mercoledì 21 ottobre 2015

Hitler è vivo e ha aperto una ferramenta in Patagonia insieme agli antenati di Netanyahu

Netanyahu: "Hitler non voleva sterminare gli ebrei, fu il Gran Mufti a dargli l'idea"
Il premier israeliano ha pronunciato parole sulla Shoah che stanno facendo discutere. "Così fa il gioco dei negazionisti dell'Olocausto", ha detto il leader dell'opposizione Herzog. Il Führer incontrò il muftì al-Husseini, ma la tesi che fu da lui convinto a mettere in atto la soluzione finale è bollata come falsa da diversi storici interpellati dai media israeliani
Repubblica 21 10 2015

Hitler vivo dopo il 1945? Indizi per riaprire il caso 
History Channel dedica otto documentari alla sorte del Führer e alla possibile fuga verso l’Argentina 
21 ott 2015  Libero GIORGIOPINOTTI 
Non esistono prove definitive della morte di Hitler nel bunker della Cancelleria a Berlino nel 1945 e alcuni avvistamenti dopo la fine della guerra hanno riaperto il mistero sulla sorte del dittatore nazista. History Channel ha realizzato otto documentari (che saranno trasmessi a partire dal 26 ottobre) in cui si ricostruisce la possibile fuga del Führer da Berlino verso l’Argentina. 




Il network ha messo insieme una squadra di investigatori molto particolare. A capo del gruppo c’è Robert Baer, una leggenda della Cia. Con lui John Cencich, esperto di indagini scientifiche e coordinatore dell’inchiesta internazionale contro il presidente serbo Slobodan Milosevic. Nel pool anche Tim Kennedy, un incursore che ha partecipato alla ricerca del covo di Osama bin Laden in Afghanistan. Il team ha collaborato anche con cacciatori di nazisti israeliani, studiosi argentini delle comunità tedesche ed esperti dei rapporti tra il dittatore spagnolo Francisco Franco e il Reich tedesco. 
Le segnalazioni - Il lavoro del gruppo si basa sui file resi pubblici dall’Fbi lo scorso anno, in cui si registrano diverse segnalazioni sulla fuga di Hitler tra il 1945 e il 1950. Il bureau stava indagando sulla sorte del Führer, forse suggestionato dalle parole di Stalin alla conferenza di Potsdam, dove alla domanda del presidente Usa Truman: «Hitler è morto?», il tiranno russo rispose: «No». Baer ha analizzato le segnalazioni con i programmi informatici usati dalla Cia per scovare i terroristi islamici, incrociandole con le fonti storiche, fino a ricostruire una rete delle possibili tappe della fuga. Il passo successivo è stata la verifica sul campo. 
Il bunker - Il primo elemento analizzato è stato come poter lasciare il bunker. A Berlino c’erano centinaia di chilometri di passaggi sotterranei, gli unici sicuri, sotto l’assedio dell’Armata Rossa. La via di fuga più probabile per lasciare la capitale era l’installazione di Tempelhof, la sola risparmiata dai raid alleati. Qui hangar a prova di bomba proteggevano i quadrimotori Condor, in grado di arrivare in Spagna senza scalo. Il 21 aprile 1945 ne sono decollati diversi, trasferendo alcuni alti ufficiali in Baviera, baluardo del Reich. Su alcuni velivoli erano imbarcate «le proprietà personali di Hitler». Secondo le fonti ufficiali l’ultimo decollo risalirebbe al 23 aprile, ma all’arrivo dei russi c’erano ancora aerei intatti. Fino a oggi non era stato individuato un collegamento tra il rifugio di Hitler e questo punto di decollo. Il bunker comunicava con le gallerie della metropolitana, ma tutti i superstiti dell’entourage hitleriano hanno negato l’esistenza di un percorso diretto per Tempelhof. Usando un georadar tattico, il team ha invece scoperto un cunicolo che collega l’aeroporto alla metro. È bloccato dal 1945 e adesso si attendono le autorizzazioni per demolire gli accessi ed esplorarlo. 
Il viaggio - La pista prosegue nella Spagna franchista. Le segnalazioni hanno indicato un monastero molto particolare, collegato al comando della polizia militare da un tunnel sotterraneo. Dalla Spagna il viaggio sarebbe poi proseguito verso le Canarie, ultimo approdo degli U-boot che non volevano arrendersi: tre salparono dalla Germania dopo la resa, consegnandosi quasi tre mesi dopo in Argentina. 
I nascondigli - Nel Paese sudamericano gli avvistamenti di Hitler si sono moltiplicati. Le tracce hanno portato il team in una cittadina molto isolata, Charata, e in un altro bunker sotto una fattoria. In questo luogo viveva una colonia tedesca che negli anni ’40 iscriveva i figli alla locale Hitlerjugend. I dossier dell'Fbi portano anche a Misiones, ai resti di tre edifici degli anni ’40 nel cuore della giungla. Uno è un’abitazione con finiture di pregio. L’altro un impianto idroelettrico. La residenza era quindi autonoma. In una parete è stata trovata murata una scatola di biscotti. Dentro il contenitore c’erano monete del Terzo Reich e delle foto. Una ritrae una giovanissima recluta delle SS e un’altra il primo incontro tra Benito Mussolini e Hitler, a Venezia nel 1934. Indizi, ricostruzioni verosimili e segnalazioni che però ovviamente non sono in grado con assoluta certezza, neppure con le più moderne tecnologie, di stabilire se Hitler sia veramente morto nel 1945 o no. E così risiamo da capo...

Hitler e il Gran Mufti: satellite, non alleato
risponde Sergio Romano Corriere 25.10.15
Che cosa pensa delle dichiarazioni del premier israeliano in merito all’Olocausto, e precisamente che Hitler inizialmente non voleva sterminare gli ebrei ma solo espellerli; successivamente fu, diciamo, istigato dall’allora Gran Mufti di Gerusalemme che non voleva vedere arrivare — come già stava avvenendo — milioni di ebrei in Palestina. Se in questa affermazione possono esserci degli elementi di verità in un contesto distorto, certo è, a mio avviso, che il premier ha voluto fare certe dichiarazioni in chiave anti-palestinese, per rinfocolare l’odio anti-arabo, poiché non vuole in alcun modo la nascita di uno Stato indipendente Arabo a fianco di Israele.
Fabio Todini

Caro Todini,
Hitler si servì del Gran Mufti di Gerusalemme come di ogni nemico della Gran Bretagna. Ma Haj Amin Al-Husseini era soltanto uno dei numerosi satelliti che ruotavano nella galassia tedesca sperando di ottenere, con l’aiuto dei Reich, ciò che non riuscivano a conquistare con le proprie forze. Ma non avrebbe mai permesso che un satellite dettasse la sua politica. Nel discorso di Benjamin Netanyahu al Congresso sionista, tuttavia, esiste una affermazione indiscutibilmente esatta. Agli inizi della campagna anti-ebraica, dopo la conquista del potere, l’obiettivo di Hitler era quello di espellere tutti gli ebrei dal Reich. Li avrebbe esclusi da tutte le professioni liberali, li avrebbe costretti a cedere la proprietà dei loro beni, li avrebbe perseguitati e tormentali in mille modi sino alla partenza. Ma la prospettiva dello sterminio non apparteneva allora alla politica del Reich. Questo spiega, tra l’altro, perché, fino al 1939, vi fossero a Berlino e in altre città tedesche molte associazioni che assistevano pubblicamente gli ebrei nei preparativi per la partenza. Ho scritto «fino al 1939», perché dopo l’inizio della guerra il permesso di partire venne generalmente negato a chi voleva emigrare verso Paesi attualmente o potenzialmente nemici.
  Il mutamento della politica ebraica del regime nazista coincide con l’occupazione della Polonia e l’invasione dell’Urss nel giugno 1941. A Varsavia, a Lublino, in Galizia, in Bielorussia, in Ucraina, a Riga e a Vilnius i tedeschi trovarono la maggiore concentrazione di ebrei nel mondo: probabilmente, non meno di sei milioni. Cominciarono allora, con la formazione degli Einsatzgruppen (formazioni speciali della Wehrmacht), le prime fucilazioni di massa. Ma agli occhi di un regime fanaticamente deciso a «risolvere» la questione ebraica, quel metodo appariva insufficiente. Con fredda determinazione e con metodo burocratico, fu deciso che l’intera popolazione ebraica europea sarebbe stata trasferita in campi, generalmente collocati al di fuori del territorio tedesco, dove gli ebrei «validi» avrebbero lavorato sino all’esaurimento delle loro forze e tutti, prima o dopo, secondo una espressione coniata nel mondo dei lager, sarebbero «passati per il camino». Il metodo e la ripartizione dei compiti fu materia di una riunione che si tenne in una villa delle SS di fronte al lago berlinese di Wannsee il 20 gennaio 1942.
Aggiungo per completezza, caro Todini, che molto probabilmente, se Hitler avesse vinto, gli arabi, nei territori controllati dalla Germania, non sarebbero stati trattati meglio degli ebrei, e il Gran Mufti di Gerusalemme non sarebbe riuscito a impedirlo.

Fra Storia e finzione le ossessioni di Bibi tengono in trappola il popolo israeliano
Lo scrittore David Grossman racconta le ultime prese di posizione del premier: un uomo che “guarda il mondo con occhi apparentemente aperti ma di fatto chiusi”di David Grossman Repubblica 26.10.15
Siamo un paese di sopravvissuti a un’enorme catastrofe, una società che soffre di traumi: per noi è difficile distinguere fra i pericoli concreti e gli echi del passato. Così ci arrendiamo con facilità alle paure
Già da molti anni, dall’inizio del suo percorso verso la carica di primo ministro, eccelle nel mescolare e rimestare i pericoli veri che Israele si trova ad affrontare con gli echi del trauma della Shoah
David Grossman è uno dei principali scrittori israeliani contemporanei: fra i suoi libri più famosi ci sono “Che tu sia per me il coltello” e “Vedi alla voce: amore”. In Italia i suoi libri sono editi da Mondadori
All’improvviso, tutto si è cristallizzato in qualcosa di nuovo e minaccioso: la combinazione dei due fallimenti in cui Netanyahu è incorso nell’ultima settimana. Il primo, un fallimento quasi mostruoso – la questione del mufti e di Hitler – ed il secondo, minore e quasi comico – la storia del binocolo con le lenti tappate, usato nel corso di un sopralluogo alla divisione schierata sul confine di Gaza.
Di colpo, tutto è diventato palpabile: chiunque, in Israele e nel mondo, ha potuto vedere come il modo di osservare di Netanyahu sia rivolto, in fin dei conti, solo e unicamente verso se stesso, dentro di sè.
Chiunque abbia ascoltato il suo discorso su Hitler ed il mufti (in cui di fatto ha “assolto” Hitler dalla colpa di avere “inventato” l’idea della “soluzione finale”, attribuendone l’ispirazione al leader arabo Hadj Amin al-Husseini), ha potuto vedere, con chiarezza, le cose che Netanyahu vede dentro di sé: il meccanismo – quasi automatico – che gli permette di cancellare i fatti, consentendogli di trasformare, con una specie di capovolgimento della coscienza, una situazione di occupazione e repressione in una di persecuzione e vittimizzazione.
Parallelamente, viene rivelato anche il modo in cui sovrappone alla realtà la sua visione vittimistica del mondo: come se lanciasse una rete fitta, ermetica, da cui non c’è via d’uscita né di scampo, nemmeno per se stesso. Ma questa volta, più delle precedenti, risulta anche chiaro fino a che punto noi, cittadini di Israele, siamo intrappolati e annaspiamo in questa rete.
Già da molti anni, dall’inizio del suo percorso verso la carica di primo ministro, Netanyahu eccelle nel mescolare e rimestare i pericoli veri che Israele si trova ad affrontare con gli echi del trauma della Shoah.
Grazie al suo talento, ad una brillante capacità retorica ed una grande forza di convinzione, riesce a intrappolare la maggioranza della società israeliana in un labirinto di echi e di fatti reali. Un labirinto entro cui, apparentemente, egli stesso vive e che questa settimana è stato svelato agli occhi di un mondo sbalordito.
Israele è un paese di sopravvissuti a un’enorme catastrofe, una società che soffre di traumi: quello della storia ebraica, della Shoah e anche delle guerre frequenti. In un certo senso, la maggioranza di noi è impotente di fronte alle sofisticate manipolazioni, del nostro primo ministro.
Anche per noi è molto difficile fare una distinzione razionale fra i pericoli concreti e gli echi del passato che ci rimbombano nelle orecchie. Ci arrendiamo a tali paure con facilità, alle volte persino con entusiasmo. Non c’è da meravigliarsi: sono incise nel nostro DNA collettivo e personale e in maniera del tutto naturale emergono rapidamente in superficie ad ogni minaccia o pericolo. In un batter d’occhio, gli echi del passato ingigantiscono le minacce del presente, e noi ci ritroviamo “laggiù” – anche se i fatti della nostra vita indicano una realtà molto più complessa. Non posso addentrarmi nello studio della psicologia del nostro primo ministro. Non so se faccia tutto ciò da cinico manipolatore, o se invece ci creda e ne sia profondamente convinto.
E’ più che probabile che ciò che è iniziato come manipolazione nel corso degli anni sia diventata una fede. Una manipolazione così ramificata può, alle volte, avvolgere ed intrappolare chi l’ha iniziata.
Con questo, non intendo prendere alla leggera i pericoli che minacciano Israele. Iran, Al Qaeda e Is, Hamas e Hezbollah, i coltelli della terza Intifada, che si sta intensificando, l’odio dei Paesi arabi nei confronti di Israele e l’esplosiva fragilità del Medio Oriente sono tutti fat- ti noti e concreti, che occorre affrontare a occhi aperti.
Ma chi vede solo e soltanto questo, alla fine ne resterà vittima. Chiunque abbia una visione che si sposta, in maniera automatica e ripetitiva, sull’asse che va dall’ “uso della forza” all’ “uso di ancora più forza”, alla fine sarà sconfitto da una forza a sua volta più potente e determinata.
Sul nostro orizzonte si profilano altre possibilità, c’è spazio di manovra e di iniziativa. Ad esempio: una collaborazione contro l’Islam estremista con Paesi che hanno interessi simili ai nostri, come l’Egitto, l’Arabia Saudita e la Giordania. Oppure un cambiamento dei nostri rapporti con i palestinesi per mezzo di una ripresa delle trattative, e questa volta con l’intenzione vera di arrivare ad un accordo (di cui quasi tutti i punti sono noti ad ogni israeliano o palestinese dotato di buon senso). Una mossa di questo genere porterebbe ad un miglioramento immediato anche sull’altro fronte, che sta crollando: quello dello status di Israele nel mondo.
Ma il meccanismo psicologico e mentale svelatosi ai nostri occhi in quell’affermazione di Netanyahu sul mufti e Hitler ci dice nel modo più semplice e spaventoso che la politica del governo di Israele, il suo carattere ed il suo futuro vengono formulati e stabiliti in questo istante, più che in ogni altro luogo, nello spazio ristretto ed ermeticamente chiuso fra l’uomo Benjamin Netanyahu e le lenti coperte e sigillate del suo binocolo.
Lì siamo intrappolati, lì si stabilisce il nostro futuro, e lì veniamo condotti, ad occhi apparentemente aperti, ma di fatto chiusi. (traduzione di Alessandra Shomroni) 

Nessun commento: