L’enorme influenza di Belpoliti si può misurare anzitutto nei libri dei più dotati critici delle generazioni successive alla sua: dove a volte il debito traspare anche da piccoli dettagli, come la scelta di sostituire le note con lunghe bibliografie ragionate per ogni capitolo. Belpoliti non ha però scritto soltanto saggi importanti e, in alcuni casi, già “classici”: è stato un inventore di format saggistici inediti, secondo il principio per cui – una volta esplorato un modello di scrittura – è necessario “biffare la lastra” alla maniera dei pittori. Questo è vero anzitutto in due casi: Settanta (2001), narrazione policentrica di un decennio di letteratura e di storia italiana, dove scrittori e opere si dispongono per coppie oppositive o convergono attorno a un evento particolarmente decisivo (il rapimento di Aldo Moro, il ’77 bolognese…), e Diario dell’occhio, una raccolta di recensioni apparse tra il 1998 e il 2003 e tutte incentrate sul rapporto tra il testo e la copertina (2008).
Questa premessa un po’ lunga è indispensabile per avvicinarsi al nuovo libro di Belpoliti. Con le sue oltre 700 pagine, infatti, Primo Levi di fronte e di profilo si inscrive apparentemente in uno dei più tradizionali generi della critica: la monografia. Eppure, al di là dei tanti meriti (scoperte documentarie, messe a punto bibliografiche, interpretazioni originali, paragoni imprevisti), il volume appare soprattutto una sfida al modo in cui la forma monografia è stata sino a oggi praticata. Quello che Belpoliti ha scritto non è una biografia, non è una analisi delle singole opere disposte in ordine cronologico, non è un album fotografico commentato e non è lemmario (secondo il modello di una collana ideata dallo stesso Belpoliti per Bruno Mondadori una quindicina di anni fa). Allo stesso tempo, però, Primo Levi di fronte e di profilo è ciascuna di queste cose (con opportune variazioni di carattere e/o corpo tipografico a segnalare gli stacchi).
Nell’introduzione Belpoliti stesso parla di «dizionario» ed «enciclopedia» con cui entrare nel «poliedro-Levi». Di queste nobili forme del sapere, però, la monografia di Belpoliti non possiede due dei tratti fondamentali: l’ordinamento alfabetico (tranne che nelle sezioni con i veri e propri lemmi: magnifica quella sugli animali) e la completezza. Nonostante le dimensioni, Primo Levi di fronte e di profilo rimane infatti un libro idiosincratico e molto personale (“di sguincio”), che procede spesso per libere associazioni e che, pur esibendo una conoscenza bibliografica senza paragoni sull’argomento, non esita a evitare il confronto con testi, pure importanti, che l’autore avverte, verosimilmente, poco affini (Quel che resta di Auschwitz di Agamben, La vendetta e il racconto di Mengaldo, Partigia di Luzzatto…).
Riassumendo molto, si potrebbe dire che Belpoliti vira la forma della monografia verso il «dizionario» e «l’enciclopedia», ma che lo fa per aumentare il proprio grado di indipendenza, non per sottomettersi a un nuovo ordine imposto dall’esterno (come sarebbe l’ordinamento alfabetico). E più libero, alla fine, grazie a un indice “modulare” che strizza l’occhio ai mobili componibili e alla anarchica curiosità della rete, sarà anche il lettore. A questo punto resta solo da vedere se – come è successo già in tanti altri casi – l’inedita struttura rizomatica di Primo Levi di fronte e di profilo farà scuola e saprà imporsi come modello.
Il senso di Primo Levi per gli odori
Dal primo racconto scritto dopo il Lager a uno degli ultimi articoli sullaStampa l’olfatto ha un valore evocativo, come in Proust: essere testimone significa avere naso
Marco Belpoliti Busiarda 3 5 2016
Primo Levi aveva naso. Non il naso giudaico di un suo personaggio, Wolf, farmacista di Berlino, protagonista di Il nostro sigillo, produttore di musica per il beneficio degli altri deportati nel Lager. Il naso di Levi era prima di tutto il naso di un chimico, fondamentale per il suo mestiere, come ha spiegato a più riprese in articoli e conversazioni.
Appena ritornato da Auschwitz e dal lungo viaggio all’Est, rimesso piede a Torino, insieme con la testimonianza dello sterminio scrive un racconto. È il 1946 e la novella s’intitola I mnemagoghi. Un giovane medico, Morandi, prende il posto del vecchio dottore della condotta, Montesanto. Questi lo accoglie nella sua casa e gli mostra un armadio dove sono riposte 50 boccette, che contengono altrettanti odori. Ne apre cinque e le sottopone al suo successore. Vanno dall’odore della sua aula scolastica, che però Morandi identifica con la caserma, a quello di una persona, a cui però l’anziano dottore non dà un nome. Montesanto li chiama «i mnemagoghi» i suscitatori di memorie.
Fonte di conoscenza
Un po’ come il Proust della Recherche, Levi racconta il potere evocativo che possiede l’odorato, uno dei sensi prossimali, di cui sono dotati gli esseri umani e non solo loro, visto che i mammiferi come gli insetti odorano tutto. Semmai proprio gli umani hanno degradato l’odore da fonte di conoscenza a senso minore, a vantaggio della vista e dell’udito, sensi distali, che colgono appunto le cose poste a distanza. A leggere con attenzione questa novella, che ricorda alcuni racconti ottocenteschi, con quel tanto di senso del mistero che aleggia nella prima produzione narrativa del chimico torinese, si scopre come ci sia una precisa volontà di ricordare, di non dimenticare, che ha nell’odorato un senso fondamentale.
Fantasmi del passato
Levi respinge in questo testo, che apre il suo primo libro di racconti, Storie naturali (1966), l’oblio. Qualcosa di analogo a quello che fa nel libro che sta scrivendo contemporaneamente a I menmagoghi, ossia Se questo è un uomo. L’odore appartiene ai sensi definiti «della lunga durata», che conservano di più la memoria, ben presenti nella sua opera; si può ben dire che in Levi vi sia una vera e propria antropologia dell’odorato, là dove il tempo scorre secondo un volere personale negando l’assenza, l’oblio, e quindi la morte, rendendo presente il passato, fino a chiamare a raccolta, come nelle boccette dell’armadio di Montesanto, i suoi fantasmi del passato.
L’odorato ha un valore positivo, come avviene in certe pagine di La strada di Swann, che forse Levi all’epoca non aveva ancora letto, ma che entra nel suo patrimonio genetico. Nel romanzo di Proust l’intero edificio narrativo non solo poggia sul ricordo, ma proprio sull’odorato e sul gusto, sensi strettamente connessi. Ma non c’è solo questa forza evocativa legata ai ricordi. A scorrere le pagine dell’intera opera dell’ex deportato si scopre che esistono ampi paesaggi olfattivi, spesso riferiti a medesimi oggetti odorosi e alle stesse materie: funghi, palude, muffa, fieno, neve; al cibo: rape, aglio, incenso, cannella; e alla chimica, che è una delle fonti olfattive più presenti nelle sue pagine.
In Se questo è un uomo scrive che l’ultimo ricordo a svanire del Lager sarà la musica dell’orchestrina che suona all’entrata e all’uscita dal campo per andare al lavoro; eppure anche l’odore di Polonia, fatto di carbone bruciato nelle stufe, resterà nella sua memoria come suscitatore di quei ricordi che Levi non vuole passare nel dimenticatoio, o affidare al fiume Lete, bensì rammemorare ancora. Essere testimone significa per lui avere naso.
Nel 1984, poco prima della sua scomparsa ritorna sul tema con un articolo pubblicato sulla Stampa, «Profumo di donna», poi raccolto in L’altrui mestiere (1986) con il titolo «Il linguaggio degli odori». Qui Levi argomenta l’importanza del naso, mette a confronto l’universo olfattivo del cane (è l’animale più presente nei suoi libri) e quello dell’uomo; spiega come nel suo lavoro sia indispensabile avere naso; spiega come ricordare è odorare e odorare è ricordare. Fa anche una classificazione degli odori, e poi distingue tra gradevoli e sgradevoli; spiega come l’odorato sia condizionato dai modelli culturali e non del tutto innato. In modo semplice, efficace e diretto, come suo solito.
Questione di «atmosfere»
Ma avere naso di Levi non è solo questo; c’è anche un altro aspetto, che riguarda la sua capacità di cogliere quelle che gli psicologi e gli studiosi di percezione chiamano «atmosfere», cioè le tonalità affettive in senso lato. Uno psichiatra e filosofo, Hubertus Tellenbach, ha spiegato come nell’odore sia custodito il carattere imperituro del passato, che lui chiama, seguendo una lunga tradizione, «atmosfere». Si tratta della capacità di cogliere nelle esperienze sensoriali un «di più» che resta inespresso. Quel «di più» è proprio l’atmosfera.
Primo Levi scrittore dell’atmosferico? Probabilmente sì. Coglie cose che altri non afferrano perché «ha naso»: nelle situazioni caotiche ritrova un ordine, persino nel Lager; intuisce gli stati d’animo e i caratteri delle persone; ha una grande attenzione ai dettagli, perché ha una grande sensibilità affettiva. Forse bisognerebbe ridisegnare tutte le sue strategie conoscitive di testimone, e non solo, di scrittore, prima di tutto, proprio a partire dal naso, di chimico, di deportato; in una espressione: di un «uomo normale dotato di memoria». Olfattiva, naturalmente.
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