile.
Spesso e non senza unilateralità si parla di Ingrao come del dirigente comunista più attento alla fecondità dei movimenti e più interessato al dialogo con le forme emergenti della soggettività. E altrettanto spesso lo si ricorda come l’uomo del dubbio, insofferente al conformismo e alla disciplina imposta — non sempre per buoni motivi — nei partiti comunisti plasmati dall’esperienza della Terza Internazionale e della guerra antifascista. Una disciplina che Ingrao contrastava non in linea di principio, per assunti precostituiti. Ma perché vi ravvisava un pericolo di ripiegamento su sterili certezze, una clausola avversa alla ricerca fuori dagli schemi, all’ascolto spregiudicato della realtà. Nonché una modalità incompatibile con la libertà dei soggetti: al punto di scorgere proprio in quella rigidità ideologica e nella cifra autoritaria delle organizzazioni due tra le principali cause della sconfitta storica del movimento comunista nel secondo dopoguerra.
Quel che spesso tuttavia si dimentica è che quell’apertura e quella curiosità si coniugavano con la cura per la comunità del partito e con la coscienza della sua funzione indispensabile nell’elaborazione del soggetto e nella costruzione del conflitto di classe. Un’attitudine che si pone letteralmente agli antipodi dell’ideologia del partito leggero nel cui nome, dalla seconda metà degli anni Ottanta, si provvide a smantellare la struttura articolata del Pci, a sradicarlo dai territori e dalle maglie della relazione sociale, ad avviarne la trasformazione in partito d’opinione prima, in campo di concorrenza tra leader a fini elettorali poi e, finalmente, in uno strumento di comando politico scalabile dai più agguerriti portavoce dei poteri forti. Stavano a cuore a Ingrao l’apertura al confronto come la pratica del dubbio e la ricchezza della ricerca concreta. Ma non gli premevano di meno la saldezza dell’organizzazione come trama viva di relazioni umane, la sua compattezza e persino la salvaguardia delle sue ritualità tramandate e condivise nel corso del tempo.
Questo abito fu una delle ragioni della sua radicale estraneità alla metamorfosi imposta al Pci e poi alla sua liquidazione. Sulla scelta di Ingrao di «restare comunque nel gorgo» non si smetterà di discutere. Si trattò di una decisione pesante che molto influenzò le sorti del nascente movimento della rifondazione comunista e della sinistra di alternativa tutta nel lungo periodo. Ma quel dato di fatto, l’appartenenza culturale e antropologica alla storia delle grandi organizzazioni di massa del movimento comunista, resta. E getta sulla sua figura una luce forse, in qualche misura, tragica, se è vero che la decisione di stare nel Pds ne alimentò un non risolto travaglio.
C’è un secondo passaggio nell’orazione di Reichlin che merita un breve commento. A proposito della mondializzazione neoliberista egli ricorda come la sinistra italiana ne sia stata «travolta». Si trattò di una cesura epocale, che forse per questo Reichlin definisce «materia ormai degli storici». In effetti, così sulla profondità del mutamento, come su quel travolgimento non sussistono dubbi. Epperò ciò non può voler dire che il giudizio su quei processi e appunto su quel venirne travolti — quale che sia la lettura che si ritenga di darne — non sia anche squisitamente politico. Quindi urgente, qui e ora, per le responsabilità che coinvolge, rivela e pone in evidenza.
Ad ogni buon conto proprio su quel passaggio storico Ingrao insistette con forza a più riprese, invocando una revisione profonda dei quadri analitici ma al tempo stesso ribadendo l’esigenza di rilanciare la lotta per l’alternativa. La consapevolezza della portata della svolta conservatrice e della necessità di riaprire una ricerca lo indusse a respingere la proposta di restare alla presidenza della Camera alla fine degli anni Settanta, mentre già si avviava lo sfondamento neoliberista. E mai egli ebbe tentennamenti — questo oggi va ricordato, senza rifugiarsi in formule elusive o ecumeniche — nel valutare dove stessero le ragioni della modernità e del progresso, dove quelle della reazione e della violenza.
