L’IMPERO DELL’ENIGMA
L’appuntamento A Bologna una mostra con i reperti del Museo Archeologico felsineo e di quello di Leiden testimonia la seduzione esoterica che ha sempre esercitato nell’Occidente il mondo dei faraoni. Tra alta magia e facile incanto, come dimostrano certi
17 ott 2015 Corriere della Sera di Viviano Domenici © RIPRODUZIONE RISERVATA
Da sempre l’Antico Egitto è perseguitato da un maleficio che cerca di oscurarne le vere meraviglie, ammantandole con un appiccicoso velo di mistero a tutti costi per cui niente è come è, ed esiste solo il mistero; un vecchio trucco da imbonitori sempre spendibile sul mercato dell’irrazionale avido di civiltà superiori, alieni civilizzatori e altri improbabili segreti. In sostanza, cianfrusaglie senza costrutto, ma con padri nobili e una storia tutt’altro che trascurabile che val la pena ripercorrere. Amadeus, l’Egitto e la massoneria Un riferimento all’occhio massonico, simbolo di origine egizia, in una scena del «Flauto magico» di W.A. Mozart, rappresentato alla Scala di Milano nel 2011 con regia di William Kentridge
Ufficialmente tutto cominciò con Erodoto. Vengo ora dall’Egitto — scrisse più o meno lo storico — dove ho visto cose che voi greci non potete nemmeno immaginare, e così tante e strane che è impossibile descriverle. Detto questo, raccontò il Paese dei faraoni come un mondo alla rovescia dove gli uomini stavano in casa e le donne andavano in giro, dove le stesse orinavano in piedi mentre maschi lo facevano accovacciati (sic) e così via.
Stravaganze di un popolo che scriveva allineando enigmatiche figurine, costruiva tombe alte come montagne accumulando macigni per farne piramidi, e parlava di origini talmente lontane da sconcertare tanti creduloni; ma non lo storico Diodoro siculo, a cui i sacerdoti egizi — veri specialisti del marketing del mistero — dissero che la loro civiltà era iniziata 23 mila anni prima. Lui non ci credette, ma riportò l’informazione e l’Egitto divenne rapidamente la terra senza tempo dove misteri e oscure maledizioni erano di casa.
A quel punto gli ingredienti dell’egittomania c’erano già tutti e la sua marcia alla conquista del mondo poteva cominciare. I primi a esserne travolti furono i romani, che piantarono una quantità di obelischi nelle più belle piazze dell’Urbe e costruirono facsimili di piramidi per tutti quelli che volevano andare all’altro mondo all’egiziana; ma poi le smantellarono per ricavarne pietre — il grande Raffaello protestò inutilmente —, come capitò alle due che avevano costruito dove ora sono le chiese gemelle in piazza del Popolo. Oggi solo quella di Caio Cestio è rimasta a testimonianza di tanti entusiasmi, quando Iside faceva proseliti e persino Giove s’adeguò ai tempi indossando le corna d’ariete del suo corrispettivo egiziano Amon; così fu adorato come Giove Ammone.
Tra i grandi sponsor l’egittomania ebbe l’imperatore Adriano, che si fece costruire il suo Egitto personale nella villa di Tivoli e mise il gonnellino all’egiziana anche alle statue del suo amante Antinoo, travestendolo così da dio egizio. Dal canto loro i patrizi decorarono le loro magioni con mosaici a soggetto nilotico con ippopotami e coccodrilli a bagno tra i papiri; la plebe invece s’accontentava di scarabei magici e altrettanti inutili amuleti che sedicenti maghi spacciavano a prezzi di saldo. Il Medioevo portò in Europa reliquie di tutti i tipi e la polvere di mummie egizie, carica di miracolose quanto misteriose virtù terapeutiche, divenne la panacea per tutti i mali. All’affacciarsi del Rinascimento, un oscuro manoscritto ellenistico attribuito a un certo Ermete Trismegisto, sapiente egiziano mai esistito, convinse tanti che l’Egitto era il deposito di tutti i misteri e la fonte della saggezza universale.
