giovedì 15 ottobre 2015

Morozov e Lovinck sulle contraddizioni della rete

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E' ingrassato assai [SGA].

Il Leviatano di Silicon Valley 
Internet. Un’intervista con il teorico della Rete Evgeny Morozov, in Italia per partecipare a un seminario a Settimo Torinese. Internet non è solo una semplice tecnologia del controllo, ma anche il laboratorio dove ha preso forma e si sviluppa il nuovo capitalismo neoliberale 
Benedetto Vecchi Manifesto 15.10.2015
Il per­corso teo­rico di Evgeny Moro­zov è eccen­trico rispetto il main­stream intel­let­tuale su Internet. 
Cre­sciuto in Bie­lo­rus­sia ha par­te­ci­pato al movi­mento d’opinione che chie­deva una cesura del paese con il suo pas­sato sovie­tico. In quella con­giun­tura ha fre­quen­tato corsi di gior­na­li­smo on line, diven­tando in pochi mesi un mediat­ti­vi­sta che vedeva nella Rete un potente stru­mento per vei­co­lare istanze di libertà e di inno­va­zione sociale. È con que­sta con­vin­zione che è sbar­cato negli Stati Uniti, diven­tando in breve tempo un blog­ger noto per la sua capa­cità di met­tere a fuoco i punti forti e le pos­si­bile con­ta­mi­na­zioni della net­work cul­ture con il mondo dei media tradizionali. 
Anni di lavoro gior­na­li­stico e teo­rico, che lo por­tano a guar­dare con scet­ti­ci­smo la rete come «incar­na­zione» di un regno della libertà. 
La pub­bli­ca­zione del volume Le inge­nuità della Rete (Codice edi­zioni) è un con­den­sato di que­sta presa di distanza dal «cyber-utopismo», dove Inter­net più che regno della libertà è descritta come una tec­no­lo­gia di controllo. 
La pole­mica di Moro­zov, dive­nuta nel frat­tempo docente uni­ver­si­ta­rio, è con­tro chi con­ti­nua a chiu­dere gli occhi sul potere eser­ci­tato dalle imprese dell’high-tech, sull’uso della Rete da parte dei governi nazio­nali per con­trol­lare le comu­ni­ca­zioni dei cit­ta­dini, ridotti a sud­diti di un potere che non tol­lera forme di dis­senso e alte­rità rispetto il pen­siero dominante. 
Descritto come un teo­rico con­ser­va­tore, pri­vi­le­gia invece un «libe­ra­li­smo radi­cale» come back­ground per cri­ti­care i mono­po­li­sti della Rete e della deci­sione politica. 
Ma le sor­prese che lo stu­dioso bie­lo­russo non fini­scono con la pub­bli­ca­zione di due pam­phlet. Uno è dedi­cato alla mitiz­za­zione di Steve Jobs come cam­pione di inno­va­zione (Con­tro Steve Jobs, Codice edi­zioni) e Inter­net non sal­verà il mondo (Mon­da­dori), j’accuse con­tro i tec­no­crati del web. 
Moro­zov radi­ca­lizza infatti la sua posi­zione e comin­cia ad usare un les­sico mili­tante, nel quale sono forti gli echi della cri­tica mar­xiana al capi­ta­li­smo. In una inter­vi­sta alla «New Left Review» e in un arti­colo scritto per «Le Monde Diplo­ma­ti­que», arriva a pro­porre, pro­vo­ca­to­ria­mente, l’espropriazione dei Big Data e la neces­sità di una rin­no­vata teo­rica cri­tica del capi­ta­li­smo neoliberale. 
Moro­zov sarà ospite oggi a Torino di due seminari. 
Il primo è alla scuola Hol­den (ore 11), il secondo è pre­vi­sto invece per oggi pome­rig­gio a Set­timo Tori­nese come ante­prima del «Festi­val dell’innovazione e della scienza» che ini­zierà il 19 otto­bre. L’incontro di oggi pome­rig­gio, invece, orga­niz­zato da Codice edi­zioni e dal Nexa Cen­ter for Inter­net & Society — Poli­tec­nico di Torino, vedrà Moro­zov dia­lo­gare con Luca de Biase (gior­na­li­sta del Sole 24 ore) e il giu­ri­sta Carlo Blengino. 

 In un recente sag­gio ha scritto che occorre odiare Sili­con Val­ley. Per­ché dob­biamo odiare la «valle del Silicio»? 

La ragione prin­ci­pale per odiare la Sili­con Val­ley è sem­plice: i ragaz­zotti che vi lavo­rano si sen­tono degli intoc­ca­bili e le imprese che hanno la loro sede lì si amman­tano di non so quale manto di uma­ni­ta­ri­smo nobile. In realtà sono le imprese più rapaci che si pos­sono incon­trare. Molto più di molte che ope­rano a Wall Street. Ho matu­rato que­sto punto di vista negli ultimi tre anni. Ho però con­sta­tato che è molto dif­fi­cile tro­vare uomini e donne che si pon­gano dubbi e domande sull’operato delle imprese tec­no­lo­gi­che della Sili­con Val­ley. Que­sta dif­fi­coltà è dovuta al fatto che quelle stesse imprese rie­scono a imporre alla discus­sione pub­blica una rap­pre­sen­ta­zione del loro ope­rato indi­scu­ti­bile: chi fa domande o esprime dubbi sul loro ope­rato è dipinto come un oscu­ran­ti­sta. I miei scritti, ad esem­pio, sono stati liqui­dati come l’espressione di un tec­no­fobo che vive nelle fore­ste per­ché odia la moder­nità. A nes­suno, però, ver­rebbe in mente di squa­li­fi­care in que­sto modo le mie posi­zioni se, ad esem­pio, cri­ti­cassi Wall Street o le com­pa­gnie petrolifere. 
Alcuni anni fa, Eric Sch­midt, uno del trium­vi­rato a capo di Goo­gle, ha detto, con fare pro­fe­tico, che la Sili­con Val­ley e società come Goo­gle rap­pre­sen­tano l’essenza del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo con­tro il quale è vana ogni forma di pro­te­sta e oppo­si­zione. È venuto però il tempo di affron­tare seria­mente, e con one­stà intel­let­tuale, la posi­zione di Eric Schmidt.  
La Sili­con Val­ley è un un feno­meno sociale, eco­no­mico e poli­tico emerso in una par­ti­co­lare con­giun­tura nella sto­ria del neo­li­be­ra­li­smo, quella che vede dispie­garsi pro­cessi di pri­va­tiz­za­zione e deregulation. 
È solo par­tendo da que­sto pri­ma­rio ele­mento che pos­siamo com­pren­dere e aiu­tare a far com­pren­dere che Goo­gle, Face­book e le tan­tis­sime star­tup for­mate e spesso fal­lite nella Sili­con Val­ley non sono com­po­ste da per­sone disin­te­res­sate, altrui­ste, bene­vole. Sono ragaz­zotti che hanno lavo­rato inten­sa­mente per cam­biare i rap­porti di potere nella società, ren­den­doci più dipen­denti, ostag­gio delle imprese di quanto acca­desse in pas­sato. L’esito del loro ope­rato è una com­pleta e radi­cale finan­zia­riz­za­zione di ogni aspetto della vita quo­ti­diana. Que­sto è il sot­tile e tut­ta­via più peri­co­loso fat­tore che emerge con lo svi­luppo della Sili­con Valley. 
Penso che que­sta sia la strada obbli­gata per svi­lup­pare una cri­tica pun­tuale del ruolo svolto dalla tec­no­lo­gia nel ridi­se­gno dei rap­porti di potere, a favore delle imprese, va da sé, nella società. 

Lo slo­gan ini­ziale di Goo­gle era «don’t be a devil», non essere il dia­volo. Per molti, invece la società di Moun­tain View è pro­prio un dia­volo per­ché si appro­pria dei nostri dati per­so­nali per fare affari. Per altri, invece, que­sta espro­pria­zione è il prezzo da pagare per usare gra­tui­ta­mente un buon motore di ricerca che faci­lita la nostra vita in Rete. Quale è il suo punto di vista? 

 Parto da una con­sta­ta­zione. In poco più di un decen­nio si sono for­mate delle imprese glo­bali che hanno con­qui­stato posi­zioni di potere, eco­no­mico e non solo, su scala glo­bale. Goo­gle è una di que­ste imprese glo­bali. Per i sin­goli, l’elemento impor­tante è che pos­sono usare il suo soft­ware e i ser­vizi gra­tui­ta­mente, senza sof­fer­marsi sul fatto che con­di­vidi con una società pri­vata molti dati per­so­nali sen­si­bili. Il suo modello di busi­ness è molto astuto e all’apparenza «inno­cente», ma non lascia molti mar­gini di manovra . 
Nes­suno in Europa, a dif­fe­renza di quanto invece è acca­duto in Rus­sia, Cina e alcuni paesi dell’America latina, ha mai lavo­rato seria­mente per svi­lup­pare società e modelli di busi­ness che ridu­ces­sero la dipen­denza dal potere di Sili­con Val­ley nel pla­smare le nostre vite. Que­sto non è dovuto a un approc­cio inge­nuo verso la tec­no­lo­gia, quanto a una certa inge­nuità euro­pea verso l’«impero americano». 
Solo così si spiega, ad esem­pio, il con­senso di molti paesi euro­pei al Ttip: con­senso che rimuove qual­siasi ana­lisi sulle impli­ca­zioni geo­po­li­ti­che, «impe­riali» e tec­no­lo­gi­che del trattato. 