Questo è un nodo al quale a nessuno è concesso di sfuggire. Che va discusso senza reticenze.
La vicenda dei gruppi dirigenti post-comunisti dagli anni Ottanta a oggi non si comprende senza riconoscere limpidamente che il giudizio da essi formulato sulla mondializzazione neoliberista fu clamorosamente sbagliato. E che esso non ha soltanto portato alla mutazione genetica delle maggiori organizzazioni politiche nate dallo smantellamento del Pci — al loro sradicamento dal terreno delle lotte del lavoro — ma ha anche, per ciò stesso, contribuito a stabilizzare l’egemonia della destra e a segnare, nella storia del paese, gravi regressi sul terreno delle conquiste sociali e delle garanzie democratiche.
E del resto lo stesso Reichlin pare riconoscerlo là dove pensosamente ammette che chi ha diretto le forze maggiori della sinistra italiana non ha saputo custodire la storia del movimento operaio e di quella sinistra comunista di cui Ingrao è stato una delle guide più autorevoli e amate.


Il mio amico Ingrao altro che sognatore
Marcello Sorgi Stampa 6 ottobre 2015
Emanuele Macaluso, 91 anni, una vita al vertice del Pci, lo dice con un pizzico di malinconia siciliana: «Dopo la morte di Ingrao, sono rimasto il solo della segreteria di Togliatti in cui c’erano Longo, Pajetta, Amendola, Natta, Alicata, appunto Ingrao, e Berlinguer e io che eravamo i più giovani...».

Il grande vecchio, la memoria storica...
«Beh, a proposito di memoria, ce ne sarebbero di cose da rimettere a posto. A partire proprio dal modo in cui Ingrao è stato ricordato al funerale: in cui, confesso, mi sono commosso a sentire parlare le sue figlie e nipoti».
Cosa non le è piaciuto?
«Lo hanno descritto come un sognatore, un poeta, un acchiappanuvole, un innamorato della luna, un eretico, un dissidente, e come una sorta di alieno nel suo partito. Il contrario della verità: perché Pietro è stato prima di tutto un costruttore e un dirigente del Pci, dal 1940 al ’91, per mezzo secolo».
Ma non potrà negare che fosse il capo della sinistra interna, e abbia difeso fino all’ultimo posizioni di minoranza.
«E allora? Ciascuno aveva le sue idee, anche Amendola, e tutti contribuivano ad animare il dibattito interno di un grande partito. Ma non per questo Ingrao può essere dipinto come il capo della sinistra interna. Se fosse stato solo il leader di una parte, non avrebbe potuto avere il ruolo che ha avuto nella lunga vicenda del Pci».
Senatore Macaluso, vuol riscrivere la storia di Ingrao?
«Niente affatto. Basta solo rileggere le tappe della sua carriera. Dal 1948 al ’58, per dieci anni, è stato direttore dell’Unità. Il giornale che Togliatti immaginava come il Corriere della Sera dei lavoratori, aperto alla discussione e al contributo degli intellettuali, lo costruì lui».
Ma nel ’56 non approvò in prima pagina l’invasione sovietica dell’Ungheria?
«È vero, fu un errore, un atto di sottomissione alla linea ufficiale del partito, coerente con la posizione che aveva sostenuto in direzione».
E nel ’66, all’XI congresso del Pci, quando ruppe con la regola del centralismo democratico, non venne emarginato?
«Non andò così. Intanto, dopo l’Unità, Ingrao era stato chiamato in segreteria da Togliatti. E nel ’64, al Comitato centrale che discusse e si divise sulla nascita del centrosinistra, sempre su richiesta di Togliatti, aveva svolto la relazione introduttiva».
Non era stato un esempio del metodo stalinista che esigeva di piegare a una sola linea anche le frange più estremiste del partito?
«Piuttosto era un riconoscimento del ruolo centrale che aveva. Magari, perché no?, Ingrao avrà dovuto limare i suoi convincimenti per sostenere quel ruolo: ciò non toglie che Togliatti avesse scelto lui. E quanto alla questione della democrazia interna, a porla, prima di Ingrao, era stato Amendola».
