martedì 13 ottobre 2015

La musica del XX secolo per Paolo Isotta

Altri canti di Marte
Paolo Isotta: Altri canti di Marte, Marsilio

Risvolto
Questo libro era nato come continuazione de La virtù dell’elefante, che di nuovo ha fatto conoscere Paolo Isotta storico della musica e lo ha rivelato protagonista della letteratura italiana. Isotta avrebbe dovuto fare qualche correzione, parlare di qualche amico vecchio e nuovo, di qualche altro libro letto, di qualche film visto, di musica ascoltata. Però quando ha incominciato a scrivere non immaginava che quest’opera possedesse una volontà propria e, nel breve giro della stesura (da gennaio a luglio del 2015), la affermasse progressivamente. Così Altri canti di Marte è la serie di aggiunte e correzioni promessa; ma contiene anche le più profonde rifl essioni dell’autore sulla musica: scritte adesso ed ex novo. Vi sono le pagine sui prediletti Alessandro Scarlatti, Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert, Ciaikovskij, Verdi; e una “lettura” del Parsifal di Wagner che apporta nuova luce sul capolavoro. Ma l’indagine di Isotta si è rivolta particolarmente al Novecento musicale: i capitoli più densi sono quelli su George Enescu, Karol Szymanowski, Franco Alfano, Ottorino Respighi e Gino Marinuzzi, che fin qui nessuno aveva considerato addirittura come fra i sommi compositori del Novecento. Dopo questo libro la storia musicale del Ventesimo secolo dovrà essere riscritta. Il titolo Altri canti di Marte viene dall’omonimo Sonetto di Giovan Battista Marino. “Canti” è un congiuntivo esortativo: il poeta invita altri a cantare le imprese guerresche e “i trionfi di Morte orrida e fera”: egli canterà l’amore. E questo libro è un canto d’amore per la musica e per la vita.


Sta per arrivare in libreria il seguito della "Virtù dell'elefante", di Paolo Isotta: una grande opera di scienza sulla cultura del '900. E di maldicenza sull'intellighenzia 

Camillo Langone - il Giornale Mar, 13/10/2015

Anatemi musicali tra scienza e maldicenzaLEONETTA BENTIVOGLIO Repubblica 11 11 2015
Riflette in pieno le abituali caratteristiche di Paolo Isotta il suo nuovo libro Altri canti di Marte: ampollosità della lingua, prosa baroccheggiante, sintassi obsoleta, stile colmo di latinismi, parole in disuso e vezzi italianistici (Cajkovskij viene chiamato Pietro, Procofiev è scritto con la c…), discorsi deviati da un itinerario netto a favore del flusso di digressioni iper-soggettive, violenti accanimenti ed encomi altrettanto viscerali. Ma insieme a tutto ciò spicca la mole del suo sapere musicale, da cui emergono scelte sorprendenti. Talvolta faziose. In altri casi rivelatorie. Il tutto scorre dentro un mix pettegolo e spavaldo tra il pubblico e il privato, lo storico e l’aneddotico. Colui che per decenni è stato il dibattuto e feroce critico musicale del Corriere della Sera si lancia in quest’impresa di quasi cinquecento pagine attenendosi alla scrittura ibrida, oscillante fra il saggio culturale e il diario, usata nel precedente tomo autobiografico, La virtù dell’elefante.
Rispetto al volume uscito l’anno scorso Altri canti di Marte, titolo ritagliato dall’omonimo sonetto di Giovan Battista Marino, va intesa come la prosecuzione di un peculiare dialogo col lettore. Per quest’ultimo l’opzione è categorica: prendere o lasciare. Quanto viene affermato da Isotta è perentorio e non implica le sfumature del dubbio. Franco Mannino è un pianista di sommo livello, secondo solo a Claudio Arrau. Oliviero de Frabritiis è stato uno dei massimi direttori mai ascoltati. Molte pagine sono votate alla squisita natura umana e musicale del pianista Nazzareno Carusi, e guai a chi ne ignora l’esistenza (come l’autrice di quest’articolo). Il più grande soprano degli ultimi settant’anni è stata Anita Cerquetti. Altro che Callas e Tebaldi.
Assieme agli inni, piovono gli anatemi. Claudio Abbado, reputato da noi comuni mortali il maggiore interprete rossiniano di fine Novecento, ha invece insegnato, nell’opinione d’Isotta, come non vada proposto Rossini. Riccardo Chailly sul podio fa «un’impressione agghiacciante». Muti è il più grande direttore vivente, ma lo macchia un peccato: non esegue musica italiana a Chicago. Il Rossini Opera Festival di Pesaro è una perniciosa «adunata internazionale di recchie liriche». Mediocre è la pianista Mitsuko Uchida, mentre un’interprete geniale come Martha Argerich non viene citata neppure di striscio.
Inoltre Isotta ama sfoggiare il suo potere effettivo svelando che i capi delle più prestigiose istituzioni musicali gli hanno sempre reso omaggio. Pereira, appena scelto come guida della Scala, vola da Milano a Napoli per lusingarlo. Michele dall’Ongaro, neo-sovrintendente a Santa Cecilia, si reca a casa sua recandogli doni significativi. Chi non va a genuflettersi chez Isotta è «un individuo chiamato Carlo Fuortes», guida dell’Opera di Roma, che in questo libro viene definito «un egolatra che si compiace di un suo giro di direttorucci di serie Z». Isotta gode talmente di sé da segnalarci senza pudore (dote da lui ignorata) le accoglienze trionfali ricevute da La virtù dell’elefante, quali «non incontrano i pompatissimi premiati dello Strega». Ed è sterminata la sua fede nel contributo dei propri testi non solo alla musicologia, ma all’intera letteratura italiana.
Col suo lauto egocentrismo, tuttavia, il musicologo finisce per togliere spazio alle proprie analisi sulle partiture, spesso originali e coinvolgenti. Lo è la trattazione su Beethoven, dove si nega il luogo comune secondo cui il compositore non era portato al teatro. Col medesimo slancio Isotta parla del miracolo di Schubert ed esalta il lavoro sinfonico di “Pietro” Cajkovskij. E il suo spirito polemico coglie nel segno abbattendosi contro il disconoscimento subìto da Nino Rota. Più in generale è notevole la rivalutazione che il critico napoletano compie riguardo al nostro Novecento, indicando un triade decisiva: Franco Alfano, misconosciuto, Ottorino Respighi, mal conosciuto, e Gino Marinuzzi, sconosciuto. E ancora mostra come sia stata trascurata ingiustamente, per motivi politici, la musica del “fascistissimo” Alfredo Casella. Un ulteriore punto focale è il capitolo su Parsifal, che esplora con acume l’opera wagneriana. Ed è accorata e riuscita l’argomentazione sulla sostanza di due autori novecenteschi ai quali non è stato attribuito il giusto peso: il rumeno George Enescu e il polacco Karol Szymanowski.

Nessun commento: