venerdì 25 settembre 2015
L'assenza dello Stato: lo sterminio degli ebrei secondo Timothy Snyder
Mi sembra un'ipotesi molto interessante. La recensione del Toynbee di via Solferino è invece all'insegna della più banale vulgata della teoria del totalitarismo, come suo solito [SGA].
Timothy Snyder: Terra nera. L'olocausto fra storia e presente, Rizzoli
Risvolto
L'immagine più diffusa della Germania nazista è
quella di uno Stato onnipotente che catalogò, represse e sterminò
un'intera classe di cittadini. Eppure tutti i principali crimini
tedeschi furono commessi in aree dove le istituzioni erano state
distrutte, smantellate o gravemente compromesse: lo sterminio di cinque
milioni e mezzo di ebrei, di oltre tre milioni di prigionieri di guerra
sovietici e di circa un milione di civili nelle cosiddette operazioni
antipartigiane si verificò sempre in zone di vuoto statale. Quando si
scarica la responsabilità dell'Olocausto sullo Stato moderno,
l'indebolimento dell'autorità appare come un bene: un'interpretazione
errata che spiana la strada a crimini futuri. Avvalendosi di fonti mai
consultate in precedenza e testimonianze inedite di sopravvissuti, uno
tra gli storici più brillanti della sua generazione dimostra attraverso
un'analisi originale e meticolosa che le motivazioni reali della
catastrofe comprendono molti elementi ritenuti secondari per lungo
tempo: dallo smantellamento degli Stati al panico ecologico di Hitler,
pericolosamente vicino alla paura che proviamo oggi di fronte alla crisi
ambientale e alla diminuzione progressiva delle risorse vitali. Non
abbiamo alcun motivo di considerarci eticamente superiori agli europei
degli anni Trenta e Quaranta, o meno vulnerabili a idee come quelle che
Hitler riuscì a tradurre in realtà con tanta efficacia.
La solitudine degli ucraini. Vittime di Stalin, traditi dalla Polonia e Hitler li trattò come esseri inferiori
Mentre il regime sovietico sterminava i contadini attraverso la
carestia indotta Varsavia firmava un patto con il Cremlino. Poi arrivò
l’invasione tedesca Le vicende tragiche rievocate da Timothy Snyder in
un saggio edito da Rizzoli
di Paolo Mieli (Pubblicato il 9 settembre 2015 - © «Il Corriere della Sera»)
Anche negli anni Trenta il mondo fu
destabilizzato da quel che accadde in Ucraina. Fu proprio l’Ucraina
(assieme alla Polonia) ad essere protagonista di un sisma che avrebbe
messo in moto la valanga della Seconda guerra mondiale. E a proposito
della Polonia – la cui invasione da parte delle truppe naziste il 1°
settembre 1939 fu l’atto d’inizio del secondo grande conflitto –
colpisce quanto fosse trascurata negli scritti hitleriani degli anni
Venti. Scritti nei quali, pure, era già in
grande evidenza l’ostilità nei confronti del popolo ebraico. Eppure, nei
confronti della Polonia e dell’Ucraina, Adolf Hitler fu
intellettualmente sciatto. Lo nota lo studioso dell’università di Yale
Timothy Snyder in una delle pagine iniziali del libro Terra nera. L’Olocausto tra storia e presente,
che esce domani da Rizzoli. La Polonia verrà menzionata da Hitler, per
di più come «auspicabile alleata», solo dopo il 1933, cioè quando il
capo nazista sarà già andato al potere. Ciò appare ancora più curioso,
scrive Snyder, «alla luce del fatto che la maggior parte degli ebrei
europei viveva proprio lì; i cittadini ebrei polacchi erano dieci volte
più numerosi di quelli tedeschi; in città come Varsavia e Lodz
risiedevano tanti israeliti quanto in tutta la Germania».
La Polonia, dopo la Grande guerra, era
un nuovo Stato che riuniva territori di tre ex imperi: russo, asburgico e
tedesco. Gli ebrei, presenti in gran numero in quasi tutto il Paese,
annoveravano la maggior parte dei medici, degli avvocati, dei
commercianti, e per questo «fungevano da mediatori con i mondi più vasti
della conoscenza, del potere e del denaro». Pagavano più di un terzo
del totale delle tasse e a loro aziende faceva capo oltre la metà del
commercio estero. Perciò il resto dei cittadini interagivano con loro
ogni giorno. Per di più la Polonia era il Paese che separava la Germania
dall’Unione Sovietica. Il Führer commise dunque un errore con la
Polonia «considerandola solo uno strumento nel quadro di una più ampia
iniziativa tedesca; il Paese si comportò invece da agente politico, da
Stato sovrano».