Amendola?
«Subito dopo il XXII congresso del Pcus, in cui Krusciov presentò il rapporto sullo stalinismo, Amendola accusò Togliatti di reticenza sugli orrori rivelati dal leader sovietico e chiese che al successivo congresso del Pci si potesse discutere apertamente da posizioni diverse e concludere eventualmente con una maggioranza e una minoranza».
Fatto inedito, per un partito fondato sulla regola autoritaria del centralismo democratico. Togliatti cosa rispose?
«Convocò la direzione e ci informò della discussione con Amendola. Poi aggiunse: “Al prossimo congresso, dunque, andremo con mozioni diverse. Io naturalmente presenterò la mia”».
E come andò a finire?
«Togliatti presentò la sua mozione, e nessuno, neppure Amendola, ne presentò un’altra in contrapposizione. Finì all’unanimità, come sempre. Ecco perché lo stesso Amendola, all’XI congresso, quando Ingrao ripropose la questione del centralismo, fu particolarmente duro con lui».
Amendola aveva cambiato idea sulla democrazia interna?
«In pratica si era rimangiato tutto. Dopo la morte di Togliatti, Amendola aveva un peso maggiore nel Pci. Ma la sua idea di fondere in un solo partito socialisti e comunisti, partendo dal riconoscimento del fallimento contemporaneo del centrosinistra e del modello comunista sovietico, era stata bollata come un’eresia. Ingrao, in totale disaccordo, chiedeva che fosse condannata, oppure che fosse riconosciuta legittimità a posizioni diverse».
E fu emarginato per questo?
«Non fu affatto messo da parte. Amendola, è vero, chiedeva che fosse fatto fuori da tutti gli organismi dirigenti, ma io e Berlinguer ottenemmo da Longo che restasse nell’ufficio politico. A essere emarginati, a quel punto, sempre su richiesta di Amendola, fummo noi: uscimmo dalla segreteria, Berlinguer spedito a fare il segretario del Lazio e io il responsabile della stampa e propaganda».
Poi arriva il ’69 e a Ingrao tocca di cacciare dal Pci il gruppo delManifesto. Magri, Pintor, Rossanda e Castellina erano tutti amici suoi.
«Anche stavolta non fu solo un gesto di obbedienza. Ingrao motivò le sue critiche nella sostanza, criticando come estremiste e pseudo-rivoluzionarie le posizioni assunte dal gruppo del Manifesto: facevano assomigliare i consigli di fabbrica ai soviet dell’Unione Sovietica e contraddicevano la linea democratica della via italiana al socialismo. Voi volete conquistare il potere con metodi che non sono i nostri, obiettava Ingrao».
In termini personali, la svolta dovette costargli.
«Per tutti fu un errore, non solo per Ingrao. Che comunque, nel ’71, andò a fare il capogruppo dei deputati, e con Andreotti, capogruppo Dc, e Pertini, presidente della Camera, concordò il nuovo regolamento parlamentare. Un compromesso di cui si disse che introduceva il consociativismo come regola. Poi arrivano i governi di unità nazionale e Ingrao diventa presidente della Camera dal ’76 al ’79. Il primo del Pci. Questo per dire che non era solo il capo della sinistra comunista».
Nel ’79, però, dopo la fine della solidarietà nazionale, Ingrao lasciò bruscamente la presidenza della Camera. Perché?
«Avvertiva il richiamo della scelta di Berlinguer verso l’alternativa. Una svolta avversata da Bufalini, da Napolitano e da me stesso, e che invece Ingrao sentiva di dover sostenere. Infatti tornò in segreteria, dove poi rimase anche con Occhetto, dopo la morte di Berlinguer».
Occhetto, nato ingraiano, ritrovava così il suo maestro.
«C’è un dettaglio rivelatore raccontato nelle sue memorie da Lucio Magri, che insieme con un altro gruppo di politici e intellettuali di area, dentro e fuori il Pci, aveva preparato un documento per spingere a sinistra il partito. Ingrao si rifiutò di firmarlo e approvò la linea del segretario».
