Malevic
a cura di Eugenia Petrova e Giacinto Di Pietrantonio
Galleria d’arte moderna e contemporanea di Bergamo
2 Ottobre 2015 - 10:00am to
17 Gennaio 2016 - 7:00pm
La pagina della mostra Leggi anche qui
Malevic, l’Assoluto
L’ambizione alla purezza totale poi il recupero della materia il destino di un rivoluzionario
di Roberta Scorranese Corriere 2.10.15
Fino al 17 gennaio 2016, alla GAMeC — Galleria d’arte moderna e
contemporanea di Bergamo, la mostra Malevic , a cura di Eugenia Petrova
(vice direttore del Museo di Stato russo di San Pietroburgo), e Giacinto
Di Pietrantonio (direttore della GAMeC). La retrospettiva (70 opere,
incluse quelle di molti artisti russi coevi) è coprodotta dalla GAMeC e
da GAmm — Giunti arte mostre musei, in collaborazione con il Museo di
Stato russo di San Pietroburgo . catalogo GAmm Giunti. Info su
www.mostramalevic.it . In parallelo, un circuito di iniziative unite
sotto il titolo Tutti pazzi per Malevic promosso dai Servizi educativi
della GAMeC: dall’Accademia Carrara al Teatro Donizetti, numerose
istituzioni organizzano incontri (per grandi e per piccoli) sui temi
legati al grande artista di origini ucraine. Saranno inoltre coinvolti
nel progetto alcuni istituti superiori di città e provincia. Tutti gli
eventi saranno raccolti e documentati all’interno del sito
www.tuttipazzipermalevic.it .
Anche in Italia arriva la «Vittoria sul sole» opera d’arte totale
In occasione della mostra alla GAMeC, per la prima volta in Italia, una
grande sala accoglierà la riedizione de la «Vittoria sul sole», prima
opera totale di musica, arte, poesia e teatro, creata da Malevic con
Michail Matjusin e Aleksej Krucenych ( nella foto, un bozzetto ).
L’iniziativa si tiene a cento anni dalla nascita del Suprematismo, la
più radicale tra le avanguardie storiche del Novecento di cui Malevic è
stato fondatore, leader, e maggiore interprete. Dopo la mostra alla Tate
di Londra del 2014 ( in cui sono state esposte alcune delle opere
visibili anche alla GAMeC) a ottobre il museo bergamasco celebra
quest’importante ricorrenza, in coincidenza con l’appuntamento della
Fondazione Beyeler
di Basilea che proporrà la ricostruzione della sala suprematista del 1915.
Strano il destino toccato in sorte a Kazimir Malevic: ha trascorso una
parte della sua vita a «uscire dal cerchio delle cose», a scarnificare
la materia fino a raggiungerne lo spirito (un quadrato bianco su fondo
bianco: il nulla e il tutto al tempo stesso) e un’altra parte a
recuperare consistenza, con la consapevolezza (dolorosa) che la materia è
parte di noi, che ci piaccia o meno. «Dio non può essere vinto»,
scriverà.
E la mostra che si apre alla GAMeC di Bergamo, curata da Eugenia Petrova
e Giacinto Di Pietrantonio, può essere letta come una biografia
ragionata del pittore nato a Kiev nel 1878 e morto a San Pietroburgo
(allora si chiamava Leningrado) esattamente 80 anni fa, nel 1935.
Settanta opere, un corpus di lavori di altri russi vicini alle
avanguardie a cavallo tra Otto e Novecento (Repin, Goncharova...) per
ricostruire il terreno sul quale, un secolo fa, germogliò la corrente
del Suprematismo, incarnata in Malevic.