L’errore di sottovalutazione commesso in
partenza con la Polonia, prosegue Snyder, se ne trascinò dietro uno di
pari importanza che riguardò l’Ucraina. Mentre Hitler e i nazisti la
consideravano una zona di colonizzazione, Jozef Pilsudski (tornato al
potere in Polonia nel 1926) essendo lituano e avendo studiato
nell’Ucraina orientale, le attribuiva una dignità statuale. Molti uomini
di Pilsudski erano polacchi provenienti dall’Ucraina e sulle terre
ucraine avevano combattuto la guerra del 1919-20 contro i bolscevichi.
Ciò induceva i gruppi dirigenti polacchi a non guardare all’Ucraina come
a una tabula rasa, una terra senza popolo, ma a considerarla – a
differenza dei nazisti – un «luogo abitato da esseri umani». Di qui il
loro progetto, che prese il nome di «prometeismo», che prevedeva – nel
nome del titano della mitologia greca che diede all’umanità il dono
della luce – l’appoggio alle nazioni oppresse contro gli imperi. E nello
specifico il sostegno agli ucraini contro l’Urss.
Quando Stalin – tra il 1932 e il 1933 –
provocò deliberatamente l’Holodomor, la grande carestia in Ucraina per
piegare i contadini ai rigidi criteri della collettivizzazione, e causò
la morte di tre milioni e 300 mila abitanti, migliaia di piccoli
agricoltori, talvolta interi villaggi, fuggirono dall’Ucraina sovietica
alla volta della Polonia, chiedendo ad essa che si mettesse alla guida
di una guerra di liberazione dai comunisti. Nel «frettoloso rapporto»
steso dalle guardie di confine polacche, incaricate di interrogare i
rifugiati provenienti dall’Urss, si leggono sempre le stesse parole: gli
ucraini auspicano «l’intervento armato dell’Europa» contro Stalin. Ma
nel 1931 la Polonia aveva accettato la proposta sovietica di discutere
un trattato di non aggressione. Trattato che firmò nel luglio del 1932,
provocando la delusione degli ucraini.
Il console di Charkiv, a quei tempi
capitale della regione, nel febbraio del 1933 riferiva che al suo
ufficio si presentavano uomini in lacrime perché avevano lasciato morire
di inedia moglie e figli. «Sulle vie di Charkiv», scriveva un altro
diplomatico, «si vedono moribondi e cadaveri». Ogni notte si rimuovevano
centinaia di corpi senza vita: i residenti della città si lamentavano
dicendo che «la milizia non li portava via abbastanza rapidamente». Ma
la milizia sovietica trascurava i morti in putrefazione, perché era
indaffarata ad arrestare i vivi: contadini giunti in città, assieme ai
figli sopravvissuti, per cercare di guadagnare, chiedendo l’elemosina,
qualche giorno di vita. La milizia aveva l’ordine di catturare almeno
duemila bambini al giorno. Nel marzo del 1933, mentre il numero delle
vittime saliva da centinaia di migliaia all’ordine di milioni, il capo
dei servizi segreti polacchi scriveva: «intendiamo restare fedeli»
all’accordo con i sovietici «benché i russi ci provochino e ci ricattino
senza sosta». Ed è per questo che il voltafaccia polacco, scrive
Timothy Snyder, «poteva essere visto dagli ucraini come un tradimento e
in effetti fu così che lo intesero».
Un esperto polacco nella questione delle
nazionalità scrisse: «La firma del patto ha annullato la speranza di
salvezza dall’estero e così il potere sovietico è diventato, agli occhi
della popolazione, il padrone assoluto della vita e della morte. Questa
convinzione ha trovato conferma nella strage della popolazione rurale
nella primavera del 1933». In quel momento i contadini ucraini
«riconobbero» che «l’ultima speranza era l’invasione tedesca e la
distruzione dell’ordine sovietico». E questo proprio nei giorni in cui
Hitler, quell’Hitler che nulla fin lì aveva capito né della Polonia né
dell’Ucraina, andava al potere.
