sabato 17 ottobre 2015

I reperti egizi del museo di Leiden in mostra a Bologna


L’IMPERO DELL’ENIGMA 

L’appuntamento A Bologna una mostra con i reperti del Museo Archeologico felsineo e di quello di Leiden testimonia la seduzione esoterica che ha sempre esercitato nell’Occidente il mondo dei faraoni. Tra alta magia e facile incanto, come dimostrano certi 
17 ott 2015  Corriere della Sera di Viviano Domenici © RIPRODUZIONE RISERVATA 
Da sempre l’Antico Egitto è perseguitato da un maleficio che cerca di oscurarne le vere meraviglie, ammantandole con un appiccicoso velo di mistero a tutti costi per cui niente è come è, ed esiste solo il mistero; un vecchio trucco da imbonitori sempre spendibile sul mercato dell’irrazionale avido di civiltà superiori, alieni civilizzatori e altri improbabili segreti. In sostanza, cianfrusaglie senza costrutto, ma con padri nobili e una storia tutt’altro che trascurabile che val la pena ripercorrere. Amadeus, l’Egitto e la massoneria Un riferimento all’occhio massonico, simbolo di origine egizia, in una scena del «Flauto magico» di W.A. Mozart, rappresentato alla Scala di Milano nel 2011 con regia di William Kentridge 

Ufficialmente tutto cominciò con Erodoto. Vengo ora dall’Egitto — scrisse più o meno lo storico — dove ho visto cose che voi greci non potete nemmeno immaginare, e così tante e strane che è impossibile descriverle. Detto questo, raccontò il Paese dei faraoni come un mondo alla rovescia dove gli uomini stavano in casa e le donne andavano in giro, dove le stesse orinavano in piedi mentre maschi lo facevano accovacciati (sic) e così via. 

Stravaganze di un popolo che scriveva allineando enigmatiche figurine, costruiva tombe alte come montagne accumulando macigni per farne piramidi, e parlava di origini talmente lontane da sconcertare tanti creduloni; ma non lo storico Diodoro siculo, a cui i sacerdoti egizi — veri specialisti del marketing del mistero — dissero che la loro civiltà era iniziata 23 mila anni prima. Lui non ci credette, ma riportò l’informazione e l’Egitto divenne rapidamente la terra senza tempo dove misteri e oscure maledizioni erano di casa. 
A quel punto gli ingredienti dell’egittomania c’erano già tutti e la sua marcia alla conquista del mondo poteva cominciare. I primi a esserne travolti furono i romani, che piantarono una quantità di obelischi nelle più belle piazze dell’Urbe e costruirono facsimili di piramidi per tutti quelli che volevano andare all’altro mondo all’egiziana; ma poi le smantellarono per ricavarne pietre — il grande Raffaello protestò inutilmente —, come capitò alle due che avevano costruito dove ora sono le chiese gemelle in piazza del Popolo. Oggi solo quella di Caio Cestio è rimasta a testimonianza di tanti entusiasmi, quando Iside faceva proseliti e persino Giove s’adeguò ai tempi indossando le corna d’ariete del suo corrispettivo egiziano Amon; così fu adorato come Giove Ammone.
Tra i grandi sponsor l’egittomania ebbe l’imperatore Adriano, che si fece costruire il suo Egitto personale nella villa di Tivoli e mise il gonnellino all’egiziana anche alle statue del suo amante Antinoo, travestendolo così da dio egizio. Dal canto loro i patrizi decorarono le loro magioni con mosaici a soggetto nilotico con ippopotami e coccodrilli a bagno tra i papiri; la plebe invece s’accontentava di scarabei magici e altrettanti inutili amuleti che sedicenti maghi spacciavano a prezzi di saldo. Il Medioevo portò in Europa reliquie di tutti i tipi e la polvere di mummie egizie, carica di miracolose quanto misteriose virtù terapeutiche, divenne la panacea per tutti i mali. All’affacciarsi del Rinascimento, un oscuro manoscritto ellenistico attribuito a un certo Ermete Trismegisto, sapiente egiziano mai esistito, convinse tanti che l’Egitto era il deposito di tutti i misteri e la fonte della saggezza universale. 
Così i dotti si misero a studiare ermetismi e simboli producendo interpretazioni dei geroglifici di rara fantasia e totale inutilità. Più concretamente, prìncipi e papi continuarono a collezionare statue egizie e obelischi per abbellire Roma, tanto che Sisto V ne fece alzare uno proprio in piazza San Pietro, dov’è tutt’ora, concedendo laute indulgenze a chi recitava un Pater Noster e un’Ave Maria davanti a quell’aguglia egizia e pagana. 

Ma il grande territorio di conquista dell’egittomania fu il Settecento, che affastellò piramidi e simboli egizi nelle logge massoniche frequentate da personaggi come il conte Cagliostro, Giacomo Casanova e il grande Mozart, mentre tutto l’Illuminismo celebrava il culto del dio egizio Osiride come simbolo della Ragione Universale; nella Francia rivoluzionaria una statua della dea Iside fu sistemata come simbolo della Rigenerazione proprio in piazza della Bastiglia. Poi intervennero i savants di Napoleone e riscoprirono l’antico Egitto (quello vero) che, travisato alla paesana, s’arrampicò sulle facciate dei palazzi, modellò mobili e soprammobili, e raccolse trionfi col Nabucco e l’Aida. Oggi i misteri d’Egitto sopravvivono nell’occhiuta piramide stampata sul dollaro americano e— a casa nostra — in certe inguardabili trasmissioni televisive. Vere maledizioni dei faraoni.


Pitture, rilievi e sarcofagi Il ponte d’arte con l’Olanda

Unite due grandi collezioni con uno spirito comune La collaborazione Dal periodo predinastico all’epoca romana. L’alleanza tra i due musei evidente nella ricomposizione dei frammenti della tomba di Horemheb
17 ott 2015 Corriere della Sera Di Andrea Rinaldi © RIPRODUZIONE RISERVATA
Dopo La ragazza con l’orecchino di perla, un altro «filo» tra arte e storia unisce Bologna ai Paesi Bassi. O, meglio, un «tassello», come quelli che, messi eccezionalmente assieme dal Museo Civico Archeologico bolognese e da quello olandese di Leiden, restituiranno a chi capita sotto le Due Torri il grande puzzle dell’epoca dei faraoni.
Egitto. Splendore millenario mette infatti assieme 500 reperti che vanno dal periodo predinastico all’epoca romana lungo un percorso di quasi 1.700 metri quadri e suddiviso in ben sette sezioni. Ritrovamenti che sono giunti appositamente da Leiden, ma anche dal Museo Egizio di Torino e dall’Archeologico di Firenze. Si potrà ammirare la Stele in calcare di Aku (XII-XIII Dinastia, 19761648 a.C.), il «maggiordomo della divina offerta» che illustrava già allora un mondo diviso tra cielo, terra e regno dei morti; oppure le cinture e i pettorali dorati, figurati a fiore di loto (1479-1425 a.C), donati in persona dal faraone Thutmose III al comandante Djehuty, dopo che ebbe conquistato il vicino Oriente con le sue truppe; o un vaso del periodo Naqada che ci restituisce con i suoi dipinti un Egitto rigoglioso.
E poi monili, ami da pesca, coltelli in selce, sarcofaghi, rilievi con prigionieri nubiani, pitture lignee che coprivano il volto delle mummie e addirittura un manico di specchio in legno e avorio, a testimonianza di quanto fosse evoluto il popolo della valle del Nilo. Ma è nella sezione «La necropoli di Saqqara nel Nuovo Regno» che Bologna e Leiden metteranno veramente in comune i loro tasselli: qui verranno ricongiunti i più importanti rilievi di Horemheb, altro generale al servizio di Tutankhamon nonché ultimo sovrano della diciottesima
dinastia, i cui esponenti fecero proprio di Menfi, città vicina a Saqqara, il fulcro delle loro guerre d’espansione.
È con questa stanza che si cementa la collaborazione innescata cinque anni fa tra i due musei nell’ambito degli scavi nella necropoli egizia. Per esempio dall’Olanda, per la prima volta, arriveranno le statue di Maya, custode del tesoro reale di Tutankhamon, e Meryt, cantrice di Amon, (XVIII dinastia, 1333-1292 a.C.). «Noi possediamo cinque frammenti parietali e gli olandesi qualcuno in più, uniti ad altri di Firenze vanno a ridisegnare la corte interna della tomba di Horemheb, ricomponendo la percentuale più alta dei ritrovamenti avvenuti in quella spedizione», spiega Daniela Picchi, che con la direttrice dell’ente bolognese Paola Giovetti ha curato la mostra, a sua volta prodotta da Comune di Bologna e Arthemisia Group. Il tandem petroniano-olandese «continuerà in un altro riavvicinamento, quello della scultura del funzionario Hormin, guardiano dell’harem del sovrano Sety I, detenuta da Leiden, con un nostro rilievo proveniente dalla sua tomba e quello del cofanetto portatessuti del dignitario Terpaupi con un suo sgabello conservato in Olanda». «La raccolta olandese è molto in sintonia con quella di Bologna — ricorda Paola Giovetti — sia per la storia della loro formazione, legata al collezionismo ottocentesco, sia per la varietà degli scavi mirati da parte degli stranieri in Egitto».
A guardare la loro origine, i due musei ritrovano un altro denominatore comune. «Sono entrambi collezioni che iniziano tra 1500 e 1600 e che torneranno a toccarsi a fine 800 — sottolinea Picchi — Pelagio Pelagi cedette al museo petroniano i suoi 100 reperti raccolti tra 1824 e 1845. In quegli anni il suo referente era Giuseppe Nizzoli, cancelliere al consolato d’Austria in Egitto: è da lui che lo storico acquistò la sua terza collezione.
Curiosamente un altro diplomatico, Giovanni D’Anastasi, console svedese, vendette la sua terza collezione, la più prestigiosa, proprio al Museo di Leiden nel 1828. Come vede c’era accanita competizione nella ricerca delle antichità». Concorrenza deposta a quasi due secoli di distanza per diventare per nove mesi uno dei maggiori centri dell’archeologia menfita.

Cinquecento opere (anche con i prestiti di Torino e Firenze)
17 ott 2015 Corriere della Sera
Fino al 17 luglio 2016 al Museo Civico Archeologico di Bologna, Egitto. Splendore Millenario. La mostra, con il Patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, è prodotta da Comune di Bologna - Istituzione Bologna Musei, Museo Civico Archeologico e da Arthemisia Group e curata da Paola Giovetti, responsabile del Museo e Daniela Picchi, curatore della sezione egiziana. Sponsor della mostra: Generali Italia; special partner: Ricola; partner dell’iniziativa Trenitalia. Sponsor tecnico: UNA Hotels & Resorts. Eento consigliato da Sky Arte HD. Catalogo Skira. Più di 500 opere per raccontare quattro millenni di storia egiziana. Orari: martedì-giovedì 9-18.30; venerdì 9-22; sabato, domenica e festivi 10-18.30. Informazioni e prenotazioni: tel. +39 051 0301043 (lunedìvenerdì, 10-17). La mostra ospiterà prestiti del Museo Egizio di Torino e dell’Egizio di Firenze. Siti: www.mostraegitto.it; www.museibologna.it.      

Maya e Meryt, gli Underwood dell’antichitàLe statue della potente coppia al servizio dei sovrani. Come Frank e Claire in «House of Cards»17 ott 2015 Corriere della Sera di Irene Soave © RIPRODUZIONE RISERVATA
Chi conosce la serie tv «House of Cards» non avrà difficoltà a immaginarseli come il Frank e la Claire Underwood della prima stagione: lui deputato ambizioso al Congresso degli Stati Uniti, lei sacerdotessa del no profit che conta, entrambi innamorati dell’altro appena più che del potere, e comunque inseparabili.
Inseparabili La statua doppia che raffigura Meryt (in primo piano) e Maya (alla sua sinistra): insieme a due statue singole della coppia, è stata rinvenuta nel 1986 nella loro tomba a Saqqara Inseparabili, lo scriba Maya e la cantrice Meryt lo sono da 3.300 anni: vissuti all’alba del Nuovo Regno, tra il regno di Akhenaton (1352-1336 A.C.) e quello di Horemheb (1319-1292 A. C.) e tumulati insieme in una tomba più sontuosa e raffinata di quella di Tutankhamon, sono arrivati ai giorni nostri in forma di statue alte due metri (la dimensione era un segno di deferenza verso il defunto) più una statua doppia, portati nel 1829 dalla missione del console olandese Giovanni Anastasi e da allora patrimonio del Museo di Antichità di Leiden, che oggi li ha prestati al Museo Civico Archeologico di Bologna per la mostra Egitto. Splendore millenario.
Il primo a riferire della loro tomba fu l’archeologo tedesco Karl Lepsius, in missione nelle necropoli vicino a Menfi per conto del re di Prussia Federico Guglielmo IV, nel 1824. Però, nei suoi disegni, la collocò qualche metro più in là di dove realmente era: quando più di un secolo dopo l’egittologo Geoffrey Martins andò a Saqqara a cercarla, si imbatté invece nella tomba di Horemheb, l’ultimo faraone della diciottesima dinastia. Una tomba stupenda, sontuosa; ma mai come quella di Maya e Meryt, che fu ritrovata nel 1986.
E che oggi (con le sue due cappelle, le sei camere sotterranee a fregi gialli e neri e la sua profondità di 22 metri, più una corte esterna e una interna) diremmo faraonica: ma né il tesoriere (e ministro, e funzionario, e sovrintendente dei lavori delle necropoli) Maya né la sua amata Meryt, erano faraoni né parenti. I due, però, erano una vera «power couple»: lui, figlio di un magistrato, iniziò la scalata come maestro cerimoniere ai funerali dei sovrani, per poi diventare esattore capo, portatore del vessillo reale e infine organizzatore delle offerte, carica che ricopriva quando morì; lei, Meryt, non stava certo un passo indietro, essendo una nota «cantrice», cioè una musicista e cantante dalle funzioni para-sacerdotali, nel culto di Amon, e un’influente presenza a corte, come testimoniano i gioielli che adornano la sua statua. Meryt indossa una parrucca di treccine, fissata da una tiara e adornata da un loto sulla nuca; la collana che porta, un «menat», è un tipo di gioiello che personifica la dea della fertilità Hathor, così pesante da dover essere retta da un contrappeso sulle spalle.
E Hathor, dea antichissima del piacere, della gioia, della fertilità — membro del Pantheon che il Nuovo Regno imminente avrebbe poi accantonato, in favore del culto monoteistico del Dio-sole Aton — fece in tempo ad arridere alla coppia di cortigiani. Che ebbero due figlie, Mayamenti e Tjauenmaya, e insieme formarono un sodalizio influente e inossidabile.
Si pensa che Maya fosse una sorta di «eminenza grigia» attraverso più regni: quello di Akhenaton, che vide morire; del figlio Tutankhamon, che salì al trono giovanissimo e da Maya fu avviato, se non educato, agli usi del potere; fino a Horemheb, che spostò il centro di potere da Amarna a Menfi.
E con il potere, la corte: ad Amarna, Maya e Meryt si erano incontrati e sposati, e avevano avviato la loro carriera di coppia di potere; a Menfi, arrivati già ricchi e influenti insieme al nuovo faraone, invecchiarono e morirono (prima lei, si suppone, di lui) per lasciare il posto a nuovi notabili, nuovi potenti. E a una nuova dinastia, la diciannovesima: il successore di Horemheb sarebbe stato Ramesse I, e l’Egitto stava per diventare un impero.      







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