Guardiamolo nel bizzarro Autoritratto con fiocco rosso . Era il 1907;
due anni prima Kazimir era salito sulle barricate, nella rivolta di
Krasnaja Presnja, preludio all’Ottobre del 1917. Era un rivoluzionario,
un artista coltissimo, spaziava dalla poesia alla pittura
all’architettura. Deciso a scardinare i limiti della forma, a «ripulire»
lo spirito dei cascami della materia. La sequenza di questo progressivo
annientamento scorre sulle pareti della Galleria bergamasca: Mucca e
violino e Ritratto perfetto di Ivan Kljun del 1913. Poi il Quadrato Nero
, una corsa infinita verso la purezza assoluta, fino al grado zero: nel
1919 Malevic smette di dipingere.
Comincia però a scrivere.
Poesie, lettere, riflessioni analitiche nel solco della tradizione
speculativa russa (da Dostoevskij a Kandinskij, la poetica è
inscindibile dalla filosofia). Tutto bene: la Rivoluzione dà corpo alle
sue idee, diventa uno dei teorici della «nuova Russia in mano al
popolo».
Finché la materia non torna, vendicandosi: nessuno è sublimabile, tutti
siamo vittime delle nostre fragilità, tutto può ribaltarsi da un momento
all’altro (più o meno negli stessi anni Pirandello lo aveva colto): le
sentinelle rosse della cultura non capiscono che cosa sia questo
Suprematismo. È una forma di grave individualismo? Nel mirino, additato
come covo di sovversivi , finisce l’Istituto di Stato per la cultura
artistica, da lui diretto.
Un colpo. Malevic recupera il rapporto con la forma, freneticamente. E
gioca con il tempo: cambia le date ai dipinti, bara sul suo compleanno,
camuffa la realtà come disperato tentativo di uscire dal «cerchio delle
cose». Come annota Di Pietrantonio: «Un’arte antinaturalista, assoluta e
senza gravità». Va a Varsavia, poi a Berlino. Siamo nel 1927: un
telegramma gli intima di tornare in patria. Lascia in Germania quadri e
scritti, sa che in Unione Sovietica sono a rischio (così come pure,
peraltro, in Germania, ma azzarda). Il suo curatore, Hugo Hoering, li
darà al Museo di Amsterdam.
Malevic verrà arrestato poco dopo, nel 1930, accusato di amicizie
pericolose. Due mesi di carcere, poi il dolore. Lancinante, quello della
consapevolezza: la purezza assoluta, intransigente, è pericolosamente
vicina a quel mondo conservatore per combattere il quale ha rischiato la
vita, ai primi del secolo. Ecco che tornano allora i suoi contadini,
gli amatissimi custodi del silenzio (in mostra c’è una bella Testa di
contadino ). Retrodata le sue opere, ai primi degli anni Dieci e solo in
seguito si scoprirà che risalgono agli anni Trenta.
Si riavvicina alle icone sacre della tradizione, faro luminoso per tutti
gli artisti russi in crisi. L’interesse per il Cubismo e il Futurismo
(apprezzava sinceramente Marinetti) lasciano spazio a un recupero delle
figure rinascimentali e si fa un autoritratto in cui veste come
Cristoforo Colombo (1933). Sì, aveva scoperto un altro mondo e non si
dava pace, senza sapere che altro doveva ancora arrivare. Dopo la sua
morte, gran parte delle opere che si trovavano in casa Malevic furono
sequestrate e finirono nei sotterranei del Museo russo di San
Pietroburgo. Riemergeranno 65 anni dopo.
Oggi di lui ci resta la certezza che l’arte può e deve trovare una sua
dimensione autonoma dal «cerchio delle cose». Eppure, guardate il
bellissimo La casa rossa (1932), in mostra. Viene in mente quello che,
più di un secolo prima, aveva scritto Hölderlin: «E tuttavia,
poeticamente abita l’uomo su questa terra» .
Quel grado zero delle forme che rivive in Rothko e Flavin
Cento anni fa Il manifesto, scritto con Majakovskij, che mostrava il «cadavere dell’arte pittorica»
di Francesca Bonazzoli Corriere 2.10.15
«Per suprematismo io intendo la pura sensibilità nell’arte. Dal punto di
vista dei suprematisti, le apparenze esteriori della natura non offrono
alcun interesse; solo la sensibilità è essenziale (...). L’oggetto in
sé non significa nulla per il suprematista. La sensibilità è la sola
cosa che conti, ed è per questa via che l’arte perviene con il
suprematismo all’espressione pura senza rappresentazione».