Il dittatore nazista, sottolinea Snyder,
con ogni probabilità non colse nessuna di queste sfumature. Voleva
occupare, quando fosse stato possibile, l’Unione Sovietica e
impadronirsi dell’Ucraina, «ma con l’obiettivo della colonizzazione
razziale e non della liberazione nazionale». Stalin e la leadership
sovietica (che lo avevano già capito all’inizio degli anni Trenta, prima
ancora della vittoria di Hitler) erano preoccupati soltanto
dall’eventualità che la Polonia potesse intervenire nel corso della
crisi provocata dalla collettivizzazione e fu per questo che
intavolarono trattative con Pilsudski. I gruppi dirigenti polacchi,
costretti a tagliare i budget della difesa a causa della Grande
Depressione, nonostante avessero la giusta percezione del tradimento che
stavano consumando a danno degli ucraini, acconsentirono a firmare il
trattato con l’Urss del luglio 1932. Ed è in quelle ore che furono
poste, secondo Snyder, le basi della Seconda guerra mondiale.
Pilsudski che, come si è detto, aveva
accettato il patto con l’Urss perché spinto dalla necessità, cercò di
riequilibrare la propria politica spingendo il proprio ministro degli
Esteri Jozef Beck (nominato nel novembre del 1933) a cercare di firmare
con la Germania un patto analogo a quello sottoscritto con l’Urss. E
Hitler accettò tanto che i due Paesi lo sottoscrissero già nel gennaio
del 1934. I polacchi, in base a quel patto, si impegnarono a impedire al
congresso internazionale delle organizzazioni ebraiche di riunirsi nel
loro Paese.
Stalin capì al volo l’antifona: da quel
momento il suo odio all’indirizzo della Polonia fu totale, inventò su
due piedi un complotto polacco ai danni della patria del socialismo,
fece fuori il Partito comunista polacco e avviò «la campagna di
fucilazioni etniche in tempo di pace più vasta della storia». Per lui,
come disse esplicitamente, si trattava di distruggere la «feccia dello
spionaggio polacco nell’interesse dell’Urss».
A questo punto la Polonia iniziò a
preoccuparsi di cercare una destinazione per gli ebrei dei quali, sulla
base degli accordi presi con la Germania, intendeva liberarsi. Beck
riprese in considerazione un progetto del 1926, che era quello di
indirizzarli verso il Madagascar. Nell’ottobre del 1936 fu autorizzato
dal primo ministro francese Léon Blum a mandare sull’isola africana una
missione esplorativa. Ad un tempo però i polacchi ritenevano più
realistica l’ipotesi che gli ebrei si concentrassero in Palestina:
fecero pressioni sul Regno Unito perché ammorbidisse il blocco delle
immigrazioni e offrirono armi e addestramento all’Haganah, la principale
organizzazione sionista di autodifesa in loco. Il leader del sionismo
revisionista Vladimir Jabotinskij colse al volo l’opportunità e cominciò
ad operare perché la Polonia ereditasse dalla Gran Bretagna il mandato
sulla Palestina: quello che gli appariva (e forse sarebbe stato) un
primo passo verso la nascita anzitempo dello Stato di Israele. Si ebbe
così il paradosso di uno Stato, la Polonia, ad un tempo filonazista ed
apprezzato da una componente di rilievo del movimento sionista.
Dopo il 1935, rileva Snyder, «il regime
autoritario polacco tollerò l’uso della pressione economica per indurre
gli ebrei a lasciare il Paese; la polizia stroncò i pogrom, ma considerò
i boicottaggi delle aziende ebree una scelta economica legittima; il
parlamento proibì la macellazione kosher, anche se il divieto non fu mai
applicato; la società civile si mosse nella stessa direzione; le
università tollerarono che gli studenti ebrei venissero picchiati e
intimiditi perché andassero a sedersi nelle ultime file delle aule,
dette “banchi del ghetto”; la Chiesa cattolica romana, in Polonia e in
altre parti dell’Europa, continuò a ribadire che gli ebrei erano
responsabili dei mali della modernità in generale e del comunismo in
particolare».
Ma, ed è questo un punto assai
rilevante, «a differenza del regime nazista il governo polacco non
dipinse gli ebrei come la mano nascosta dietro le crisi internazionali e
le sventure della Polonia; li descrisse piuttosto come esseri umani la
cui presenza era indesiderabile dal punto di vista economico e politico;
l’idea di una Polonia senza ebrei era sicuramente antisemita, però non
si trattava di un antisemitismo che identificava gli ebrei con i
principali mali ecologici o metafisici del pianeta». Inoltre «al
contrario di quanto accadde in Germania le proteste in Polonia furono
accese»: il Partito socialista polacco, il più numeroso a Varsavia, «si
oppose alla linea del governo, come anche il sindaco della capitale». Il
partito ebraico Bund, favorevole al socialismo in Europa e alla
permanenza degli ebrei in Polonia, raccolse vasti consensi nelle
elezioni amministrative del 1938.
