«L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte; e la sua sapienza è una meditazione non della morte, ma della vita». Il pensiero è di Spinoza, ma riflette lo spirito con cui Giulio Giorello, nel suo recente saggio La libertà (Bollati Boringhieri, pp. 175, euro 11), affronta una delle dimensioni fondamentali dell’essere umano, annunciata dal titolo. Senza libertà, ovvero privi delle tre forme principali in cui si può analizzare (Freedom, Liberty e Enfranchisement: libertà, indipendenza, emancipazione), non solo il singolo, ma è l’intera società a soffrire. Davanti agli attacchi degli «entusiasti di Dio», dei fanatici taglia gole e di chiunque voglia imporre il proprio credo agli altri, la lotta per l’emancipazione sembra essere una improrogabile necessità per garantire un futuro all’umanità, o per realizzarla. Questa la battaglia dell’irlandese Bobby Sands, per esempio, che si lasciò morire in carcere per rivendicare i propri diritti politici, o del sindacalista J. Connolly, pensatore e leader di un paese, l’Irlanda, dove fu fucilato seduto su una sedia, perché non riusciva più a stare in piedi. «Coloro a cui sta a cuore la libertà più che la vita… mai, mai, mai vorranno cedere il cielo stellato scandagliato dal cannocchiale di Galileo per quel “miraggio nella nebbia” che è la promessa di una salvezza offerta da una qualsiasi sottomissione».
sabato 10 ottobre 2015
Giorello "libertario"
Risvolto
In
una memorabile scena del "Giulio Cesare" di Shakespeare, Cassio, dopo
l'uccisione del dittatore, si rivolge alla folla di Roma invocando
"Liberty, Freedom, and Enfranchisement", ovvero libertà, indipendenza ed
emancipazione. Queste tre parole indicano per Giulio Giorello tre
aspetti costitutivi dell'esperienza libertaria. Liberty (libertà)
riguarda le nostre facoltà esercitate senza alcuna costrizione; molto,
qui, ha a che fare con la scienza, l'attività umana che forse più di
altre esige libertà per progredire. Freedom (indipendenza) denota una
ragione che opportunamente riconosce l'inevitabile potere delle
passioni, con tutti i vincoli che queste comportano; ma resta una
libertà strutturale, che rende responsabili le nostre scelte, pur
sapendo che non tutto ciò che noi crediamo libero può dirsi davvero
tale. Enfranchisement (emancipazione) è il processo di affrancamento da
qualsiasi condizione servile, che rimanda, se necessario, alla lotta che
donne e uomini combattono per fare della propria libertà uno strumento
per avere ancora più libertà, perché "la libertà può essere ristretta,
ma solo a vantaggio della libertà stessa".
La libertà radicale al setaccio di Giulio Giorello
Andrea Comincini Manifesto 10.10.2015
«L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte; e la sua sapienza è una meditazione non della morte, ma della vita». Il pensiero è di Spinoza, ma riflette lo spirito con cui Giulio Giorello, nel suo recente saggio La libertà (Bollati Boringhieri, pp. 175, euro 11), affronta una delle dimensioni fondamentali dell’essere umano, annunciata dal titolo. Senza libertà, ovvero privi delle tre forme principali in cui si può analizzare (Freedom, Liberty e Enfranchisement: libertà, indipendenza, emancipazione), non solo il singolo, ma è l’intera società a soffrire. Davanti agli attacchi degli «entusiasti di Dio», dei fanatici taglia gole e di chiunque voglia imporre il proprio credo agli altri, la lotta per l’emancipazione sembra essere una improrogabile necessità per garantire un futuro all’umanità, o per realizzarla. Questa la battaglia dell’irlandese Bobby Sands, per esempio, che si lasciò morire in carcere per rivendicare i propri diritti politici, o del sindacalista J. Connolly, pensatore e leader di un paese, l’Irlanda, dove fu fucilato seduto su una sedia, perché non riusciva più a stare in piedi. «Coloro a cui sta a cuore la libertà più che la vita… mai, mai, mai vorranno cedere il cielo stellato scandagliato dal cannocchiale di Galileo per quel “miraggio nella nebbia” che è la promessa di una salvezza offerta da una qualsiasi sottomissione».
«L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte; e la sua sapienza è una meditazione non della morte, ma della vita». Il pensiero è di Spinoza, ma riflette lo spirito con cui Giulio Giorello, nel suo recente saggio La libertà (Bollati Boringhieri, pp. 175, euro 11), affronta una delle dimensioni fondamentali dell’essere umano, annunciata dal titolo. Senza libertà, ovvero privi delle tre forme principali in cui si può analizzare (Freedom, Liberty e Enfranchisement: libertà, indipendenza, emancipazione), non solo il singolo, ma è l’intera società a soffrire. Davanti agli attacchi degli «entusiasti di Dio», dei fanatici taglia gole e di chiunque voglia imporre il proprio credo agli altri, la lotta per l’emancipazione sembra essere una improrogabile necessità per garantire un futuro all’umanità, o per realizzarla. Questa la battaglia dell’irlandese Bobby Sands, per esempio, che si lasciò morire in carcere per rivendicare i propri diritti politici, o del sindacalista J. Connolly, pensatore e leader di un paese, l’Irlanda, dove fu fucilato seduto su una sedia, perché non riusciva più a stare in piedi. «Coloro a cui sta a cuore la libertà più che la vita… mai, mai, mai vorranno cedere il cielo stellato scandagliato dal cannocchiale di Galileo per quel “miraggio nella nebbia” che è la promessa di una salvezza offerta da una qualsiasi sottomissione».
Sotto quel medesimo cielo Giorello racconta di pirati e schiavi, filosofi e scienziati e di come ognuno di loro abbia sempre gridato le parole: «mai, mai, mai». Un infinito eros per la vita fonda la coscienza del ribelle, il quale ha la responsabilità di lottare anche per chi si offre volontariamente schiavo, avendo smarrito il desiderio. (Tale concezione si fonda sull’abbandono della teoria agostiniana del male, per accogliere invece l’idea spinoziana secondo cui il male è perversione di conatus, di auoconservazione.)
Di nuovo Spinoza: la cultura della vita contro l’ideologia della morte; non è un caso che il nemico inneggi alla fine – si pensi al «viva la muerte!» di Franco; chi odia la libertà non comprende il desiderio, e non sa cogliere il canto dei grandi pirati: «Non abbasseremo mai la nostra bandiera nera, e se ci negano i mari, solcheremo l’aria». La libertà infatti – e Giorello lo sottolinea virtualmente in ogni pagina – non è un concetto, ma un orizzonte di vita. Viene prima della verità, e addirittura della democrazia. Sia l’una che l’altra non sono paragonabili a un porto sicuro, bensì al viaggio tra flutti e tempeste, come quello che accompagnò Ulisse, in un mare dove il timoniere dovrà ogni volta cercare la rotta migliore fra le avversità.
Tra le pagine più appassionate di questo lavoro emerge la volontà e l’auspicio di diffondere nelle istituzioni e nei cittadini lo spirito critico della mentalità scientifica, poiché «la scienza che reclama per sé libertà insegna col proprio esempio a lottare per la libertà».
L’obiettivo è raggiungibile anche con lo strumento dell’ironia. Il riso, rivelando il vuoto dell’imperium, è sovversivo. È inviso alle istituzioni – si pensi al vecchio Jorge de Il nome della rosa – perché dissacra, ovvero confessa una libertà che il singolo, per il fanatico, non dovrebbe prendersi né desiderare.
I libertari sono come i Greci ricordati da Eschilo nei Persiani: «Hanno fama di non essere schiavi a nessuno, di non obbedire a nessuno». Attingendo da Nietzsche, Giorello sottolinea che solo chi è capace di ribellarsi all’oppressione è persona veramente responsabile. E la responsabilità è innanzitutto una questione della mente: «La mente è la cosa più importante Se non riescono a distruggere il tuo desiderio di libertà, non possono stroncarti» (Bobby Sands).