Era il 1915 e con queste parole, scritte assieme al poeta Majakovskij,
Malevic dava alle stampe il manifesto del Suprematismo seguito, nel
1920, dal saggio Il suprematismo, ovvero il mondo della non
rappresentazione . Contemporaneamente Malevic esponeva i suoi primi
quadri suprematisti, fra il quali il Quadrato nero su fondo bianco
(retrodatato dall’artista al 1913) che diverrà un’icona del Novecento,
punto di partenza teorico di tanta arte astratta del XX secolo, anche se
il suprematismo stesso fu legato essenzialmente alla figura carismatica
di Malevic.
«Ora il cadavere dell’arte pittorica, l’arte della pittura spennellata
dagli imbianchini, è stato messo in una bara, sigillata con il Quadrato
nero del suprematismo», scriveva il pittore Ivan Kljunkov, echeggiando i
toni utopistici e messianici con cui Malevic annunciava la «fine della
pittura». Gli elementi ancora utilizzati sono il quadrato, il
rettangolo, il cerchio, il trapezio: forme semplici «da confrontarsi ai
segni primitivi dell’uomo primordiale, poiché non rappresentano nella
loro composizione un ornamento, ma solo il senso del ritmo».
Dopo il «Quadrato nero», definito da Malevic come il «grado zero», «lo
zero delle forme», l’elemento base del mondo e dell’esistenza, seguirono
i quadrati rossi e quelli bianchi fino alla tela bianca vuota esposta
nel 1919-20 e poi nel 1923, che non avevano nulla a che fare con le
provocazioni futuriste o i gesti dei nicevoki , i nichilisti del
dadaismo russo, ma rappresentavano l’estremo approdo filosofico
suprematista, lo specchio del Nulla e del Tutto: «Questo quadrato che
avevo esposto non era un quadrato vuoto, ma la sensibilità dell’assenza
dell’oggetto», dichiarò Malevic. «Nel suprematismo non si può nemmeno
parlare di pittura», scriveva ancora nel 1920. «La pittura è stata
eliminata da tempo e la figura del pittore è un pregiudizio del
passato».
Con il suo rigore estremista, Malevic voleva fondare una sensibilità
superiore a quella fisica, che attingesse a una dimensione d’infinito.
Così, sebbene fosse avanguardista e novecentesca, l’aspirazione di
Malevic non faceva che ricongiungersi, in un percorso che arrivava a
chiudere un cerchio, alla tradizione bizantina dove le icone sacre
ripetono sempre lo stesso modello divino e dove il sacerdote pittore non
crea, né interpreta, ma esegue l’immagine esattamente come si ripete la
formula di una preghiera, perché l’immagine non è creata dall’uomo, ma
rivelata direttamente dalla divinità.
Tolta di mezzo anche la divinità per appellarsi direttamente
all’assoluto, Malevic non poteva che arrivare a un punto zero e dunque
prima smise di firmare e datare le opere, poi anche di dipingere per
dedicarsi all’insegnamento e alla teorizzazione di utopiche
abitazioni-grattacielo di un nuovo mondo. Quasi profeticamente
annunciato, il destino delle sue opere fu quello di scomparire prima a
causa della condanna sovietica e poi di quella nazista. Ma la loro
rinascita è beffardamente avvenuta proprio nell’era dell’esplosione
delle immagini, nel secondo Novecento, quando il Quadrato bianco e il
Quadrato nero hanno dato vita a una eterogenea figliolanza del
radicalismo suprematista: dai neon di Dan Flavin alle camminate nel
paesaggio di Hamish Fulton, dalle stanze di luce di James Turrell alle
campiture vibranti di colore di Mark Rothko, tutti artisti di movimenti
che hanno investito di una componente suprema il grado zero delle forme.
