domenica 4 ottobre 2015

"Dike" di Emanuele Severino

http://media.adelphi.it/spool/4d5e140791608ebecb2e8830e039ddfc_w600_h_mw_mh_cs_cx_cy.jpgEmanuele Severino: Dike, Adelphi

Risvolto
La parola díkē, comunemente tradotta con «giustizia», nasce in un contesto religioso e poi giuridico, ma ha in realtà un significato più profondo, che compare per la prima volta nella più antica testimonianza del pensiero filosofico: il frammento di Anassimandro. Si può dire che l'avvento della filosofia coincida con l'avvento di tale significato – quello che Aristotele chiama «il principio più stabile». Díkē designa l’incondizionata stabilità del sapere. E richiede la stabilità incondizionata dell'essere. Riguarda tutto ciò che l'uomo può pensare e può fare. In rapporto con essa si svolge l'intera storia dell'Occidente. Se nel Giogo Severino aveva puntato l'attenzione sulla conseguenza decisiva per l'uomo della tradizione occidentale, resa esplicita da Eschilo, ovvero che l'incondizionata stabilità del sapere e dell'essere è il «vero» rimedio contro il dolore e la morte, e sul rapporto tra Eschilo e Anassimandro, in questa sua nuova opera si volge invece verso le radici di quel significato. Soprattutto perché díkē e l’Occidente, che ne è dominato, sfigurano il volto della stabilità autentica: il volto del destino della verità. Affrontando il rapporto tra il puro volto del destino e il suo volto sfigurato da díkē, questo libro compie alcuni passi avanti rispetto agli scritti precedenti, da cui pure trae origine. Se comune e già più volte evidenziato è il punto di partenza – la sconvolgente rivelazione della struttura originaria del destino e il suo implicare l'eternità di ogni essente e la necessità del farsi innanzi della terra –, Dike rappresenta un'altra via accanto a quella indicata fin dall'inizio dal filosofo per raggiungere il medesimo risultato: l’eternità degli essenti.

Anteprima Giovedì in libreria «Dike» (Adelphi), indagine del filosofo che tocca un tema capitale senza ricorrere alle categorie della politica e dell'etica
Cerchi la giustizia e trovi l'eternità
Concetto né divino né umano né naturale: la via difficile di Emanuele Severino , l?ultimo dei greci Esistenza del divenire L?idea di fondo del suo pensiero ruota intorno ai due opposti della follia e del destino
Mauro Bonazzi 23 agosto 2015 - Corriere della Sera      


«Il mio lascito sulla fine dell’Occidente» 

Il filosofo Emanuele Severino riceve la cittadinanza onoraria di Elea ed esce col saggio «Dike» La «summa» del suo pensiero: nichilismo, ateismo, violenza avanzano sin dai tempi dei greci 

4 ott 2015  Libero CLAUDIA GUALDANA
Nel ’64 sconvolse il dibattito teoretico con il saggio Ritornare a Parmenide. Il 13 settembre è davvero tornato a Parmenide, nella sua città, Elea, dove ha ricevuto la cittadinanza onoraria. Ed è uscito col saggio Dike (Adelphi, pp. 374, euro 38).  


Il cerchio si chiude, chi è Parmenide per Emanuele Severino? 

«Quel saggio suscitò comunque molto interesse. In più direzioni. Rispetto al modo in cui i miei scritti interpretano la storia dell’Occidente, è stato una svolta. Ma, in relazione al suo contenuto teorico, una svolta ampiamente preparata nei miei scritti precedenti. Ho detto più volte che quel “ritornare” che compare nel titolo non è un imperativo ma un infinito. Parmenide è infatti un immenso Giano bifronte: conduce, insieme, verso la luce e verso le tenebre. Che la mia persona abbia ricevuto la cittadinanza di Elea (e la cosa mi ha fatto molto piacere) non può dunque significare che per il mio pensiero filosofico si sia chiuso un cerchio. Non si ritorna alle tenebre. Quanto sto per dire suonerà indubbiamente, qui, come un’esagerazione fuor di luogo e arbitraria. Si tratta infatti di comprendere, nientemeno, che l’intera storia dell’Occidente ha preferito le tenebre di Parmenide alla sua luce». Perché? «Perché ha creduto e crede che le cose siano nulla - e continua a trattarle come se fossero nulla. La violenza non è forse trattare come un nulla tutto ciò su cui essa si esercita? E l’Occidente non ha forse insegnato al mondo la forma estrema della violenza?» 

Dike, summa della sua opera, arriva addirittura al Frammento di Anassimandro. Qual è il senso di queste celebri parole? Superano le tenebre di Parmenide? 

«Le poche righe del Frammento sono considerate il testo filosofico più antico da noi conosciuto. La loro potenza continua a stupire. Ma aprono la strada alle tenebre di Parmenide. Le quali non sono qualcosa di piccolo e misero, ma il più gigantesco dei passi falsi. Bisogna saper capire la grandezza delle tenebre. Anassimandro la mette al centro della vita dell’uomo. Afferma che le cose tutte sono divenute preda del nulla perché si sono separate dall’Uno divino e che la morte punisce la loro colpa riportandole là da dove provengono e dove esse non sono più in balìa del nulla. Ma i problemi incominciano a questo punto. Infatti, pensando così, Anassimandro crede che nel mondo l’annientamento delle cose e degli eventi riesca a esistere. Tutta la tradizione dell’Occidente si muove in questa prospettiva. È probabile che lo faccia anche la maggior parte di Sopra il filosofo Emanuele Severino nel suo studio. A sinistra, la copertina del suo ultimo libro «Dike» (Adelphi), summa del suo pensiero. Severino è anche docente a Milano ed editorialista del «Corriere della sera» 

chi ci sta leggendo». Lei crede, professore? «È inevitabile che gli abitatori dell’Occidente credano che le tenebre siano luce e la luce tenebre. Ma se l’esistenza delle infinite variazioni del mondo è incontrovertibile, siamo proprio sicuri - dico da decenni che il variare debba essere inteso come un venire dal nulla e ritornarvi? Siamo sicuri di vedere l’esser state nulla e l’annientamento delle cose?» 

Dike letteralmente significa “giustizia”, è impossibile non pensare alla giustizia degli uomini e ai suoi miseri passi falsi... 

«Nel Frammento di Anassimandro dike ha un significato più originario di quello, derivato, etico-giuridico. La morte, lì, è la “giustizia” suprema perché annienta la separazione delle cose dal Divino e riconducendole ad esso consente loro di essere, strappandole al nulla. Ma anche sul piano etico-giuridico “giustizia” è riconoscere a ciascuno ciò che egli è, il suo essere. Il nostro tempo nega il fondamento divino della tradizione occidentale, cioè nega ogni “diritto naturale”, sostituendolo con il “diritto positivo”, “posto” cioè dai gruppi sociali vincenti. Il diritto naturale impone di riconoscere a ciascuno l’essere che egli è “per natura”; il diritto positivo impone di riconoscere l’essere che le forze vincenti stabiliscono che ciascuno sia. Lo scontro tra queste due forme di diritto, anche in Italia, sta alla base del conflitto sociale». 

Molti anni fa è stato accusato di ateismo. Ma Dike critica il nichilismo. L’angoscia del nulla e del vuoto che colpisce l’uomo sembra trovare rimedio nella fede nell’Uno divino. È un ripensamento? 

«Dico spesso che l’“ateismo” ha la stessa anima del “teismo”: il nichilismo. Per gli amici di Dio le cose escono dal nulla e vi ritornano perché o si separano da Dio o sono create, da Dio, dal nulla; e nel nulla Dio le risospinge (salvandone alcune per grazia). Per i nemici di Dio non c’è bisogno di un Dio perché le cose vengano e vadano nel nulla. Da sessant’anni il mio discorso filosofico continua a mantenersi al di là della contrapposizione tra quell’amicizia e quell’inimicizia. Nessun “ripensamento”». 

L’hanno definita «l’ultimo dei greci». La salvezza dell’Occidente passa per il recupero del pensiero greco delle origini?  

«Ultimo dei Greci - l’ultimo che porta al culmine le tenebre evocate da Parmenide - è il tempo della tecnica moderna, il nostro tempo, la forma compiuta del nichilismo. Il mio libro Dike mostra che Dike, la giustizia dei Greci e dell’Occidente, è la violenza estrema che intende render nulla le cose. Non si tratta quindi di salvare l’Occidente, ma di oltrepassarlo, purificando la luce che, intravista dal grande Parmenide, mostra l’eternità dell’essere.

Nessun commento: