domenica 4 ottobre 2015

Il Primo Levi di Belpoliti

Marco Belpoliti: Primo Levi. Di fronte e di profilo, Guanda

Risvolto
Frutto di un lavoro ventennale, questo è un libro-universo, e l’universo è quello di Primo Levi, lo scrittore che negli ultimi settant’anni si è imposto come il testimone per eccellenza dello sterminio ebraico: la sua vita tormentata, la sua vicenda di scrittore e intellettuale, ma soprattutto la sua opera sfaccettata, complessa, ricchissima di temi, rimandi e suggestioni. È’ un libro-mosaico, in cui ogni opera di Levi dà il tema a un capitolo; ma oltre alla storia della composizione, della pubblicazione, delle influenze letterarie, l’analisi si muove in profondità nei contenuti, nell’immaginario, nelle passioni e nei molti mondi di Primo Levi: dalla chimica all’antropologia, dalla biologia all’etologia, dai voli spaziali alla linguistica. Se questo è un uomo, l’opera capolavoro che pure inizialmente era stata rifiutata, viene riletta in maniera nuova: si parla di sogni, animali, viaggio; di scrittura letteraria, commedia e tragedia; di vergogna, di memoria, del rapporto con altri scrittori come Kafka e Perec, Améry e Šalamov… Temi come l’ebraismo, il lager, la testimonianza percorrono e innervano tutto il libro, che si arricchisce inoltre di fotografie di grande impatto e di materiale epistolare ritrovato dall’autore in archivi finora non esplorati dagli studiosi. Marco Belpoliti ha scritto il libro definitivo su Primo Levi, un tesoro di storie e riflessioni che compongono un saggio con il respiro di un’opera letteraria multiforme.
     

Nel cuore di Primo Levi per sempre deportatoFra il dovere della testimonianza dopo il lager e la vocazione precedente: quella di scrittoredi Andrea Cortellessa La Stampa TuttoLibri 3.10.15
Se ne sono conservate poche, di foto segnaletiche degli internati ad Auschwitz; all’arrivo dell’Armata Rossa, le SS le bruciarono quasi tutte. Di fronte e di profilo, s’intitola il ritratto di Primo Levi del suo maggior studioso, Marco Belpoliti (un libro imponente, da ora in poi strumento indispensabile per chi appunto studia Levi, ma anche lettura appassionante per ogni suo lettore): come per tradizione, appunto, le foto segnaletiche. Come dire che «Levi resta sempre un deportato», anche dopo la liberazione (lo dice l’incubo su cui si chiude La tregua): sino alla sua tragica fine.All’indomani della morte, scrisse Pietro Chiodi di Beppe Fenoglio che «forse per vivere bisogna dimenticare, ma certamente per capire bisogna ricordare». E davvero Levi mai ha smesso di cercare di capire – senza dunque mai cessare di ricordare: a se stesso e a tutti gli altri. Prigioniero di quella testimonianza cui, per più della sua metà, dovette sacrificare l’esistenza; ma alla quale, secondo alcuni, egli in quanto «salvato» la doveva. Quel dovere «gigantesco», più grande di lui come di chiunque altro, confliggeva però con una sua vocazione preesistente al Lager: quella di scrittore.
A lungo le identità di testimone e di scrittore le avvertì lui per primo come incompatibili. Com’è noto si definiva un «centauro»: italiano ma ebreo, chimico ma letterato. La sua vera ambivalenza era però proprio questa, testimone ma scrittore. Perché (spiega Belpoliti, e aveva indicato un paio d’anni fa Mario Barenghi) necessariamente «lo scrittore manipola la realtà per scrivere, la adatta facendo uso della finzione»: la quale però per Levi era eticamente assimilabile alla menzogna (non a caso la sua unica polemica «letteraria» fu con Giorgio Manganelli, suo antipode speculare). L’esigenza psichica, prima che il dovere etico, della chiarezza si spiega perché «l’oscurità lo insegue continuamente». Levi era ben consapevole che Se questo è un uomo non è affatto un mero documento; anche noi lo capiamo meglio confrontandolo con le sue testimonianze vere e proprie (raccolte da Fabio Levi e Domenico Scarpa, all’inizio di quest’anno, in Così fu Auschwitz). In un suo capitolo-chiave, Belpoliti analizza un brano del Sistema periodico, Vanadio, confrontandolo con le vere lettere che nel 1967 Levi si scambiò col collega chimico della I.G. Farben, la casa produttrice del gas Zyklon B, incontrato ad Auschwitz (e che alla fine della contesa – come Franz Stangl dopo quella con Gitta Sereny, In quelle tenebre – di quella fatica muore).
Un concetto-chiave di quello che è insieme il testamento e il capolavoro di Levi, I sommersi e i salvati, è la «zona grigia»: che separa e insieme congiunge i carnefici e le vittime. Anche lui, in quanto «salvato», temeva di farne parte? In copertina al suo libro Belpoliti ha voluto uno degli inquietanti fotoritratti realizzati da Mario Monge l’anno prima del suicidio, nei quali Levi cela il proprio volto dietro maschere di animali da lui stesso realizzate con fili di rame, scarti di fabbrica che possono ricordare i fili spinati. I suoi testi fantastici, che imbarazzavano lui per primo (al punto che nel ’66 pubblica Storie naturali sotto pseudonimo), avevano a loro volta nel Lager la propria chiave segreta. Una chiave a stella, per dirla con un suo titolo: la stella di Davide cucita sulla giacca. Davvero come dice Belpoliti, e a dispetto delle apparenze, «nulla è semplice in un racconto di Levi».
Di sicuro la sua opera ci mostra una zona grigia, un’ambiguità che percorre ogni testo fondato sul «vero» (e l’ambiguità finì per riconoscerla come un valore, Levi). Il Centauro non fu considerato un «vero» scrittore, a pieno titolo, sino all’inizio degli anni Ottanta; oggi invece nessuno scrittore italiano, forse, è letto quanto lui nel mondo. Oggi, che la non-fiction è divenuta letterariamente egemone, capiamo che non fu un grande scrittore malgrado la sua testimonianza, ma per la sua testimonianza. E lui stesso capì che non era stato un testimone essenziale malgrado il suo talento di scrittore: proprio

per quel talento, in effetti, noi oggi lo leggiamo – e gli crediamo – mentre tanti altri li abbiamo dimenticati. «La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace», aveva scritto. Lo stesso si può dire della letteratura. Fallace, senz’altro; e davvero meravigliosa. 

Primo Levi la biologia è fantasiaAlla scoperta di cosa si nasconde dietro la cultura scientifica dello scrittoreSTEFANO BARTEZZAGHI Repubblica 27 10 2015
Dopo “Se questo è un uomo” (De Silva, 1947; Einaudi, 1958) e “La tregua” (Einaudi, 1963), Primo Levi pubblicò due libri di racconti: “Storie naturali” (Einaudi, 1966) e “Vizio di forma” (Einaudi, 1971). Su suggerimento del suo editore, il primo fu pubblicato con uno pseudonimo, Damiano Malabaila: erano infatti racconti «strani », anomali sia nei confronti della letteratura italiana dell’epoca sia in quelli della produzione precedente di Levi Sulla fascetta editoriale avvolta alla copertina delle “Storie naturali”

era scritto: «Fantascienza?» A indicare un genere meglio appropriato fu un amico e consigliere letterario di Levi, Italo Calvino (che a sua volta nel 1965 aveva firmato Le Cosmicomiche): più che fantascienza, «fantabiologia ». Sono storie di un mondo non dissimile dal nostro, ma in cui è possibile che venga inventato un farmaco capace di agire sulla percezione soggettiva del tempo e, realizzando l’auspicio di Faust, «fermare l’attimo»; o in cui un rappresentante di macchine d’ufficio convinca un poeta ad acquistare «il Versificatore», elaboratore capace di comporre poesie in ogni metro e argomento.
A questo Primo Levi almeno apparentemente lontano da Auschwitz e più vicino alla sua prima professione, quella di chimico, è dedicata la settima delle solenni «Lezioni» organizzate dal Centro Studi Internazionali Primo Levi (29 ottobre, ore 17.30, al Centro Incontri della Regione Piemonte, Torino). Francesco Cassata, che insegna Storia della scienza all’Università di Genova, parlerà di come questa parte meno celebrata dell’opera leviana metta in dialogo letteratura e scienza e in che relazione sia con le opere che di Levi consideriamo maggiori.
Due dei racconti della seconda raccolta, Vizio di forma , appartengono a una sorta di fantabiologia letteraria. Levi immagina che uno scrittore riceva la visita del protagonista di un suo romanzo. Al comprensibile stupore dell’autore che l’ha creato con la sua fantasia, il personaggio risponde che esiste un parco in cui vive una società di personaggi letterari, la cui vita, in tutto simile alla nostra, è alimentata dalla memoria dei lettori. Nel secondo racconto, l’autore stesso dopo la sua morte biologica va a vivere nel parco (aveva scritto un’autobiografia apposta per trasformarsi in personaggio letterario), dove incontrerà i protagonisti della letteratura mondiale, in un ménage quotidiano e di allegra stravaganza. Ofelia, per esempio, si è stufata di Amleto e vive da vent’anni con Sandokan. Nel titolo del primo dei due racconti, l’aggettivo «creativo» era, all’epoca, pressoché anomalo: la moda della creatività era infatti ai suoi primi passi. Molti anni dopo, senza dar mostra di conoscere questo precedente leviano, il critico George Steiner avrebbe detto che se in letteratura c’è creazione non è nell’espressione linguistica, che è sempre una combinatoria di elementi dati (come per il Versificatore immaginato da Levi), ma è proprio nella creazione di personaggi, figure e caratteri che sopravvivono nella memoria dei lettori.
Ai due racconti sul Parco è dedicato, autrice Anna Baldini, il primo dei quattro saggi del volume di critica linguistica Prisma Levi (a cura di Heike Necker). La collana in cui esce è diretta dal linguista Nunzio La Fauci, che firma anche due degli altri saggi (uno come autore, l’altro come coautore). Se Anna Baldini mostra il rapporto ironico e anche rivelatorio che i racconti Lavoro creativo e Nel parco intrattengono con l’attività letteraria dello stesso Levi, gli altri saggi si soffermano su Se questo è un uomo : il primo (di Nunzio La Fauci) è un’analisi linguistica delle ricorrenze della parola «fame»; Liana Tronci parla del variegato uso del presente e infine La Fauci e Tronci affrontano l’uso di pronomi «io» e «noi» nel primo libro di Levi. «Noi è Io alla n», ha postulato una volta Alessandro Bergonzoni. E in effetti l’analisi linguistica mostra la diversità di usi dei pronomi di prima e quarta persona che Levi alterna nel suo libro. Se ne trovano ben tre diversi, in poche righe: «Come diremo, dalla fabbrica di Buna in cui noi soffrimmo e morimmo innumerevoli... ». «Diremo» è un plurale maiestatis, solo formale: è l’io narrante che parla; il Primo Levi «salvato ». Il soggetto di «soffrimmo» è un noi che include sia i salvati sia i sommersi di Auschwitz; quello di «morimmo» include solo i sommersi, fra cui si annovera anche l’io non più narrante ma «esperiente » di Primo Levi. Ecco come le categorie grammaticali, ovvero le strategie di enunciazione dell’autore, configurano il senso del discorso. Introducendo il volume, La Fauci afferma che Levi è diverso da ogni altro testimone della Shoah perché conscio di essere soggetto a un vastissimo esperimento biologico: la riduzione di un’intera popolazione umana a condizioni che umane non sono. Quella che fece del Lager partecipava sia al senso di «esperienza » più vicino all’ Erlebnis tedesco (il «vivere qualcosa») sia a quello più vicino alla sperimentazione scientifica. Il libro in cui ce la trasmise si avvantaggiò della formazione duplice dell’autore («Io sono un Centauro», diceva di sé): giovane chimico di laboratorio e, prima, studente appassionato di letteratura, fornito di vasta strumentazione linguistica.
Proprio la scrittura classica e nitida di Levi, che ne fa un grande maestro di stile, è secondo Marco Belpoliti responsabile del famoso rifiuto editoriale riservato da Einaudi alla prima stesura di Se questo è un uomo (su cui tante sciocchezze maligne si sono profuse): una scrittura lontana dalla temperie neorealista e modernista allora in vigore. Belpoliti ha ripreso il saggio di La Fauci e Tronci sui pronomi nel suo Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda). Il libro è una sorta di enciclopedia leviana e di punto d’arrivo, avanzato per quanto sempre provvisorio, di quella rilettura critica di Levi (spesso, lettura tout court ), che è incominciata negli anni Novanta e che deve molto al lavoro di scrittore e critico di Belpoliti, a partire dalla sua cura delle opere di Primo Levi (Einaudi, 1997), di cui sta preparando una nuova e aumentata edizione (sempre per Einaudi).
Il volume di Guanda riassume e riorganizza in lemmi, capitoli tematici e materiali svariati il ventennio di studi che Belpoliti ha dedicato a Levi, sempre dialogando con critici, storici, filosofi, linguisti, psicologi spesso da lui sollecitati a misurarsi con uno scrittore così noto e ignoto al tempo stesso. Strappato a un ruolo di testimone appartato di una tragedia colossale e restituito alla sua dimensione di scrittore completo e complesso, Levi esce dal libro frastagliato e appassionante di Belpoliti come una figura caleidoscopica: testimone, inventore, tragico, umorista, dantesco, rabelaisiano, scienziato, giocatore, centauro malinconico e allegro, compagno severo e maestro amichevole per i nostri percorsi di lettura, e di pensiero e vita.
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Monografia rizomatica

Gabriele Pedullà Domenicale 29 11 2015

In questo primo scampolo di XXI secolo nessun critico ha influito sui modi in cui si studia la letteratura italiana del Novecento quanto Marco Belpoliti. Per ricorrere a una formula onnicomprensiva, si potrebbe parlare di un “nuovo storicismo”: rifiuto di qualsiasi teleologia (uno degli ingredienti indispensabili del crocio-gramscismo), organizzazione reticolare dei materiali, erudizione quasi maniacale ma sempre al servizio della interpretazione (per portare alla luce le fratture e le connessioni meno prevedibili), gusto delle sincronie e dei cortocircuiti, sensibilità per gli aspetti visivi e figurativi, vocazione narrativa della pagina. Il tutto senza mai cedere alla tentazione, molto americana, di dissolvere la letteratura nella più generica cultura.
L’enorme influenza di Belpoliti si può misurare anzitutto nei libri dei più dotati critici delle generazioni successive alla sua: dove a volte il debito traspare anche da piccoli dettagli, come la scelta di sostituire le note con lunghe bibliografie ragionate per ogni capitolo. Belpoliti non ha però scritto soltanto saggi importanti e, in alcuni casi, già “classici”: è stato un inventore di format saggistici inediti, secondo il principio per cui – una volta esplorato un modello di scrittura – è necessario “biffare la lastra” alla maniera dei pittori. Questo è vero anzitutto in due casi: Settanta (2001), narrazione policentrica di un decennio di letteratura e di storia italiana, dove scrittori e opere si dispongono per coppie oppositive o convergono attorno a un evento particolarmente decisivo (il rapimento di Aldo Moro, il ’77 bolognese…), e Diario dell’occhio, una raccolta di recensioni apparse tra il 1998 e il 2003 e tutte incentrate sul rapporto tra il testo e la copertina (2008).
Questa premessa un po’ lunga è indispensabile per avvicinarsi al nuovo libro di Belpoliti. Con le sue oltre 700 pagine, infatti, Primo Levi di fronte e di profilo si inscrive apparentemente in uno dei più tradizionali generi della critica: la monografia. Eppure, al di là dei tanti meriti (scoperte documentarie, messe a punto bibliografiche, interpretazioni originali, paragoni imprevisti), il volume appare soprattutto una sfida al modo in cui la forma monografia è stata sino a oggi praticata. Quello che Belpoliti ha scritto non è una biografia, non è una analisi delle singole opere disposte in ordine cronologico, non è un album fotografico commentato e non è lemmario (secondo il modello di una collana ideata dallo stesso Belpoliti per Bruno Mondadori una quindicina di anni fa). Allo stesso tempo, però, Primo Levi di fronte e di profilo è ciascuna di queste cose (con opportune variazioni di carattere e/o corpo tipografico a segnalare gli stacchi).
Nell’introduzione Belpoliti stesso parla di «dizionario» ed «enciclopedia» con cui entrare nel «poliedro-Levi». Di queste nobili forme del sapere, però, la monografia di Belpoliti non possiede due dei tratti fondamentali: l’ordinamento alfabetico (tranne che nelle sezioni con i veri e propri lemmi: magnifica quella sugli animali) e la completezza. Nonostante le dimensioni, Primo Levi di fronte e di profilo rimane infatti un libro idiosincratico e molto personale (“di sguincio”), che procede spesso per libere associazioni e che, pur esibendo una conoscenza bibliografica senza paragoni sull’argomento, non esita a evitare il confronto con testi, pure importanti, che l’autore avverte, verosimilmente, poco affini (Quel che resta di Auschwitz di Agamben, La vendetta e il racconto di Mengaldo, Partigia di Luzzatto…).
Riassumendo molto, si potrebbe dire che Belpoliti vira la forma della monografia verso il «dizionario» e «l’enciclopedia», ma che lo fa per aumentare il proprio grado di indipendenza, non per sottomettersi a un nuovo ordine imposto dall’esterno (come sarebbe l’ordinamento alfabetico). E più libero, alla fine, grazie a un indice “modulare” che strizza l’occhio ai mobili componibili e alla anarchica curiosità della rete, sarà anche il lettore. A questo punto resta solo da vedere se – come è successo già in tanti altri casi – l’inedita struttura rizomatica di Primo Levi di fronte e di profilo farà scuola e saprà imporsi come modello.

Il senso di Primo Levi per gli odori 
Dal primo racconto scritto dopo il Lager a uno degli ultimi articoli sullaStampa l’olfatto ha un valore evocativo, come in Proust: essere testimone significa avere naso 
Marco Belpoliti  Busiarda 3 5 2016
Primo Levi aveva naso. Non il naso giudaico di un suo personaggio, Wolf, farmacista di Berlino, protagonista di Il nostro sigillo, produttore di musica per il beneficio degli altri deportati nel Lager. Il naso di Levi era prima di tutto il naso di un chimico, fondamentale per il suo mestiere, come ha spiegato a più riprese in articoli e conversazioni. 
Appena ritornato da Auschwitz e dal lungo viaggio all’Est, rimesso piede a Torino, insieme con la testimonianza dello sterminio scrive un racconto. È il 1946 e la novella s’intitola I mnemagoghi. Un giovane medico, Morandi, prende il posto del vecchio dottore della condotta, Montesanto. Questi lo accoglie nella sua casa e gli mostra un armadio dove sono riposte 50 boccette, che contengono altrettanti odori. Ne apre cinque e le sottopone al suo successore. Vanno dall’odore della sua aula scolastica, che però Morandi identifica con la caserma, a quello di una persona, a cui però l’anziano dottore non dà un nome. Montesanto li chiama «i mnemagoghi» i suscitatori di memorie. 
Fonte di conoscenza
Un po’ come il Proust della Recherche, Levi racconta il potere evocativo che possiede l’odorato, uno dei sensi prossimali, di cui sono dotati gli esseri umani e non solo loro, visto che i mammiferi come gli insetti odorano tutto. Semmai proprio gli umani hanno degradato l’odore da fonte di conoscenza a senso minore, a vantaggio della vista e dell’udito, sensi distali, che colgono appunto le cose poste a distanza. A leggere con attenzione questa novella, che ricorda alcuni racconti ottocenteschi, con quel tanto di senso del mistero che aleggia nella prima produzione narrativa del chimico torinese, si scopre come ci sia una precisa volontà di ricordare, di non dimenticare, che ha nell’odorato un senso fondamentale. 
Fantasmi del passato
Levi respinge in questo testo, che apre il suo primo libro di racconti, Storie naturali (1966), l’oblio. Qualcosa di analogo a quello che fa nel libro che sta scrivendo contemporaneamente a I menmagoghi, ossia Se questo è un uomo. L’odore appartiene ai sensi definiti «della lunga durata», che conservano di più la memoria, ben presenti nella sua opera; si può ben dire che in Levi vi sia una vera e propria antropologia dell’odorato, là dove il tempo scorre secondo un volere personale negando l’assenza, l’oblio, e quindi la morte, rendendo presente il passato, fino a chiamare a raccolta, come nelle boccette dell’armadio di Montesanto, i suoi fantasmi del passato. 
L’odorato ha un valore positivo, come avviene in certe pagine di La strada di Swann, che forse Levi all’epoca non aveva ancora letto, ma che entra nel suo patrimonio genetico. Nel romanzo di Proust l’intero edificio narrativo non solo poggia sul ricordo, ma proprio sull’odorato e sul gusto, sensi strettamente connessi. Ma non c’è solo questa forza evocativa legata ai ricordi. A scorrere le pagine dell’intera opera dell’ex deportato si scopre che esistono ampi paesaggi olfattivi, spesso riferiti a medesimi oggetti odorosi e alle stesse materie: funghi, palude, muffa, fieno, neve; al cibo: rape, aglio, incenso, cannella; e alla chimica, che è una delle fonti olfattive più presenti nelle sue pagine. 
In Se questo è un uomo scrive che l’ultimo ricordo a svanire del Lager sarà la musica dell’orchestrina che suona all’entrata e all’uscita dal campo per andare al lavoro; eppure anche l’odore di Polonia, fatto di carbone bruciato nelle stufe, resterà nella sua memoria come suscitatore di quei ricordi che Levi non vuole passare nel dimenticatoio, o affidare al fiume Lete, bensì rammemorare ancora. Essere testimone significa per lui avere naso. 
Nel 1984, poco prima della sua scomparsa ritorna sul tema con un articolo pubblicato sulla Stampa, «Profumo di donna», poi raccolto in L’altrui mestiere (1986) con il titolo «Il linguaggio degli odori». Qui Levi argomenta l’importanza del naso, mette a confronto l’universo olfattivo del cane (è l’animale più presente nei suoi libri) e quello dell’uomo; spiega come nel suo lavoro sia indispensabile avere naso; spiega come ricordare è odorare e odorare è ricordare. Fa anche una classificazione degli odori, e poi distingue tra gradevoli e sgradevoli; spiega come l’odorato sia condizionato dai modelli culturali e non del tutto innato. In modo semplice, efficace e diretto, come suo solito. 
Questione di «atmosfere»
Ma avere naso di Levi non è solo questo; c’è anche un altro aspetto, che riguarda la sua capacità di cogliere quelle che gli psicologi e gli studiosi di percezione chiamano «atmosfere», cioè le tonalità affettive in senso lato. Uno psichiatra e filosofo, Hubertus Tellenbach, ha spiegato come nell’odore sia custodito il carattere imperituro del passato, che lui chiama, seguendo una lunga tradizione, «atmosfere». Si tratta della capacità di cogliere nelle esperienze sensoriali un «di più» che resta inespresso. Quel «di più» è proprio l’atmosfera. 
Primo Levi scrittore dell’atmosferico? Probabilmente sì. Coglie cose che altri non afferrano perché «ha naso»: nelle situazioni caotiche ritrova un ordine, persino nel Lager; intuisce gli stati d’animo e i caratteri delle persone; ha una grande attenzione ai dettagli, perché ha una grande sensibilità affettiva. Forse bisognerebbe ridisegnare tutte le sue strategie conoscitive di testimone, e non solo, di scrittore, prima di tutto, proprio a partire dal naso, di chimico, di deportato; in una espressione: di un «uomo normale dotato di memoria». Olfattiva, naturalmente.

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