L’ambigua anima russa torna sempre all’ordine
di Luigi Ippolito
Corriere 2.10.15
Il rapporto fra la Russia e le avanguardie artistiche che essa stessa ha
prodotto nel corso della sua storia è sempre stato ambivalente, quando
non denso di travagli. La stessa parabola di Malevic è esemplare, col
suo evolvere dal futurismo al suprematismo fino al ritorno a una sua
forma figurativa coincidente col ritorno all’ordine nella sfera
politica. Un movimento e contromovimento che ha trovato la sua replica
nei decenni contemporanei. Il periodo seguito al crollo del comunismo e
dell’Unione Sovietica ha visto una fioritura artistica diversificata e
creativa, che ben accompagnava i caotici anni Novanta, dominati sì dal
disordine politico ed economico ma, al tempo stesso, caratterizzati da
ampia libertà espressiva. Ma di pari passo alla restaurazione politica
attuata da Vladimir Putin a partire dal Duemila, e accentuatasi in
questo suo ultimo mandato, ha preso corpo una restaurazione culturale
imperniata sul richiamo ai valori tradizionali contrapposti alla
decadenza dell’Occidente. È qui che le forme più radicali di espressione
artistica hanno assunto i connotati di rivolta aperta contro il potere:
è il caso del collettivo anarchico situazionista Voina (Guerra), da cui
sono poi scaturite le celebri Pussy Riot, protagoniste di performance
come il disegno di un enorme pene sul ponte levatoio davanti alla sede
del Kgb di San Pietroburgo o la celebrazione di un’orgia (vera) in un
museo statale. Fino alla preghiera punk nella cattedrale del Salvatore,
costata alle Pussy Riot anni di galera. La reazione si è fatta sempre
più violenta. È di questi ultimi mesi il caso di mostre di arte
contemporanea a Mosca attaccate e vandalizzate da autoproclamati
difensori della tradizione, che sentono di avere l’appoggio tacito di
chi governa. Rivoluzione e restaurazione continuano a disputarsi l’anima
russa.
La sfida diMalevic contro la natura
Bergamo celebra il pittore russo del «Quadrato nero», fondatore 100 anni fa delmovimento suprematista
11 dic 2015 Libero
Cento anni di Suprematismo, ovvero «la supremazia della sensibilitàpuranell'arte; l’espressionepura senza rappresentazione; la creazionenon-oggettiva». Il centenario è festeggiato alla Fondazione Beyeler di Basilea con la ricostruzione della sala suprematista del 1915 e la lunga lista degli artistichenegli anni si sono ispirati a Kazimir Malevic (1878- 1935). AnchelaGamec diBergamoomaggia l’autore con lamostraMalevic aperta fino al 17 gennaio, a cura del direttore Giacinto di Pietrantonio e di Evgenija Petronova, vicedirettrice delMuseo di Stato Russo di San Pietroburgo. «Ragazze in un campo» (1928-29), olio su tela del pittore russo Kazimir Malevic
La mostra si apre con la ricostruzione dei coloratissimi costumi per lo spettacolo de La Vittoria sul Sole del 1913, nel quale l’astro simboleggia il passato artistico da superare. Compaiono anche i bozzetti degli abiti di scena realizzati da Malevic e un filmato della rappresentazione, che era una sorta di opera d’arte totale, tra poesia, arte visiva, musica e teatro, il cui sipario portava già i segni delSuprematismo, ovveroil fondamentaleQuadrato nero.
Numerose le affinità tra il percorso di Malevic eKandinskij. Idue infattipartono dalla figurazione e dal simbolismo; per entrambi è determinante l’influenza dell’arte russa tradizionale. Malevic, in particolare, è affascinato dai colori brillantidelle icone russe, il rosso e l’oro, edalla ieraticitàdelle figure. L’esposizione prosegue con le prime tele simboliste, come Paesaggi con filari di alberi del 1906 e Autoritratto con fiocco rosso del 1907, quindi le opere tra Cubismo e Futurismo: Vacca e violino (1913); Composizione con la Gioconda (1914).
