giovedì 24 settembre 2015
La crisi dell'antropologia culturale
Risvolto
L'inattualità
di cui questo libro intende fare l'elogio rimanda a quella distanza
necessaria che, come sosteneva Nietzsche nelle sue Considerazioni inattuali,
serve a non rimanere intrappolati nel proprio presente. È in questo
scarto, in questa profonda inadeguatezza, che l'antropologia culturale
trova il suo territorio elettivo. Lungi dall'essere quegli «esperti
dell'immediatezza» che il paradigma contemporaneista vorrebbe imporre,
gli antropologi possono offrire i loro contributi più preziosi solo
grazie a uno sguardo che si attarda su quegli «altrove» in cui
l'antropologia si è da sempre aggirata. Non si tratta di un esotismo
inconcludente. L'autore è persino disposto ad accettare l'appellativo di
«anima bella», purché ci si renda conto che non si tratta di una fuga,
ma dell'esigenza di frequentare quegli altrove per meglio mettere a
fuoco le peculiarità del nostro tempo. Continuando pervicacemente a
esplorare l'inattualità, gli antropologi saranno in grado di garantire
la sopravvivenza culturale delle forme di umanità che la storia ha
distrutto e nel contempo di garantire la dignità, l'autonomia, la
significatività del proprio sapere.
Il fallimento di un sapere appiattito su un triste presente
Mauro Trotta manifesto 22.8.2015, 0:02
Se si pensa all’influenza che nel recente passato una disciplina come l’antropologia culturale ha avuto nei confronti di tutti i campi del sapere, può sembrare quanto meno improbabile che oggi tale materia sia alla ricerca di un proprio spazio, si interroghi radicalmente sulle proprie finalità e sui propri obiettivi, arrivi a rimettere in discussione i propri presupposti. Eppure è proprio questo che emerge leggendo l’ultimo lavoro di Francesco Remotti, intitolato Per un’antropologia inattuale e pubblicato da elèuthera (pp. 136, euro 13).
L’autore è stato professore di Antropologia culturale all’Università di Torino e raccoglie in questo agile libretto alcuni articoli, già pubblicati in precedenza, che hanno il merito di comunicare con limpidezza anche al lettore non specialista lo stato attuale della materia e, soprattutto, di indicare con chiarezza e precisione alcune soluzioni volte a modificare la situazione restituendo alla disciplina autonomia, dignità, importanza all’interno del mondo del sapere. Del resto – come si può evincere già dal titolo, secco e nettamente schierato a favore di una determinata ipotesi – il libro di Remotti sembra avere tutte le caratteristiche di un vero e proprio pamphlet: espone senza infingimenti i problemi, propone con forza le soluzioni, non si nasconde dietro alcuna patina «accademica», andando subito al cuore delle questioni. Insomma, è una battaglia culturale quella che l’autore vuole portare avanti, volta a un rinnovamento profondo dello stato delle cose.
Inoltrandosi nella lettura appare ben presto chiaro che siamo lontani dai tempi in cui Levi-Strauss, con i suoi Tristi tropici, dava il via allo strutturalismo. Anzi, proprio il fallimento, in campo antropologico, dell’ipotesi strutturalista ha portato probabilmente alla situazione attuale. Una situazione in cui, in pratica, gli antropologi hanno rinunciato a costruire grandi teorie, limitandosi a esporre i risultati delle proprie ricerche sul campo. Questo, secondo Remotti, ha portato a una sorta di polverizzazione dell’antropologia, che si presena da un lato sempre più frammentata, senza collanti teorici che tengano insieme i dati e i risultati dei vari lavori etnografici, dall’altro, conseguentemente, con sempre minor peso sia a livello accademico – rendendola in qualche modo «campo di conquista» da parte di altre discipline contigue – sia dal punto di vista del sapere in generale, dove appare quasi «ancella» rispetto ad altri settori.
Le soluzioni proposte da Remotti per ribaltare la situazione vertono, innanzi tutto, su di un presupposto estrapolato dalle Considerazioni inattuali di Nietzsche. Occorre, appunto, mettere in campo una vera e propria antropologia inattuale. Citando il filosofo tedesco, Francesco Remotti definisce tale aggettivo come «l’atteggiamento di colui che si muove in modo inattuale – ossia contro il tempo, e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un tempo venturo». In sostanza, si tratta «di frequentare epoche e culture per meglio mettere a fuoco le peculiarità del nostro tempo». Perché, quanto più gli antropologi saranno in grado di accumulare «un sapere inattuale, tanto più esso potrà sviluppare una critica radicale e autenticamente antropologica della contemporaneità». Da questo discende naturalmente da una parte il rifiuto per una ricerca antropologica totalmente appiattita sul presente, sull’immediatezza, e il conseguente recupero e riutilizzo costruttivo di studi, dati, informazioni sulle varie civiltà studiate anche nel passato. Dall’altra il coraggio di costruire teorie specificatamente antropologiche a partire proprio dal sapere accumulato, senza assolutamente tralasciare il lavoro sul campo.
Tali teorie dovrebbero strutturarsi come reti di connessione, che abbiano «la forza non di dominare l’intera gamma delle diversità culturali, ma di inoltrarsi in varie direzioni e persino di spingersi in territori presidiati normalmente da altre scienze». Soltanto così, infatti, «perseguendo e attraversando l’inattualità culturale» gli antropologi saranno in grado «di dimostrare la particolare e insostituibile attualità politica» del loro sapere.
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