Così i dotti si misero a studiare ermetismi e simboli producendo interpretazioni dei geroglifici di rara fantasia e totale inutilità. Più concretamente, prìncipi e papi continuarono a collezionare statue egizie e obelischi per abbellire Roma, tanto che Sisto V ne fece alzare uno proprio in piazza San Pietro, dov’è tutt’ora, concedendo laute indulgenze a chi recitava un Pater Noster e un’Ave Maria davanti a quell’aguglia egizia e pagana.
Ma il grande territorio di conquista dell’egittomania fu il Settecento, che affastellò piramidi e simboli egizi nelle logge massoniche frequentate da personaggi come il conte Cagliostro, Giacomo Casanova e il grande Mozart, mentre tutto l’Illuminismo celebrava il culto del dio egizio Osiride come simbolo della Ragione Universale; nella Francia rivoluzionaria una statua della dea Iside fu sistemata come simbolo della Rigenerazione proprio in piazza della Bastiglia. Poi intervennero i savants di Napoleone e riscoprirono l’antico Egitto (quello vero) che, travisato alla paesana, s’arrampicò sulle facciate dei palazzi, modellò mobili e soprammobili, e raccolse trionfi col Nabucco e l’Aida. Oggi i misteri d’Egitto sopravvivono nell’occhiuta piramide stampata sul dollaro americano e— a casa nostra — in certe inguardabili trasmissioni televisive. Vere maledizioni dei faraoni.
Pitture, rilievi e sarcofagi Il ponte d’arte con l’Olanda
Unite due grandi collezioni con uno spirito comune La collaborazione Dal periodo predinastico all’epoca romana. L’alleanza tra i due musei evidente nella ricomposizione dei frammenti della tomba di Horemheb
17 ott 2015 Corriere della Sera Di Andrea Rinaldi © RIPRODUZIONE RISERVATA
Dopo La ragazza con l’orecchino di perla, un altro «filo» tra arte e
storia unisce Bologna ai Paesi Bassi. O, meglio, un «tassello», come
quelli che, messi eccezionalmente assieme dal Museo Civico Archeologico
bolognese e da quello olandese di Leiden, restituiranno a chi capita
sotto le Due Torri il grande puzzle dell’epoca dei faraoni.
Egitto. Splendore millenario mette infatti assieme 500 reperti che vanno
dal periodo predinastico all’epoca romana lungo un percorso di quasi
1.700 metri quadri e suddiviso in ben sette sezioni. Ritrovamenti che
sono giunti appositamente da Leiden, ma anche dal Museo Egizio di Torino
e dall’Archeologico di Firenze. Si potrà ammirare la Stele in calcare
di Aku (XII-XIII Dinastia, 19761648 a.C.), il «maggiordomo della divina
offerta» che illustrava già allora un mondo diviso tra cielo, terra e
regno dei morti; oppure le cinture e i pettorali dorati, figurati a
fiore di loto (1479-1425 a.C), donati in persona dal faraone Thutmose
III al comandante Djehuty, dopo che ebbe conquistato il vicino Oriente
con le sue truppe; o un vaso del periodo Naqada che ci restituisce con i
suoi dipinti un Egitto rigoglioso.
E poi monili, ami da pesca, coltelli in selce, sarcofaghi, rilievi con
prigionieri nubiani, pitture lignee che coprivano il volto delle mummie e
addirittura un manico di specchio in legno e avorio, a testimonianza di
quanto fosse evoluto il popolo della valle del Nilo. Ma è nella sezione
«La necropoli di Saqqara nel Nuovo Regno» che Bologna e Leiden
metteranno veramente in comune i loro tasselli: qui verranno ricongiunti
i più importanti rilievi di Horemheb, altro generale al servizio di
Tutankhamon nonché ultimo sovrano della diciottesima
dinastia, i cui esponenti fecero proprio di Menfi, città vicina a Saqqara, il fulcro delle loro guerre d’espansione.
È con questa stanza che si cementa la collaborazione innescata
cinque anni fa tra i due musei nell’ambito degli scavi nella necropoli
egizia. Per esempio dall’Olanda, per la prima volta, arriveranno le
statue di Maya, custode del tesoro reale di Tutankhamon, e Meryt,
cantrice di Amon, (XVIII dinastia, 1333-1292 a.C.). «Noi possediamo
cinque frammenti parietali e gli olandesi qualcuno in più, uniti ad
altri di Firenze vanno a ridisegnare la corte interna della tomba di
Horemheb, ricomponendo la percentuale più alta dei ritrovamenti avvenuti
in quella spedizione», spiega Daniela Picchi, che con la direttrice
dell’ente bolognese Paola Giovetti ha curato la mostra, a sua volta
prodotta da Comune di Bologna e Arthemisia Group. Il tandem
petroniano-olandese «continuerà in un altro riavvicinamento, quello
della scultura del funzionario Hormin, guardiano dell’harem del sovrano
Sety I, detenuta da Leiden, con un nostro rilievo proveniente dalla sua
tomba e quello del cofanetto portatessuti del dignitario Terpaupi con un
suo sgabello conservato in Olanda». «La raccolta olandese è molto in
sintonia con quella di Bologna — ricorda Paola Giovetti — sia per la
storia della loro formazione, legata al collezionismo ottocentesco, sia
per la varietà degli scavi mirati da parte degli stranieri in Egitto».
A guardare la loro origine, i due musei ritrovano un altro
denominatore comune. «Sono entrambi collezioni che iniziano tra 1500 e
1600 e che torneranno a toccarsi a fine 800 — sottolinea Picchi —
Pelagio Pelagi cedette al museo petroniano i suoi 100 reperti raccolti
tra 1824 e 1845. In quegli anni il suo referente era Giuseppe Nizzoli,
cancelliere al consolato d’Austria in Egitto: è da lui che lo storico
acquistò la sua terza collezione.
Curiosamente un altro diplomatico, Giovanni D’Anastasi, console
svedese, vendette la sua terza collezione, la più prestigiosa, proprio
al Museo di Leiden nel 1828. Come vede c’era accanita competizione nella
ricerca delle antichità». Concorrenza deposta a quasi due secoli di
distanza per diventare per nove mesi uno dei maggiori centri
dell’archeologia menfita.
Cinquecento opere (anche con i prestiti di Torino e Firenze)
17 ott 2015 Corriere della Sera
Fino al 17 luglio 2016 al Museo Civico Archeologico di Bologna, Egitto. Splendore Millenario. La mostra,
con il Patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e
del Turismo, è prodotta da Comune di Bologna - Istituzione Bologna
Musei, Museo Civico Archeologico e da Arthemisia Group e curata da Paola
Giovetti, responsabile del Museo e Daniela Picchi, curatore della
sezione egiziana. Sponsor della mostra: Generali Italia; special
partner: Ricola; partner dell’iniziativa Trenitalia. Sponsor tecnico:
UNA Hotels & Resorts. Eento consigliato da Sky Arte HD. Catalogo
Skira. Più di 500 opere per raccontare quattro millenni di storia
egiziana. Orari: martedì-giovedì 9-18.30; venerdì 9-22; sabato, domenica
e festivi 10-18.30. Informazioni e prenotazioni: tel. +39 051 0301043
(lunedìvenerdì, 10-17). La mostra ospiterà prestiti del Museo Egizio di
Torino e dell’Egizio di Firenze. Siti: www.mostraegitto.it;
www.museibologna.it.
Maya e Meryt, gli Underwood dell’antichitàLe statue della potente coppia al servizio dei sovrani. Come Frank e Claire in «House of Cards»17 ott 2015 Corriere della Sera di Irene Soave © RIPRODUZIONE RISERVATA
Chi conosce la serie tv «House of Cards» non avrà difficoltà a
immaginarseli come il Frank e la Claire Underwood della prima stagione:
lui deputato ambizioso al Congresso degli Stati Uniti, lei sacerdotessa
del no profit che conta, entrambi innamorati dell’altro appena più che
del potere, e comunque inseparabili.
Inseparabili
La statua doppia che raffigura Meryt (in primo piano) e Maya (alla sua
sinistra): insieme a due statue singole della coppia, è stata rinvenuta
nel 1986 nella loro tomba a Saqqara
Inseparabili, lo scriba Maya e la cantrice Meryt lo sono da 3.300 anni:
vissuti all’alba del Nuovo Regno, tra il regno di Akhenaton (1352-1336
A.C.) e quello di Horemheb (1319-1292 A. C.) e tumulati insieme in una
tomba più sontuosa e raffinata di quella di Tutankhamon, sono arrivati
ai giorni nostri in forma di statue alte due metri (la dimensione era un
segno di deferenza verso il defunto) più una statua doppia, portati nel
1829 dalla missione del console olandese Giovanni Anastasi e da allora
patrimonio del Museo di Antichità di Leiden, che oggi li ha prestati al
Museo Civico Archeologico di Bologna per la mostra Egitto. Splendore
millenario.
Il primo a riferire della loro tomba fu l’archeologo tedesco Karl
Lepsius, in missione nelle necropoli vicino a Menfi per conto del re di
Prussia Federico Guglielmo IV, nel 1824. Però, nei suoi disegni, la
collocò qualche metro più in là di dove realmente era: quando più di un
secolo dopo l’egittologo Geoffrey Martins andò a Saqqara a cercarla, si
imbatté invece nella tomba di Horemheb, l’ultimo faraone della
diciottesima dinastia. Una tomba stupenda, sontuosa; ma mai come quella
di Maya e Meryt, che fu ritrovata nel 1986.
E che oggi (con le sue due cappelle, le sei camere sotterranee a
fregi gialli e neri e la sua profondità di 22 metri, più una corte
esterna e una interna) diremmo faraonica: ma né il tesoriere (e
ministro, e funzionario, e sovrintendente dei lavori delle necropoli)
Maya né la sua amata Meryt, erano faraoni né parenti. I due, però, erano
una vera «power couple»: lui, figlio di un magistrato, iniziò la
scalata come maestro cerimoniere ai funerali dei sovrani, per poi
diventare esattore capo, portatore del vessillo reale e infine
organizzatore delle offerte, carica che ricopriva quando morì; lei,
Meryt, non stava certo un passo indietro, essendo una nota «cantrice»,
cioè una musicista e cantante dalle funzioni para-sacerdotali, nel culto
di Amon, e un’influente presenza a corte, come testimoniano i gioielli
che adornano la sua statua. Meryt indossa una parrucca di treccine,
fissata da una tiara e adornata da un loto sulla nuca; la collana che
porta, un «menat», è un tipo di gioiello che personifica la dea della
fertilità Hathor, così pesante da dover essere retta da un contrappeso
sulle spalle.
E Hathor, dea antichissima del piacere, della gioia, della
fertilità — membro del Pantheon che il Nuovo Regno imminente avrebbe poi
accantonato, in favore del culto monoteistico del Dio-sole Aton — fece
in tempo ad arridere alla coppia di cortigiani. Che ebbero due figlie,
Mayamenti e Tjauenmaya, e insieme formarono un sodalizio influente e
inossidabile.
Si pensa che Maya fosse una sorta di «eminenza grigia» attraverso
più regni: quello di Akhenaton, che vide morire; del figlio Tutankhamon,
che salì al trono giovanissimo e da Maya fu avviato, se non educato,
agli usi del potere; fino a Horemheb, che spostò il centro di potere da
Amarna a Menfi.
E con il potere, la corte: ad Amarna, Maya e Meryt si erano
incontrati e sposati, e avevano avviato la loro carriera di coppia di
potere; a Menfi, arrivati già ricchi e influenti insieme al nuovo
faraone, invecchiarono e morirono (prima lei, si suppone, di lui) per
lasciare il posto a nuovi notabili, nuovi potenti. E a una nuova
dinastia, la diciannovesima: il successore di Horemheb sarebbe stato
Ramesse I, e l’Egitto stava per diventare un impero.
Nessun commento:
Posta un commento