Repubblica 21 10 2015
Hitler vivo dopo il 1945? Indizi per riaprire il caso
Hitler e il Gran Mufti: satellite, non alleato
risponde Sergio Romano Corriere 25.10.15
Che cosa pensa delle dichiarazioni del premier israeliano in merito all’Olocausto, e precisamente che Hitler inizialmente non voleva sterminare gli ebrei ma solo espellerli; successivamente fu, diciamo, istigato dall’allora Gran Mufti di Gerusalemme che non voleva vedere arrivare — come già stava avvenendo — milioni di ebrei in Palestina. Se in questa affermazione possono esserci degli elementi di verità in un contesto distorto, certo è, a mio avviso, che il premier ha voluto fare certe dichiarazioni in chiave anti-palestinese, per rinfocolare l’odio anti-arabo, poiché non vuole in alcun modo la nascita di uno Stato indipendente Arabo a fianco di Israele.
Fabio Todini
Caro Todini,
Hitler si servì del Gran Mufti di Gerusalemme come di ogni nemico della Gran Bretagna. Ma Haj Amin Al-Husseini era soltanto uno dei numerosi satelliti che ruotavano nella galassia tedesca sperando di ottenere, con l’aiuto dei Reich, ciò che non riuscivano a conquistare con le proprie forze. Ma non avrebbe mai permesso che un satellite dettasse la sua politica. Nel discorso di Benjamin Netanyahu al Congresso sionista, tuttavia, esiste una affermazione indiscutibilmente esatta. Agli inizi della campagna anti-ebraica, dopo la conquista del potere, l’obiettivo di Hitler era quello di espellere tutti gli ebrei dal Reich. Li avrebbe esclusi da tutte le professioni liberali, li avrebbe costretti a cedere la proprietà dei loro beni, li avrebbe perseguitati e tormentali in mille modi sino alla partenza. Ma la prospettiva dello sterminio non apparteneva allora alla politica del Reich. Questo spiega, tra l’altro, perché, fino al 1939, vi fossero a Berlino e in altre città tedesche molte associazioni che assistevano pubblicamente gli ebrei nei preparativi per la partenza. Ho scritto «fino al 1939», perché dopo l’inizio della guerra il permesso di partire venne generalmente negato a chi voleva emigrare verso Paesi attualmente o potenzialmente nemici.
Il mutamento della politica ebraica del regime nazista coincide con l’occupazione della Polonia e l’invasione dell’Urss nel giugno 1941. A Varsavia, a Lublino, in Galizia, in Bielorussia, in Ucraina, a Riga e a Vilnius i tedeschi trovarono la maggiore concentrazione di ebrei nel mondo: probabilmente, non meno di sei milioni. Cominciarono allora, con la formazione degli Einsatzgruppen (formazioni speciali della Wehrmacht), le prime fucilazioni di massa. Ma agli occhi di un regime fanaticamente deciso a «risolvere» la questione ebraica, quel metodo appariva insufficiente. Con fredda determinazione e con metodo burocratico, fu deciso che l’intera popolazione ebraica europea sarebbe stata trasferita in campi, generalmente collocati al di fuori del territorio tedesco, dove gli ebrei «validi» avrebbero lavorato sino all’esaurimento delle loro forze e tutti, prima o dopo, secondo una espressione coniata nel mondo dei lager, sarebbero «passati per il camino». Il metodo e la ripartizione dei compiti fu materia di una riunione che si tenne in una villa delle SS di fronte al lago berlinese di Wannsee il 20 gennaio 1942.
Aggiungo per completezza, caro Todini, che molto probabilmente, se Hitler avesse vinto, gli arabi, nei territori controllati dalla Germania, non sarebbero stati trattati meglio degli ebrei, e il Gran Mufti di Gerusalemme non sarebbe riuscito a impedirlo.
Fra Storia e finzione le ossessioni di Bibi tengono in trappola il popolo israeliano
Lo scrittore David Grossman racconta le ultime prese di posizione del premier: un uomo che “guarda il mondo con occhi apparentemente aperti ma di fatto chiusi”di David Grossman Repubblica 26.10.15
Siamo un paese di sopravvissuti a un’enorme catastrofe, una società che soffre di traumi: per noi è difficile distinguere fra i pericoli concreti e gli echi del passato. Così ci arrendiamo con facilità alle paure
Già da molti anni, dall’inizio del suo percorso verso la carica di primo ministro, eccelle nel mescolare e rimestare i pericoli veri che Israele si trova ad affrontare con gli echi del trauma della Shoah
David Grossman è uno dei principali scrittori israeliani contemporanei: fra i suoi libri più famosi ci sono “Che tu sia per me il coltello” e “Vedi alla voce: amore”. In Italia i suoi libri sono editi da Mondadori
All’improvviso, tutto si è cristallizzato in qualcosa di nuovo e minaccioso: la combinazione dei due fallimenti in cui Netanyahu è incorso nell’ultima settimana. Il primo, un fallimento quasi mostruoso – la questione del mufti e di Hitler – ed il secondo, minore e quasi comico – la storia del binocolo con le lenti tappate, usato nel corso di un sopralluogo alla divisione schierata sul confine di Gaza.
Di colpo, tutto è diventato palpabile: chiunque, in Israele e nel mondo, ha potuto vedere come il modo di osservare di Netanyahu sia rivolto, in fin dei conti, solo e unicamente verso se stesso, dentro di sè.
Chiunque abbia ascoltato il suo discorso su Hitler ed il mufti (in cui di fatto ha “assolto” Hitler dalla colpa di avere “inventato” l’idea della “soluzione finale”, attribuendone l’ispirazione al leader arabo Hadj Amin al-Husseini), ha potuto vedere, con chiarezza, le cose che Netanyahu vede dentro di sé: il meccanismo – quasi automatico – che gli permette di cancellare i fatti, consentendogli di trasformare, con una specie di capovolgimento della coscienza, una situazione di occupazione e repressione in una di persecuzione e vittimizzazione.
Parallelamente, viene rivelato anche il modo in cui sovrappone alla realtà la sua visione vittimistica del mondo: come se lanciasse una rete fitta, ermetica, da cui non c’è via d’uscita né di scampo, nemmeno per se stesso. Ma questa volta, più delle precedenti, risulta anche chiaro fino a che punto noi, cittadini di Israele, siamo intrappolati e annaspiamo in questa rete.
Già da molti anni, dall’inizio del suo percorso verso la carica di primo ministro, Netanyahu eccelle nel mescolare e rimestare i pericoli veri che Israele si trova ad affrontare con gli echi del trauma della Shoah.
Grazie al suo talento, ad una brillante capacità retorica ed una grande forza di convinzione, riesce a intrappolare la maggioranza della società israeliana in un labirinto di echi e di fatti reali. Un labirinto entro cui, apparentemente, egli stesso vive e che questa settimana è stato svelato agli occhi di un mondo sbalordito.
Israele è un paese di sopravvissuti a un’enorme catastrofe, una società che soffre di traumi: quello della storia ebraica, della Shoah e anche delle guerre frequenti. In un certo senso, la maggioranza di noi è impotente di fronte alle sofisticate manipolazioni, del nostro primo ministro.
Anche per noi è molto difficile fare una distinzione razionale fra i pericoli concreti e gli echi del passato che ci rimbombano nelle orecchie. Ci arrendiamo a tali paure con facilità, alle volte persino con entusiasmo. Non c’è da meravigliarsi: sono incise nel nostro DNA collettivo e personale e in maniera del tutto naturale emergono rapidamente in superficie ad ogni minaccia o pericolo. In un batter d’occhio, gli echi del passato ingigantiscono le minacce del presente, e noi ci ritroviamo “laggiù” – anche se i fatti della nostra vita indicano una realtà molto più complessa. Non posso addentrarmi nello studio della psicologia del nostro primo ministro. Non so se faccia tutto ciò da cinico manipolatore, o se invece ci creda e ne sia profondamente convinto.
E’ più che probabile che ciò che è iniziato come manipolazione nel corso degli anni sia diventata una fede. Una manipolazione così ramificata può, alle volte, avvolgere ed intrappolare chi l’ha iniziata.
Con questo, non intendo prendere alla leggera i pericoli che minacciano Israele. Iran, Al Qaeda e Is, Hamas e Hezbollah, i coltelli della terza Intifada, che si sta intensificando, l’odio dei Paesi arabi nei confronti di Israele e l’esplosiva fragilità del Medio Oriente sono tutti fat- ti noti e concreti, che occorre affrontare a occhi aperti.
Ma chi vede solo e soltanto questo, alla fine ne resterà vittima. Chiunque abbia una visione che si sposta, in maniera automatica e ripetitiva, sull’asse che va dall’ “uso della forza” all’ “uso di ancora più forza”, alla fine sarà sconfitto da una forza a sua volta più potente e determinata.
Sul nostro orizzonte si profilano altre possibilità, c’è spazio di manovra e di iniziativa. Ad esempio: una collaborazione contro l’Islam estremista con Paesi che hanno interessi simili ai nostri, come l’Egitto, l’Arabia Saudita e la Giordania. Oppure un cambiamento dei nostri rapporti con i palestinesi per mezzo di una ripresa delle trattative, e questa volta con l’intenzione vera di arrivare ad un accordo (di cui quasi tutti i punti sono noti ad ogni israeliano o palestinese dotato di buon senso). Una mossa di questo genere porterebbe ad un miglioramento immediato anche sull’altro fronte, che sta crollando: quello dello status di Israele nel mondo.
Ma il meccanismo psicologico e mentale svelatosi ai nostri occhi in quell’affermazione di Netanyahu sul mufti e Hitler ci dice nel modo più semplice e spaventoso che la politica del governo di Israele, il suo carattere ed il suo futuro vengono formulati e stabiliti in questo istante, più che in ogni altro luogo, nello spazio ristretto ed ermeticamente chiuso fra l’uomo Benjamin Netanyahu e le lenti coperte e sigillate del suo binocolo.
Lì siamo intrappolati, lì si stabilisce il nostro futuro, e lì veniamo condotti, ad occhi apparentemente aperti, ma di fatto chiusi. (traduzione di Alessandra Shomroni)
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