Siamo nell’89, al congresso dell’Amazzonia, dalle immagini della foresta che aprirono i lavori. Poi però, pochi mesi dopo, quando Occhetto cambiò il nome al partito, Ingrao si ribellò.
«Era in Spagna. E non accettò che il segretario non lo avesse avvertito prima della svolta della Bolognina. Ma, a quel punto, la storia del Pci era finita. Ingrao a poco a poco cominciò ad allontanarsi».
Lo perse di vista anche lei?
«No, ricordo che nel ’95 andai a una manifestazione in Campidoglio, a Roma, in cui il filosofo Remo Bodei celebrava gli ottant’anni di Ingrao. C’era poca gente, assenti i dirigenti del Pds, e quasi nessuno di quelli che l’altro giorno lo hanno celebrato nei funerali di Stato. Mi fu molto grato e mi scrisse una bella lettera, che conservo. Anche per questo ho voluto ricordare cosa ha fatto e ciò che ha rappresentato Ingrao per il Pci. Possibile che la damnatio memoriae, in questo paese, sia arrivata al punto da non poter più dire che Ingrao è stato innanzitutto un grande comunista italiano?».



Emanuele Macaluso, 91 anni, una vita al vertice del Pci, lo dice con un pizzico di malinconia siciliana: «Dopo la morte di Ingrao, sono rimasto il solo della segreteria di Togliatti in cui c’erano Longo, Pajetta, Amendola, Natta, Alicata, appunto Ingrao, e Berlinguer e io che eravamo i più giovani...».

Il grande vecchio, la memoria storica...
«Beh, a proposito di memoria, ce ne sarebbero di cose da rimettere a posto. A partire proprio dal modo in cui Ingrao è stato ricordato al funerale: in cui, confesso, mi sono commosso a sentire parlare le sue figlie e nipoti».
Cosa non le è piaciuto?
«Lo hanno descritto come un sognatore, un poeta, un acchiappanuvole, un innamorato della luna, un eretico, un dissidente, e come una sorta di alieno nel suo partito. Il contrario della verità: perché Pietro è stato prima di tutto un costruttore e un dirigente del Pci, dal 1940 al ’91, per mezzo secolo».
Ma non potrà negare che fosse il capo della sinistra interna, e abbia difeso fino all’ultimo posizioni di minoranza.
«E allora? Ciascuno aveva le sue idee, anche Amendola, e tutti contribuivano ad animare il dibattito interno di un grande partito. Ma non per questo Ingrao può essere dipinto come il capo della sinistra interna. Se fosse stato solo il leader di una parte, non avrebbe potuto avere il ruolo che ha avuto nella lunga vicenda del Pci».
Senatore Macaluso, vuol riscrivere la storia di Ingrao?
«Niente affatto. Basta solo rileggere le tappe della sua carriera. Dal 1948 al ’58, per dieci anni, è stato direttore dell’Unità. Il giornale che Togliatti immaginava come il Corriere della Sera dei lavoratori, aperto alla discussione e al contributo degli intellettuali, lo costruì lui».
Ma nel ’56 non approvò in prima pagina l’invasione sovietica dell’Ungheria?
«È vero, fu un errore, un atto di sottomissione alla linea ufficiale del partito, coerente con la posizione che aveva sostenuto in direzione».
E nel ’66, all’XI congresso del Pci, quando ruppe con la regola del centralismo democratico, non venne emarginato?
«Non andò così. Intanto, dopo l’Unità, Ingrao era stato chiamato in segreteria da Togliatti. E nel ’64, al Comitato centrale che discusse e si divise sulla nascita del centrosinistra, sempre su richiesta di Togliatti, aveva svolto la relazione introduttiva».
Non era stato un esempio del metodo stalinista che esigeva di piegare a una sola linea anche le frange più estremiste del partito?
«Piuttosto era un riconoscimento del ruolo centrale che aveva. Magari, perché no?, Ingrao avrà dovuto limare i suoi convincimenti per sostenere quel ruolo: ciò non toglie che Togliatti avesse scelto lui. E quanto alla questione della democrazia interna, a porla, prima di Ingrao, era stato Amendola».
Amendola?
«Subito dopo il XXII congresso del Pcus, in cui Krusciov presentò il rapporto sullo stalinismo, Amendola accusò Togliatti di reticenza sugli orrori rivelati dal leader sovietico e chiese che al successivo congresso del Pci si potesse discutere apertamente da posizioni diverse e concludere eventualmente con una maggioranza e una minoranza».
Fatto inedito, per un partito fondato sulla regola autoritaria del centralismo democratico. Togliatti cosa rispose?
«Convocò la direzione e ci informò della discussione con Amendola. Poi aggiunse: “Al prossimo congresso, dunque, andremo con mozioni diverse. Io naturalmente presenterò la mia”».
E come andò a finire?
«Togliatti presentò la sua mozione, e nessuno, neppure Amendola, ne presentò un’altra in contrapposizione. Finì all’unanimità, come sempre. Ecco perché lo stesso Amendola, all’XI congresso, quando Ingrao ripropose la questione del centralismo, fu particolarmente duro con lui».
Amendola aveva cambiato idea sulla democrazia interna?
«In pratica si era rimangiato tutto. Dopo la morte di Togliatti, Amendola aveva un peso maggiore nel Pci. Ma la sua idea di fondere in un solo partito socialisti e comunisti, partendo dal riconoscimento del fallimento contemporaneo del centrosinistra e del modello comunista sovietico, era stata bollata come un’eresia. Ingrao, in totale disaccordo, chiedeva che fosse condannata, oppure che fosse riconosciuta legittimità a posizioni diverse».
E fu emarginato per questo?
«Non fu affatto messo da parte. Amendola, è vero, chiedeva che fosse fatto fuori da tutti gli organismi dirigenti, ma io e Berlinguer ottenemmo da Longo che restasse nell’ufficio politico. A essere emarginati, a quel punto, sempre su richiesta di Amendola, fummo noi: uscimmo dalla segreteria, Berlinguer spedito a fare il segretario del Lazio e io il responsabile della stampa e propaganda».
Poi arriva il ’69 e a Ingrao tocca di cacciare dal Pci il gruppo delManifesto. Magri, Pintor, Rossanda e Castellina erano tutti amici suoi.
«Anche stavolta non fu solo un gesto di obbedienza. Ingrao motivò le sue critiche nella sostanza, criticando come estremiste e pseudo-rivoluzionarie le posizioni assunte dal gruppo del Manifesto: facevano assomigliare i consigli di fabbrica ai soviet dell’Unione Sovietica e contraddicevano la linea democratica della via italiana al socialismo. Voi volete conquistare il potere con metodi che non sono i nostri, obiettava Ingrao».
In termini personali, la svolta dovette costargli.
«Per tutti fu un errore, non solo per Ingrao. Che comunque, nel ’71, andò a fare il capogruppo dei deputati, e con Andreotti, capogruppo Dc, e Pertini, presidente della Camera, concordò il nuovo regolamento parlamentare. Un compromesso di cui si disse che introduceva il consociativismo come regola. Poi arrivano i governi di unità nazionale e Ingrao diventa presidente della Camera dal ’76 al ’79. Il primo del Pci. Questo per dire che non era solo il capo della sinistra comunista».
Nel ’79, però, dopo la fine della solidarietà nazionale, Ingrao lasciò bruscamente la presidenza della Camera. Perché?
«Avvertiva il richiamo della scelta di Berlinguer verso l’alternativa. Una svolta avversata da Bufalini, da Napolitano e da me stesso, e che invece Ingrao sentiva di dover sostenere. Infatti tornò in segreteria, dove poi rimase anche con Occhetto, dopo la morte di Berlinguer».
Occhetto, nato ingraiano, ritrovava così il suo maestro.
