Angelo Mellone: Nessuna croce manca, Baldini & Castoldi
Il liceo, lo stadio, le idee di destra E il destino di nascere a Taranto
Formazione e politica nel romanzo di Angelo Mellone (Baldini&Castoldi) Stagioni Sullo sfondo la storia del Paese, dalle monetine contro Craxi al congresso di Fiuggi
Il titolo ungarettiano del primo romanzo di Mellone, Nessuna croce manca (in uscita da Baldini&Castoldi), evoca una serie di sconfitte. L’autore rivendica la propria storia di destra, la militanza nel Movimento sociale, l’apparente grande vittoria sul fronte avverso legata al crollo del Muro di Berlino, le monetine contro Craxi all’uscita del Raphael, l’ascesa della leadership di Fini con la candidatura al Campidoglio del 1993, lo scontro al congresso di Fiuggi in cui la storia della destra italiana si biforca lungo due sentieri — l’approdo al governo e l’utopia della rifondazione missina — che si riveleranno entrambi due binari morti della storia.
La vicenda di formazione dei ragazzi di Taranto incrocia la storia del Paese, negli anni del cambio di stagione, della fine dell’antico regime e dell’egemonia democristiana. La scena si sposta a Roma, il mondo confuso e immaginifico del postfascismo italiano è alle soglie del governo, Fini in un’intervista a Canale 5 dichiara che «per me il fascismo è finito il giorno in cui è morto Mussolini, la destra è un’altra cosa». I ragazzi discutono, Dindo difende il capo: «Mica sta rinnegando qualcosa. Mica ha detto che Mussolini era un boia, viva i partigiani e vattelapesca. Sta semplicemente storicizzando una posizione e chiedendo alle persone di non guardare al passato ma alle sue proposte per Roma...». Insomma, non si può fare sempre «la figura da peracottari che abbiamo fatto l’anno scorso a ottobre, quando alla manifestazione a sostegno di Mani Pulite qualche testa di c. s’è messo a fare i saluti romani. Invece io penso che potremmo fare e dire quello che facciamo e diciamo anche se il fascismo non fosse mai esistito. Questo non significa che nel fascismo non ci siano i futuristi, Berto Ricci, i Guf, Gentile, Spirito, titani che noi in confronto siamo caccole. Ma quella è cultura. Oggi la supersfida è conquistare i Comuni...».
Le celtiche e il gatto della Meloni Il triste crepuscolo dei camerati Da “esuli in patria” alla svendita degli ideali. Nel romanzo di Angelo Mellone, “Nessuna croce manca”, il come eravamo di una generazioneFILIPPO CECCARELLI Repubblica 12 11 2015
Nel pressoché totale disinteresse si sono concluse qualche settimana fa le celebrazioni per il centenario della nascita di Giorgio Almirante.
Se non fosse per un certo residuo “tesoretto” che fa gola a troppi, dell’esperienza di Alleanza nazionale (1994-2008) sembra essersi persa quasi la memoria. Se quest’ultima non inganna, tempo fa Gianfranco Fini ha fatto uno strano video in cui figurava come un allenatore di alcuni calciatori. Ma il rientro non c’è stato. I suoi ex «colonnelli» vivacchiano, o peggio. La Russa ha corteggiato Del Debbio al Twiga; Matteoli ha impicci giudiziari; Alemanno anche peggio; Gasparri litiga su twitter; e il futuro di Giorgia Meloni, che nel congresso di scioglimento di An si era proposta, con Marinetti, di «scagliare la sua sfida alle stelle», beh, è ora nelle mani di Salvini e nel frattempo ha indetto su Facebook una specie di referendum su come battezzare il nuovo gatto di casa.
Chi le ha risposto di chiamarlo “Benny” (da Benito) e chi “Almy” (da Almirante); altri hanno proposto “Marò”, altri “Romeo”, come ne “Gli Aristogatti”. Ma forse è anche in queste vezzose degradazioni che si misura la scomparsa di una cultura politica; un esito di cui, dal barone Evola fino a Walt Disney, nemmeno più ci si accorge.
Come abbiano intimamente vissuto questa fine, questo vuoto a perdere, tante persone in buona fede — fascisti, post- fascisti, missini, post-missini, militanti e dirigenti di An conglobati nel tardo-berlusconismo o da esso ricacciati non più nelle fogne o nelle catacombe, ma nelle terre dell’irrisorio — è una questione di cui né la cronaca né la storiografia possono o comunque riescono a farsi carico.
Il romanzo sì. E perciò chi voglia capire appieno l’avventura esistenziale e poi l’esito sconsolato di questa destra nell’ultimo quarto di secolo ha da leggere Nessuna croce manca di Angelo Mellone (Baldini&Castoldi, pagg. 320, euro 16).
Tocca infatti al romanzo, con quel tanto di memorialistico che i testimoni sensibili recano generalmente in dote, ripristinare il valore dell’umanità che sempre accompagna — e ancor più al giorno d’oggi — la politica e i suoi disastri. Quindi i sentimenti, le abitudini, il costume, le speranze e la rabbia dei figli degli sconfitti, precoci «esuli in patria»; ma poi anche il loro conveniente adattamento, i compromessi per la sopravvivenza, la svendita degli ideali per la carriera, la vita facile. E i fantasmi che ritornano a tirargli i piedi di notte.
Personaggi veri, inventati, ibridati. Citazioni autentiche e chiacchiere a ruota libera, le scorribande violente a difesa del Taranto calcio e l’impossibile viaggio a Berlino mentre crolla il muro; dai campeggi del Fronte della Gioventù alle aule universitarie, fino ai corridoi di Saxa Rubra e a piazza del Quirinale la notte della caduta di Berlusconi, quest’ultima raccontata alla rovescia, dall’altra parte. Al centro del libro, snodo storico e narrativo di ogni possibile ambiguità, ci sono i giorni di Fiuggi; quando fra video e gadget, famelici ex democristiani in cerca di riallocamento e manager pieni di quattrini, Fini chiude definitivamente la casa del padre, spegne la fiamma del vecchio Msi — e non sarà lieta donna Assunta Almirante di sapere che proprio in quell’occasione uno dei protagonisti, in un empito di folle estremismo, le sputa addosso. Giornalista, professore di sociologia, poeta, capostruttura Rai e personaggio televisivo in proprio, Mellone fa rivivere il «come eravamo» della destra-destra. I colori, gli odori, le tigne, il griffatissimo abbigliamento anni Ottanta, il triste arredamento al neon delle federazioni, il paternalismo a doppio taglio dei questurini, il disprezzo dei «compagni », l’orgoglio cupo dell’auto-esclusione, i labari polverosi e i tatuaggi tribali, la croce celtica e la marjiuana.
Ma poi di colpo, dopo aver cantato troppe volte l’inno rautiano «Il domani appartiene a noi», ecco che davvero questo domani reca con sé lo «sdoganamento », rovescia l’«impresentabilità», assicura poltrone, consulenze, salottini tv, insomma la pacchia. Quando invece, per i ragazzi neri di un tempo, era lo smarrimento definitivo, l’ombra del Grande Nulla che senza chiedere permesso ha oscurato Dio, Patria, Famiglia, Gerarchia, Onore e Tradizione; e chi s’è visto, appunto, s’è visto — e il domani, semmai, appartiene a tutti e a nessuno.
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