Al Suprematismo l’artista arriva nel 1915, in occasione dell’Ultima Mostra Futurista0.10. IlQuadratonero diventerà un’icona dell’arte astratta. Per Malevic era «l'embrione di tutte le possibilità che nel loro sviluppo acquistano una forza sorprendente». In esso possiamo ritrovare per esempio le future intuizioni di Burri, Rothko, Kline, Sol Lewitt, Albers, Klein, Manzoni, Merz, Kounellis… In mostra anche Cerchio nero e Croce nera (1923) e le lettere con la descrizione di come collocarle alla Biennale di Venezia del 1924. E ancora Quadrato Rosso (1915). Malevic in verità dipinge quadrangoli, nonquadrati, perchéle forme, disegnate a mano, senza righello, non sono perfette e non presentano lati paralleli. L’intentodell’artista era sottolineare il lavoro manuale dell’uomo, la suacreazione. La visionediventaunprocessomentale per comprendere il senso dell’universo. Il Suprematismo riguarda anche l’architettura e il design. Espostiquindii plasticiArchitektony degli anni Venti sul tema della città futura, lepitture smaltate suporcellana ele teleprogettopertessutidaldecorosuprematista, realizzati a partire dal 1919.
Dagli anniVenti, Malevic si dedica alla teoria e scrive saggi e appunti. Dopo aver sperimentato il carcere con l’accusa di spionaggio, quandola dittatura comunista si fa più feroce, è costretto a ritornare alla figurazione, ma conservando sempre traccia della sua peculiare ricerca. È ilmomento del Supranaturalismo e del Suprarinascimento: la vita contadina russa, dove donne e uomini sonomanichinimetafisici senza volto e la casa non è che un quadrato rosso; i ritratti e gli autoritratti. Inmostra anche altriautori russi, avvicinatiaMalevic, comeMichail Fëdorovic LarionoveNatalija Goncarova, che fondano il raggismo, portando nel Cubofuturismo l’attenzione per la luce.
Malevich, ascensione all’archetipo Mostre. Kazimir Malevich alla Gamec di Bergamo: da San Pietroburgo quadri, costumi, bozzetti e «planiti» per rivisitare le fasi dell'artista russo nel suo percorso attraverso l’arte Maurizio Giufrè Manifesto 3.1.2016, 6:00
L’11 Aprile 1920 Kazimir Malevich scrive allo storico della letteratura Michail Gersenzon di non volersi più considerare pittore del Suprematismo – il movimento artistico da lui creato nel 1913, precursore dell’astrattismo geometrico in Russia. Dopo essersi impegnato nella pittura post-impressionista per circa un decennio (1904-’12); aver aderito – per sùbito fuoriuscirne – al Futurismo; avere scandalizzato con il Quadrato nero su fondo bianco (1915), ma ancor di più con il Quadrato bianco su fondo bianco (1918); essersi scontrato con Tatlin e aver polemizzato con le scelte del Costruttivismo, Malevich decide di smettere di dipingere. Il suo obiettivo da «viaggiatore solitario» è dedicarsi alla scrittura per penetrare la «religione dello spirito» che il colore in precedenza gli aveva fatto mettere da parte. Dichiara che la sua attrazione per il Mondo religioso è qualcosa che è accaduto inspiegabilmente: «Frequento le chiese, guardo i santi e tutto il mondo spirituale in azione – scrive a Gersenzon – ed ecco che vedo in me, e forse nel mondo intero, che è giunto il momento del mutamento delle religioni». Egli è convinto che nella sfera della religione si possa conseguire la «forma Pura dell’Atto» a patto che questa, come lui ha saputo dimostrare nell’arte, metta da parte il suo finalismo. Intorno agli anni venti, dunque, Malevich sente la necessità, dietro a una sorta di richiamo mistico, di dare fondamenta logiche alla sua pittura (pura) con una copiosa attività filosofica che occupa una parte importantissima della sua biografia. La radicale svolta gli farà dire: «sono passato dall’imperfezione del pennello arruffato alla sottigliezza della penna».
È importante considerare questo aspetto visitando la mostra Malevich alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo (ancora fino al 17 gennaio), anche se i curatori Evgenija Petrova e Giacinto Di Pietrantonio l’hanno decisamente trascurato per lasciare il posto al confronto tutto stilistico con una serie di artisti a lui contemporanei distribuiti nel percorso cronologico dell’esposizione: Il’ja Repin o Michail Jakovlev per il periodo simbolista, David Burljuk o Natalija Goncharova per quello cubofuturista, Aleksej Pachomovo o Aleksandr Dejneka negli anni del realismo socialista. Non c’è alcun dubbio che gli accostamenti servano e mai come in questo caso questi misurino la distanza siderale che separa Malevich dagli altri pittori russi, distanza che progressivamente aumenta negli anni, ma che non è sufficiente a spiegare la portata della sua rivoluzione estetica. Solo in parte, infatti, la pittura restituisce la radicalità della sua concezione dell’arte. Michail Bachtin che incontra Malevich a Vitebsk dove dal 1919 l’artista dirige la Scuola d’Arte fondata da Chagall, dirà che oltre a essere «un asceta, innamorato delle proprie idee, era intimamente convinto di essere riuscito a penetrare in certe profondità dell’Universo e averle dischiuse».
Ma cos’è che ha compreso così in profondità Malevich? Cos’è che rappresentano le sue opere suprematiste create prima della decisione di dedicarsi alla filosofia e alla scrittura? Se è vero che ancor prima della Rivoluzione di Ottobre il rifiuto della funzionalità dell’arte è una conquista della scuola formalista (Šklovskij, Jakobson, Eichenbaum), l’artista russo giunge a condividerne molte tesi per un percorso – spirituale oltre che artistico – tutto personale. Egli alla pari di Nietzsche comprende che la creazione artistica è un’azione pura che accade nel flusso incessante del divenire – ciò che il filosofo tedesco chiamò «l’eterno ritorno dell’uguale». Anche per Malevich il mondo si presenta sempre soggettivamente trasfigurato: «trasformando il mondo – scrive – io m’incammino verso la mia trasformazione». In questo senso la natura che si offre al nostro sguardo non è mai identica e semplice nella bellezza delle sue forme ma nel ripetersi, diseguale e complessa. In modo analogo l’arte che scaturisce da una «volontà di potenza», determinata da «un’azione fine a se stessa», intuitiva e mai pragmatica, non potrà mai imitare l’oggettualità della natura. Pertanto non è concesso prendere «tutto ciò che palpita e vive per fissarlo sulla tela come gli insetti di una collezione», quindi, asserisce Malevich, guardare la natura per «copiarla è un furto».
La sua concezione del mondo non-oggettivo raggiunge l’estrema sintesi nel Quadrato bianco su fondo bianco. L’opera non è presente in mostra, ma vi rimandano il Quadrato nero su fondo bianco insieme alla Croce nera su fondo bianco e al Cerchio nero su fondo bianco: tutti e tre esposti in orizzontale su una parete, ma nel 1924 alla XIV Biennale di Venezia, per precise disposizioni di Malevich – l’attesta una lettera autografa – le composizioni dovevano essere collocate in verticale, se non si fosse allora deciso di sostituirle con alcuni disegni di architettura. Davanti a esse è chiara la sua volontà: «l’artista deve seminare la pittura in modo che l’oggetto svanisca», ma per far questo «l’arte non deve procedere verso la riduzione o la semplificazione, ma verso la complessità». Il compiersi di questa dissoluzione, quindi, non è la reductio ad unum di tanti artisti della modernità avanguardista, piuttosto è la presa d’atto che la conoscenza della verità che si compie con la volontà creatrice, è un percorso ontologico nel molteplice del mondo che scardina dalle fondamenta convenzioni accademiche e filosofiche di secoli. Non è possibile dilungarci qui sulle considerazioni estetiche malevichiane, perciò rinviamo al recente contributo di Massimo Donà (Teomorfica, 2015) e agli Scritti dell’artista russo, di nuovo editi (Mimesis Edizioni, 2013).
Tornando alla mostra, i materiali selezionati, provenienti tutti dal Museo Russo di Stato di San Pietroburgo, sono un’ottima occasione per misurare l’influente presenza di Malevich, oltre che nella pittura, nel teatro e nell’architettura. In apertura sono esposti i costumi, ricostruiti sulla base dei bozzetti ideati per l’opera Vittoria sul sole (1913), che nel 2013 è stata di nuovo allestita a San Pietroburgo a cura dell’Ermitage e del teatro Mariinkij. Per questo spettacolo Malevich realizzò anche la scenografia, mentre Kruchënych i testi poetici e Matjušin la musica. Come i tre scrissero nel loro manifesto cubofuturista, si doveva «prendere d’assalto la roccaforte della fiacchezza artistica» del teatro russo per rivoluzionarlo. Vittoria sul sole, sintesi di parole, musica e forme in un «inguaggio inintellegibile», lo zaum teorizzato da Kruchënych – scrive Evgenij Kovtun nel catalogo edito da Giunti –, è la prima opera futurista messa in scena dal gruppo e segna una delle esperienze teatrali più importanti nell’ambito delle avanguardie artistiche. Lo stesso grado di sperimentalismo che incontriamo sulla scena lo ritroviamo in architettura con l’invenzione dei planiti: prosecuzione plastica delle immagini suprematiste deformate tridimensionalmente sulla tela.
Come per la pittura, il planita, per Malevich, deve tener conto del peso, della velocità e della direzione del movimento, ma in particolare non deve avere alcuna utilità materiale: «è costruito senza uno scopo preciso, ma il terrestre può sfruttarlo come desidera, secondo le sue necessità». Il modello in gesso di un mastodontico grattacielo, Architekton “Jota” (1923?), ne è un esplicito esempio e fa bella mostra di sé tra i più discreti oggetti malevichiani di design: tazze e teiera in porcellana dalle forme scomposte con sovrapposti i disegni suprematisti di Nikolaj Suetin.
Tra il 1928 e il 1934 Malevich ritorna a dipingere. I suoi soggetti non sono più figure geometriche, ma contadini dai «volti senza volti», immersi in nitidi paesaggi, dai colori vivaci distribuiti a bande che nella «gamma russo-ucraina – come fa notare Jean-Claude Marcadé in catalogo – ricorda quella della tavola pasquale ortodossa». È questa la fase post-suprematista o del Supra-naturalismo. La non-oggettività così intensamente sostenuta negli anni venti non è tradita ma ora si è trasferita in uomini e donne che con le loro pose solenni sembrano volere resistere alla retorica industrialista staliniana che tragicamente opprime il mondo contadino e ignora la natura. Se chiari sono i riferimenti alla tradizione delle icone, ora questi assumono altri significati. Vale al riguardo soffermarsi al termine della mostra davanti all’Autoritratto (1933): Malevich si raffigura come un uomo del Rinascimento ma nulla rimanda alla ritrattistica dell’Umanesimo, piuttosto l’archetipo iconografico di riferimento è la Vergine Odigitria che con la mano destra accenna al Figlio, al Cammino. Anche l’artista si ritrae nello stesso gesto, ma l’angolo del pollice rispetto alle altre dita, come ha notato acutamente Marcadé, suggerisce il profilo di un quadrato. Ha ragione il critico francese, la grandezza di questo autoritratto sta in quel «designare l’Assenza», nel riconoscimento tragico che la vera realtà è senza oggetti: ultimo solitario segno contenuto in una posa dipinta due anni prima della morte a Leningrado.
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