«C’è un dettaglio rivelatore raccontato nelle sue memorie da Lucio Magri, che insieme con un altro gruppo di politici e intellettuali di area, dentro e fuori il Pci, aveva preparato un documento per spingere a sinistra il partito. Ingrao si rifiutò di firmarlo e approvò la linea del segretario».
Siamo nell’89, al congresso dell’Amazzonia, dalle immagini della foresta che aprirono i lavori. Poi però, pochi mesi dopo, quando Occhetto cambiò il nome al partito, Ingrao si ribellò.
«Era in Spagna. E non accettò che il segretario non lo avesse avvertito prima della svolta della Bolognina. Ma, a quel punto, la storia del Pci era finita. Ingrao a poco a poco cominciò ad allontanarsi».
Lo perse di vista anche lei?
«No, ricordo che nel ’95 andai a una manifestazione in Campidoglio, a Roma, in cui il filosofo Remo Bodei celebrava gli ottant’anni di Ingrao. C’era poca gente, assenti i dirigenti del Pds, e quasi nessuno di quelli che l’altro giorno lo hanno celebrato nei funerali di Stato. Mi fu molto grato e mi scrisse una bella lettera, che conservo. Anche per questo ho voluto ricordare cosa ha fatto e ciò che ha rappresentato Ingrao per il Pci. Possibile che la damnatio memoriae, in questo paese, sia arrivata al punto da non poter più dire che Ingrao è stato innanzitutto un grande comunista italiano?».





Emanuele Macaluso, 91 anni, una vita al vertice del Pci, lo dice con un pizzico di malinconia siciliana: «Dopo la morte di Ingrao, sono rimasto il solo della segreteria di Togliatti in cui c’erano Longo, Pajetta, Amendola, Natta, Alicata, appunto Ingrao, e Berlinguer e io che eravamo i più giovani...».

Il grande vecchio, la memoria storica...
«Beh, a proposito di memoria, ce ne sarebbero di cose da rimettere a posto. A partire proprio dal modo in cui Ingrao è stato ricordato al funerale: in cui, confesso, mi sono commosso a sentire parlare le sue figlie e nipoti».
Cosa non le è piaciuto?
«Lo hanno descritto come un sognatore, un poeta, un acchiappanuvole, un innamorato della luna, un eretico, un dissidente, e come una sorta di alieno nel suo partito. Il contrario della verità: perché Pietro è stato prima di tutto un costruttore e un dirigente del Pci, dal 1940 al ’91, per mezzo secolo».
Ma non potrà negare che fosse il capo della sinistra interna, e abbia difeso fino all’ultimo posizioni di minoranza.
«E allora? Ciascuno aveva le sue idee, anche Amendola, e tutti contribuivano ad animare il dibattito interno di un grande partito. Ma non per questo Ingrao può essere dipinto come il capo della sinistra interna. Se fosse stato solo il leader di una parte, non avrebbe potuto avere il ruolo che ha avuto nella lunga vicenda del Pci».
Senatore Macaluso, vuol riscrivere la storia di Ingrao?
«Niente affatto. Basta solo rileggere le tappe della sua carriera. Dal 1948 al ’58, per dieci anni, è stato direttore dell’Unità. Il giornale che Togliatti immaginava come il Corriere della Sera dei lavoratori, aperto alla discussione e al contributo degli intellettuali, lo costruì lui».
Ma nel ’56 non approvò in prima pagina l’invasione sovietica dell’Ungheria?
«È vero, fu un errore, un atto di sottomissione alla linea ufficiale del partito, coerente con la posizione che aveva sostenuto in direzione».
E nel ’66, all’XI congresso del Pci, quando ruppe con la regola del centralismo democratico, non venne emarginato?
«Non andò così. Intanto, dopo l’Unità, Ingrao era stato chiamato in segreteria da Togliatti. E nel ’64, al Comitato centrale che discusse e si divise sulla nascita del centrosinistra, sempre su richiesta di Togliatti, aveva svolto la relazione introduttiva».
Non era stato un esempio del metodo stalinista che esigeva di piegare a una sola




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