Quello stesso anno, il 1938, a
settembre, durante la crisi cecoslovacca, nelle regioni dell’Ucraina
sovietica vicine al confine polacco, unità dell’Urss «si spostarono da
un villaggio all’altro comportandosi come squadre della morte». E mentre
la Polonia cercava la protezione dell’Inghilterra, la sua intelligence
militare intensificò segretamente il tirocinio di un gruppo selezionato
di attivisti dell’Irgun, che in Palestina avrebbero combattuto contro
gli inglesi. Sicché si ebbe il paradosso, evidenziato da Snyder, che
«quando tornarono in Palestina nel maggio del 1939 quei radicali ebrei
iniziarono a usare le anni e l’addestramento ricevuti dal polacchi in
operazioni contro il nuovo alleato della Polonia». Nello stesso momento
Stalin – che preparava il colpo a sorpresa dell’alleanza con i nazisti
(Il patto Molotov – von Ribbentrop) – qualche settimana dopo la rottura
pubblica tra la Germania e la Polonia «fece un gesto significativo nei
confronti di Rider… liquidò Maksim Litvinov, il commissario ebreo agli
Esteri». Il mondo sembrava impazzito.
Un giovane scrittore di Kielce, Gustaw
Herling – Grudzinski (che nel dopoguerra sarebbe approdato in Italia,
dove avrebbe sposato Lidia, una figlia di Benedetto Croce), fu catturato
dai russi, che lo accusarono di aver lasciato illegalmente la Polonia
alla volta della Lituania «per combattere contro l’Urss». Chiese ai
funzionari di correggere il capo di imputazione: voleva sì combattere,
ma «contro i tedeschi». Gli fu risposto dai russi di lasciar perdere dal
momento che era «la stessa cosa». In Palestina Avraham Stern provocò
una scissione dell’Irgun e fondò il Lehi, che nel gennaio del 1941
propose una «collaborazione tra la nuova Germania e una rinnovata
comunità ebraica razziale-nazionale». «Con lo smantellamento dello Stato
polacco e l’espansione del potere tedesco», osserva Snyder,
«un’alleanza con i nazisti poteva apparire logica, almeno ai radicali
ebrei persuasi che il vecchio ordine sarebbe crollato in ogni caso».
Terra nera mette in risalto il
parallelo tra i comportamenti dei nazionalisti ebrei e ucraini, pur se
«le loro offerte di collaborazionismo erano destinate a fallire e, in un
certo senso, fallirono insieme». Quella ucraina in maniera ancor più
misconosciuta di quella israelita. In un bel libro, II conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo (dis)ordine mondiale
(Rubbettino), Eugenio Di Rienzo ricostruisce come nel marzo del 1921 Il
trattato di Riga, sottoscritto tra Varsavia e Mosca, aveva sancito la
spartizione dell’Ucraina, laddove la Polonia aveva incorporato la
Galizia orientale e la Volinia occidentale, altre regioni erano state
annesse dalla Cecoslovacchia e dalla Romania e il resto divenne, nel
1922, parte dell’Urss. E Stalin all’inizio degli anni Trenta la immolò
in quello sterminio per fame di cui abbiamo detto, l’Holodomor.
In un certo senso l’Holodomor produsse il «caso Bandera». Di che si tratta? In Anno Zero. Una storia del 1945
(Mondadori), Ian Buruma si occupa di Stepan Bandera, che in una parte
dell’Ucraina, quella sotto il controllo russo, «è ancora oggi visto come
un fascista per essersi schierato nel 1941 con i nazisti», mentre a
Kiev è considerato un eroe nazionale. In realtà Bandera finì in un campo
di concentramento hitleriano per essersi schierato a favore
dell’indipendenza dell’Ucraina dai sovietici, ma anche dai tedeschi. I
suoi uomini si resero responsabili dell’uccisione di non pochi ebrei e,
nel 1944, di circa 40 mila polacchi. Ma la sua colpa fu quella di aver
continuato ad essere antisovietico prima, durante e dopo la guerra. Al
punto che fu assassinato da un agente del Kgb nel 1959, mentre viveva in
esilio a Monaco di Baviera. Echi di una guerra in quella regione che ha
come epicentro i confini tra Russia, Polonia e Ucraina. Una guerra che
non si è mai davvero conclusa.
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