Siamo nel bel mezzo del Medioevo, in quel secolo X quando, sfaldatosi in Occidente l'impero fondato da Carlo Magno, ha inizio un regno d'Italia conteso senza esclusione di colpi dai potenti delle regioni settentrionali con l'appoggio, o l'ostilità, dei sovrani tedeschi e del papa. Liutprando, rampollo di una famiglia di rilievo, nasce a Pavia - capitale del regno verso il 920, vi viene educato, entra sin da bambino a corte cantando nel coro, diviene diacono, viene inviato da Berengario in ambasceria a Costantinopoli. Un contrasto violento con il sovrano lo costringe a riparare presso Ottone I, re di Germania e futuro imperatore, del quale sarà spesso emissario importante. Alla corte di questi, nel 956, l'inviato del califfo di Cordova, Recemundo vescovo di Elvira, esorta Liutprando a comporre un'opera di carattere storiografico. Nasce, allora, l'Antapodosis in sei libri: i primi tre narrano vicende delle quali l'autore ha appreso da altri, gli ultimi di eventi dei quali è stato testimone diretto. È la storia intricata dei "fatti degli imperatori e dei re" di mezza Europa, di forti condottieri e di principi "smidollati" ed "effeminati", e s'intitola Antapodosis perché l'autore l'intende come una "ritorsione", una sorta di vendetta, contro Berengario e la moglie Guilla per quel che essi hanno fatto a lui. Introduzione di Girolamo Arnaldi.
Uccidere con il ridicolo Le sapide «ritorsioni» del vescovo Liutprando 13 gen 2016 Libero MARIO BERNARDI GUARDI
Una sorte davvero amara quella di papa Formoso (891-896). Nell’elezione imperiale, si era fatto paladino di Arnolfo di Carinzia contro Adalberto di Spoleto, attirandosi odi e rancori in gran quantità. Anche dopo morto. Tanto è vero che papa Sergio III, «empio e ignorante delle sante dottrine», ma sostenuto da Adalberto, fece esumare il corpo del «religiosissimo» predecessore, lo fece sistemare sul trono papale e lo apostrofò violentemente, trattandolo da ambizioso e maneggione. Non basta: infatti ordinò che gli fossero strappati i paramenti sacri, amputate tre dita e che fosse gettato nel Tevere. Però, ecco che alcuni barcaioli lo ripescarono: e così quel che restava di Formoso fu posto in un’urna e questa portata a San Pietro. Miracolo! Al suo passaggio, certe statue di santi fecero un reverente saluto. Così scrive il lombardo Liutprando (meglio conosciuto come Liutprando di Cremona, la città che lo vedrà vescovo nel 961), nella sua Antapodosis (Fondazione Lorenzo Valla/ Mondadori, pp. 568, euro 30, a cura di Paolo Chiesa, con un’introduzione di Gerolamo Arnaldi).
L’opera, piena di storie meravigliose, sanguinose e grottesche - siamo alle soglie dell’Anno Mille ed è da un bel po’ che si avvertono nell’aria profumi di Apocalisse - porta sulla scena imperatori e papi, principi e re, dame e puttane. Frastagliatissimo il paesaggio, tra un Occidente in rapida decadenza dopo lo sfaldamento dell’impero fondato da Carlo Magno e un Oriente dove aurei splendori si coniugano a cupe nefandezze.
L’Antapodosis, scritta in latino, è composta da sei libri: i primi tre narrano vicende di cui l’autore ha avuto notizia da altri; gli ultimi tre, eventi di cui è stato diretto protagonista. Il titolo, greco, significa “pariglia” e cioè “contrapposizione”, “ritorsione”: lo scopo infatti è rendere pan per focaccia all’imperatore Berengario, che Liutprando aveva servito come ambasciatore, prima che tra i due esplodesse un violento contrasto. A seguito del quale, Liutprando era stato costretto a riparare presso Ottone, re di Germania e futuro imperatore.
Va detto che il Nostro ci tiene a far sfoggio di cultura, inanellando citazioni da una miriade di scrittori latini e greci. Ma i suoi aneddoti li sa cucinare in un salsa davvero saporita, facendo diventar comico il truculento. Aggiungiamo che, se ha comprensibili motivi di risentimento nei confronti di Berengario e della sua regal consorte Guilla, donna di non eccelse virtù (Liutprando racconta di quando occultò un balteo d’oro «nelle latebre del corpo»), non risparmia nessuno, né principi né marchesi, né re né vescovi. E si sa che il ridicolo uccide: pensiamo al povero conte palatino Giselberto che si presenta senza mutande davanti al vincitore Berengario I, tra le risate dei presenti.
E per tornare a papa Sergio, Liutprando ci ricorda che da una relazione con Marozia, figlia di Teodora - patrizia romana nonché «puttana senza vergogna» - divenne papà di un pargolo: Giovanni. Anche lui futuro papa, a seguito di mene e tresche propiziate dalla già citata Teodora che, «infuocata dal calore di Venere», se l’era portato a letto spesso e volentieri.
I primi furono scrittori di corte, dediti ad annotare le gesta dei regnanti, per esempio Callistene al seguito di Alessandro Magno, nel V secolo a.C. le guerre persiane di Erodoto, detto da Cicerone «il padre della storia». Giulio Cesare non si fidava invece di nessuno, e avrebbe fatto meglio a essere ancora più diffidente dei suoi amici, quindi scrisse di sé in terza persona, nel De bello gallico. La storia nacque per esaltare qualcuno, denigrare altri, trarre insegnamenti morali dalla «maestra della vita». Il cristianesimo apparentemente seguì questo indirizzo, infatti nella Città di Dio Agostino di Ippona riempie metà dell’opera dileggiando le superstizioni romane e i concetti filosofici pagani. Però con una fondamentale differenza: per la prima volta si parla di senso della storia, di inizio e fine, si fa teologia (e filosofia) della storia. Da questo punto di vista, il Medioevo si presenta come fervido vivaio di resoconti bellici e “cortesi”, insieme alla riflessione sul senso dello scorrere del tempo. Con Boezio, già tra V e VI secolo, si pone e risolve una questione appassionante, ancora terreno di dibattito nelle teologie della Riforma, il tema del futuro: se prevedibile, previsto, pre-determinato, insomma se necessario oppure no. Proclo, e con lui gli ultimi grandi neoplatonici, aveva già dato una possibile soluzione, Boezio ne confeziona una adeguata alla nuova religione: Dio, nella sua eternità, intesa come un puntuale possesso di tutto il tempo allo stesso tempo – mi scuso per la ripetizione -, Dio dunque “vede” già tutto il futuro, ma non vi interviene come un burattinaio. Il fatto di sapere già quale sarà la mia scelta morale questo pomeriggio (telefonerò all’anziana zia che poi parla per un’ora, ma che brama una telefonata?) non mi costringe a decidere per l’una o l’altra opzione. Sembrerebbe tutto molto chiaro: Lui sa, io no e decido liberamente. I problemi sorgono poi nel definire come e perché quell’assoluta sapienza si possa intersecare allo scorrere del tempo: ma che libertà è se Dio sa già tutto? E allora perché non interviene per evitare le cose malvagie? E perché dovrebbe ascoltare una preghiera? L’enorme abisso del male. Boezio non ha dubbi, infatti Filosofia (nella Consolazione) conclude che «non inutilmente sono riposte in Dio speranze e preghiere, le quali, quando sono rette, non possono essere prive di efficacia». Approfondire porterebbe ad altre storie, qui interessa la storia. Ecco due pubblicazioni che perfettamente rendono la duplice valenza della storia nel Medioevo. La prima è uno studio di Riccardo Fedriga, che prende spunto dalle parole di Boezio per seguire il tema della necessità o contingenza del futuro nelle opere di Sigieri, di Tommaso d’Aquino, soprattutto di Duns Scoto e del dibattito sul fatalismo di Ockham. Temi di obsoleta teologia? Non parrebbe, se nell’ultimo capitolo Fedriga espone con chiarezza i contributi a proposito di libertà e contingenza di logici e filosofi a noi contemporanei. Su tutt’altro versante, la pubblicazione dell’Antapodosis di Liutprando per la cura di Paolo Chiesa. Noto come Liutprando di Cremona, la città di cui fu vescovo, nacque a Pavia intorno al 920, in una agiata famiglia di mercanti. Sono anni intensissimi, il Regno d’Italia sfuggito allo scettro dei Carolingi è sballottato tra pretendenti franchi, germanici, e tra i feudatari dell’Italia stessa. Liutprando ha la fortuna di poter studiare, quindi viene inviato almeno due volte in missioni paradiplomatiche a Costantinopoli. Trova posto a corte, ma a breve ha un forte contrasto con il re Berengario e sua moglie Guilla. Da qui l’esilio e il rifugio alla corte di Ottone I, re di Germania. Qui, nel 958, inizia a scrivere l’Antapodosis, il cui titolo è spiegato nel III libro: come si legge in Isaia tradotto dai Settanta, l’Antapodosis è il vendicatore mandato da Dio, la giusta retribuzione per i malvagi. Liutprando vuole, con la sua penna, compiere giustizia, dato che quella umana non arriva e per quella divina c’è troppo da aspettare. Quindi per Ottone solo parole di devota sottomissione e di lode, per Berengario e Guilla disprezzo che arriva a metterli in ridicolo. La particolarità di queste cronache, infatti, è il doppio registro, si tratta di una delectabilis historia e insieme una storia esemplare, che insegna una morale raccontando fatti veri o verosimili accaduti nella prima metà del X secolo, nelle corti frequentate da Liutprando. Per lo stile, l’autore di riferimento è Terenzio, insieme ai poeti (Virgilio, Orazio, Giovenale), ai retori (Cicerone su tutti), ai Padri della Chiesa, fino alla Consolazione di Boezio, citato addirittura nel prologo. Il risultato è davvero originale, per questo ecclesiastico che non esita a piegare la storia e i personaggi a suo uso, che fa sapere a tutti di conoscere il greco, di essere colto, di avere subito molte, troppe ingiustizie. E allora, abbasso gli italici: «perché sempre gli Italici vogliono avere due padroni per tenere a freno uno con la paura dell’altro». Un’analisi che viene sempre utile. E poi Berengario, definito ironicamente «davvero timorato di Dio», che sceglieva i vescovi con criteri suoi, e quanto accorte fossero queste scelte «lo dichiarano, con gli effetti e coi lamenti, i sudditi rapinati, le viti abbattute, gli alberi scorticati, i tanti occhi cavati, le interminabili contese». E le donne, se non sono intelligenti come quelle di Terenzio, sono però astute, capaci di dominare tutti quei disgraziati uomini, siano re siano popolani. Se infine avessimo dubbi sulla leggerezza della penna di questo autore del Medioevo più oscuro, apriamo il quarto libro della sua Vendetta (o Giustizia divina), all’inizio leggiamo: «Libro quarto. Buona lettura!» (Incipit liber quartus feliciter).
1 commento:
non ho trovato l'articolo che parla degli ungari
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