Il libro di Giorello è un vero manifesto libertario pensato per accompagnare chi non vuole arrendersi alla tirannia dell’ignoranza bigotta. Lo sapeva bene Malcolm X: «nessuno vi può dare la libertà. Nessuno vi può dare l’uguaglianza o la giustizia. Se siete uomini, prendetevela».
“Libertini e libertari, io sono i miei fantasmi”
“Esordisco nella narrativa con storie di spettri e affini: sono lì a rappresentare il nostro animo tormentato”
Mirella Serri Tuttolibri 16 10 2015
Tra quadri barocchi, porcellane e orologi in stile Napoleone III una testa di moro intagliata nel legno, dagli occhi bianchi e inquietanti, calamita l’attenzione della visitatrice dell’antica villa. Davanti a quel pregevole manufatto, conservato nella settecentesca dimora del Conte esperto d’arte, il cucciolone terranova della graziosa ospite ringhia e mostra i denti. Nella notte inoltre il reperto sembra animarsi: in preda al terrore la signora finisce per trovar conforto sotto le lenzuola con il prestante domestico indiano che, come in una sorta di diabolico maleficio, ha le stesse fattezze di quel mostruoso volto ligneo. Visioni provenienti dall’al di là, larve e fantasmi hanno conquistato Giulio Giorello, noto filosofo della scienza: il famoso allievo di Ludovico Geymonat, il matematico esegeta delle relazioni tra etica e politica, l’ ateo convinto (autore di Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo), ora esordisce con suggestivi racconti Il fantasma e il desiderio (Mondadori). Proprio in questi giorni sta uscendo anche il bel saggio Libertà (Bollati Boringhieri) in cui Giorello, ispirato dal Giulio Cesare di Shakespeare, sviscera la sua trinità laica: «Liberty», «Freedom» ed «Enfrachisement». Dove ci spiega quali sono le libertà a cui dobbiamo tenere nel mondo moderno e che dobbiamo custodire a costo anche di strenue lotte, a cominciare dall’indipendenza nella ricerca scientifica, per passare alla tutela dell’autonomia delle scelte individuali e all’emancipazione o «affrancamento da qualsiasi condizione servile».
Fantasmi e libertà: professor Giorello, come convivono in lei queste anime apparentemente antitetiche, l’intellettuale razionalista e sempre mosso dal dubbio e lo scrittore gotico che scruta il buio e fruga nell’indicibile?
«Negli ultimi anni ho giocato su due tavoli: mi dedicavo al lavoro speculativo e faticavo molto perché mi trovavo a fare i conti con gli autori e i testi fondanti del mio passato, da Geymonat a John Stuart Mill. Ad aiutarmi ad andare avanti c’è stata l’esperienza narrativa che si è rivelata un terreno affascinante e sconosciuto».
Ma come mai ha scelto di dare vita, si fa per dire, a spettri e affini?
«Il retroterra di questa raccolta affonda le sue radici nella lettura di Topolino e la casa dei sette fantasmi: da bambino ero conquistato dal fumetto di Walt Disney che risaliva alla metà degli anni Trenta in cui i famosi personaggi dei cartoons erano impegnati nel ruolo di ghostbusters. Mentre tifavo per Topolino alle prese con uno dei suoi peggiori nemici, il terribile fantasma criminale Macchia Nera, è poi arrivato l’”Inferno di Topolino” con quest’ultimo che rivestiva i panni di Dante, mentre Pippo era Virgilio. C’era persino l’arbitro venduto Ugolino intento a rosicchiare un pallone poiché a Pisa, per salvare la squadra che gli aveva dato i quattrini, non aveva fischiato un rigore. Ma tutta la Divina commedia si può leggere come una grande storia di spiriti, una meravigliosa recita spettrale».
Da adulto?
«In seguito mi sono dedicato agli ectoplasmi shakespeariani: Amleto, principe di Danimarca, è spinto dal fantasma del padre a vendicarne la morte; l’ombra di Cesare appare in sogno a Bruto, annunciandogli la sua prossima sconfitta; Riccardo III è assediato dalle visite notturne delle numerose persone che ha fatto uccidere. Altri appassionanti coinvolgimenti me li hanno offerti Montague Rhodes James con i suoi tranquilli villaggi in cui irrompe il soprannaturale, Oscar Wilde con il Fantasma di Canterville, Charles Dickens con l’avaro Scrooge visitato la notte di Natale dal defunto socio in affari Marley, Henry James con Il giro di vite, pieno di emozionanti sorprese».
Tombe, atmosfere cimiteriali, manieri abbandonati, drappi bianchi e catene contraddistinguono di solito le ghost stories: i suoi visitors spesso sono alquanto disinvolti e libertini, come nel racconto «Fuoco nella pianura» dove la fiamma che arde è anche quella nelle vene di una procace ricercatrice universitaria conquistata sessualmente da un terrificante incappucciato…
«Uno dei miei scrittori preferiti è Joyce, gran maestro d’ironia nell’Ulisse. E le larvali presenze che io metto in scena, come nel caso della bella accademica alle prese con un essere misterioso, sfidano le convenzioni non senza un pizzico di humour. Il mio primo racconto ha come protagonista Spinoza, un gigante del pensiero anche se paragonato a Platone, Cartesio, Kant, e molto “inattuale” in senso nietzschiano, poiché va sempre controcorrente, contro il pensiero dominante. Per le sue idee che criticavano le credenze teologiche degli ebrei fu persino espulso dalla Sinagoga».
Spinoza era solito sentenziare «i fantasmi sono un’offesa all’intelligenza di Dio». Cosa ne pensa?
«La mia amica Margherita Hack diceva che non vi avrebbe creduto nemmeno se ne avesse visto spuntare uno da dietro il frigorifero: anch’io sono scettico. Quando sono stato in un pub irlandese noto per essere frequentato da ospiti provenienti dall’oltretomba, il barista mi assicurò di aver visto passare un mastino dagli occhi di fuoco. Diceva di non essere ubriaco ma di aver bevuto “solo”, ripeto “solo”, sette pinte di birra… Forse aveva letto il Mastino dei Baskerville di Arthur Conan Doyle».
Allora cosa sono per lei larve e spiriti disincarnati?
«Rappresentano il nostro animo tormentato, l’insofferenza e l’irrequietezza nei confronti di tutto quello che ci circonda. Esprimono il piacere di costruirsi un mondo d’immaginazione, quello che definirei “il desiderio del desiderio”. Non siamo noi a dare vita ai nostri fantasmi: sono loro che la danno a noi».
I suoi spiriti oltre che libertini però sono anche libertari. E’ così?
«Ho sentito il bisogno di scrivere questi racconti, la cui stesura si è intrecciata con quella del saggio sulla libertà, proprio perché non sono ottimista sul nostro futuro. Credo che oggi occorra rafforzare l’Enfranchisement o l’impegno per fare della nostra libertà lo strumento per avere ancora più libertà. Temo un buio avvenire, pieno di barriere e di steccati, come quelli che, per esempio, stanno sorgendo in tutto il mondo, dall’Ungheria al Messico, per limitare l’afflusso di chi fugge la violenza e lo sterminio. Non vorrei trovarmi tra qualche anno a intitolare il mio prossimo libro alla maniera di Luis Buñuel: Il fantasma della libertà».
Inafferrabile come uno spettro La libertà di chi non si rassegna
11 dic 2015 Corriere della Sera Antonio Carioti
Il pensatore ebreo del Seicento Baruch Spinoza, precursore dell’Illuminismo, non è solo il «filosofo preferito» di Giulio Giorello, ma anche il protagonista del primo racconto incluso nel volume dello stesso Giorello Il fantasma e il desiderio (Mondadori): oltre al coraggio intellettuale, l’autore ne mette in luce il rifiuto di farsi suggestionare e la fiducia nella capacità dell’intelligenza di resistere alle credenze irrazionali, come quella relativa all’esistenza degli spettri.
Tuttavia Spinoza sapeva molto bene che «gli uomini sono guidati più dagli affetti che non dalla ragione». E qui veniamo al secondo libro che Giorello ha pubblicato di recente. Si tratta del saggio Libertà (Bollati Boringhieri), nel quale l’autore afferma con estrema risolutezza — senza se e senza ma, per così dire — il primato filosofico e politico del principio che più gli sta a cuore.
I racconti del volume mondadoriano, omaggi un po’ giocosi al grande scrittore inglese di ghost stories Montague Rhodes James, esprimono questa concezione indirettamente, rivendicando al regno della fantasia un’estensione sconfinata: «Una ragione che ci sequestrasse l’illusione — si legge nel prologo — sarebbe una piccola tiranna che vieta una certa esperienza della libertà». Invece nelle pagine del saggio tutto è più argomentato, sistematico. E Spinoza viene chiamato in causa di nuovo, ma per la sua concezione politica, molto avanzata per i tempi in cui visse, nella quale si possono trovare le premesse del moderno costituzionalismo.
Efficace e letterariamente suggestivo è il richiamo omerico contenuto nel Trattato politico del pensatore nato ad Amsterdam. Ogni governante, in un sistema equilibrato, dovrebbe porre vincoli di legge a se stesso, come fa Ulisse nel canto XII dell’Odissea, quando ordina ai suoi compagni di tapparsi le orecchie con la cera e di legarlo all’albero della nave, per consentirgli di ascoltare il canto delle Sirene senza soccombere alla tentazione di dar retta alle loro lusinghe, che avrebbero potuto condurre l’imbarcazione alla rovina.
Allo stesso modo il costituzionalismo liberale si è sforzato di porre limiti e bilanciamenti all’attività del potere politico e allo stesso esercizio della sovranità da parte del popolo, in modo da garantire al massimo i diritti individuali. Ma che succede, si domanda a questo punto Giorello, quando la storia muta direzione ed emergono nuove esigenze, impensabili o comunque trascurate nel passato? Si tratta di decidere se «sacrificare la garanzia costituzionale per favorire l’irruzione delle novità o bloccare ogni evoluzione del dettato costituzionale».
Si tratta di un dilemma quanto mai angoscioso, perché una democrazia può benissimo finire per suicidarsi, se resta sorda ai cambiamenti o, al contrario, se si lascia trascinare sulla cattiva strada da pulsioni più o meno apertamente liberticide.
Giorello non ha la ricetta in tasca, ma la bussola che ne orienta i giudizi è di schietta matrice libertaria, così come i fantasmi anticonformisti dei suoi racconti. Più dell’intricata questione filosofica riguardante il rapporto tra necessità e autodeterminazione nell’agire umano, gli interessa una «libertà pratica»: non « dal mondo, ma nel mondo». Una libertà che «fa aggio sulla verità», nel senso che le deve essere permesso di mettere in discussione ogni dato ritenuto
acquisito, anche in campo scientifico, affinché «l’inquietudine della
ricerca non venga meno». E forse in questo caso l’autore sottovaluta,
almeno in parte, i pericoli provenienti dai truffatori della
pseudoscienza, che spesso si proclamano eretici rispetto all’ufficialità
accademica.
Quanto alla politica, Giorello non nasconde la sua ammirazione per
lo spirito indomabile di chi rifiuta di sottomettersi: tra gli esempi,
accanto a Spinoza, nel libro troviamo Bobby Sands, morto in carcere nel
1981, e un altro nazionalista irlandese, James Connolly; Malcolm X e lo
schiavo insorto Babo, coprotagonista del racconto di Herman Melville
Benito Cereno. Purtroppo nella storia i rivoltosi sono poi diverse volte
diventati despoti. Ma è un rischio da correre, avverte Giorello, perché
peggio sarebbe adagiarsi nella rassegnazione.
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