La Rete è anche una tec­no­lo­gia del con­trollo. È usata dagli stati nazio­nali per spiare e con­trol­lare i cit­ta­dini. È altresì usata dalle imprese per rac­co­gliere, ela­bo­rare e «impac­chet­tare» infor­ma­zioni sen­si­bili per essere ven­dute. Potremmo dire che gli stati nazio­nali e le imprese hanno dato vita a un com­plesso militare-digitale, che si affianca a quello militare-industriale. Costi­tui­sce, anch’esso, un peri­colo per la democrazia? 


Parto dalla con­vin­zione che la Natio­nal Secu­rity Agency e l’intelligence mili­tare sta­tu­ni­tense sono molto con­tenti, se non felici del ruolo svolto dalle società tec­no­lo­gi­che. Il potere occulto che abbiamo chia­mato com­plesso militare-industriale non è scom­parso e quello che vediamo in azione è una sua evoluzione. 

Non è certo pro­dut­tivo fare pro­fe­zie sul futuro, ma alcune ipo­tesi sui rap­porti tra imprese e intel­li­gence sono utili per capire come si sta strut­tu­rando uno «stato di sicu­rezza nazio­nale» che ha come archi­trave pro­cessi di pri­va­tiz­za­zione e di con­cen­tra­zione monopolista. 
Fac­cio un esem­pio: c’è un paese dove la comu­ni­ca­zione avviene attra­verso una infra­strut­tura di pro­prietà pub­blica, che garan­ti­sce affi­da­bi­lità, riser­va­tezza, ano­ni­mato. L’intelligence di quel paese ha già il mate­riale con il quale lavo­rare, visto che l’accesso ai dati è pre­vi­sto se viene invo­cata la sicu­rezza nazio­nale. Può acca­dere che quella infra­strut­tura venga poi pri­va­tiz­zata e acqui­sita da una impresa. I dati per­so­nali sono così nelle mani dell’intelligence e delle imprese pri­vate. È quello che è acca­duto in molte parti del pianeta. 

La pri­vacy è un diritto uni­ver­sale, dicono giu­ri­sti e atti­vi­sti. Ma la pri­vacy è anche un busi­ness cre­scente nella Rete. I ric­chi, viene soste­nuto, pos­sono acqui­stare ser­vizi e soft­ware che garan­ti­sce la loro pri­vacy, i poveri no. Cosa nel pensa? 

La logica del capi­ta­li­smo neo­li­be­rale è tra­sfor­mare ogni cosa in merce. E que­sto vale anche per la privacy. 
Finora il discorso sul diritto alla riser­va­tezza era rele­gato al campo giu­ri­dico o alle norme che rego­lano le rela­zioni tra gli Stati. Le rive­la­zioni di Edward Sno­w­den hanno fatto molto scal­pore, ma non hanno avuto grandi effetti, né aggiunto molto a ciò che era noto. 
Ciò è dovuto al fatto che Sno­w­den non ha mai dimo­strato una dispo­ni­bi­lità a cri­ti­care il capi­ta­li­smo o la poli­tica di potenza degli Stati Uniti. Ele­mento, quest’ultimo, pre­sente anche in Julian Assange. In ogni caso l’affaire Sno­w­den è sem­pre stato affron­tato su un piano pre­va­len­te­mente giu­ri­dico. Non è mai emerso nella discus­sione pub­blica nes­sun accenno alla strut­tura mono­po­li­stica del capi­ta­li­smo, né è stato messo a fuoco il pro­cesso di pri­va­tiz­za­zione in atto. 
Sno­w­den d’altronde non è molto inte­res­sato di chi è la pro­prietà e come opera l’infrastruttura della comu­ni­ca­zione. Essendo un liber­ta­rio, potrebbe anche mani­fe­stare sen­ti­menti posi­tivi verso il fatto che le imprese della comu­ni­ca­zione siano pri­vate invece che statali. 
D’altronde, i liber­tari ame­ri­cani sono indif­fe­renti al tema delle forme di pro­prietà. Sono por­tati a rap­pre­sen­tare i governi nazio­nali come aste­roidi distinti e sepa­rati da quelli delle imprese pri­vate. Nulla dicono dei mono­poli, delle rela­zioni tra lo stato e il mercato. 
Non sono dun­que sor­preso che il tema della sor­ve­glianza, della pri­vacy non con­tem­pli mai la mer­ci­fi­ca­zione della vita o la pri­va­tiz­za­zione dei beni pub­blici. Eppure a Ber­lino ci sono decine e decine di start up, alcune delle quali senza fini di lucro, che stanno svi­lup­pando app di qua­lità per la tutela della pri­vacy in Rete. 
Non sono così inge­nuo da cre­dere che il capi­ta­li­smo neo­li­be­rale sarà scon­fitto da una appli­ca­zione per la Rete, così come non credo che le poli­ti­che di auste­rità pos­sano essere con­tra­state svi­lup­pando una app. 
Ritengo più rea­li­stico imma­gi­nare lo svi­luppo di movi­menti sociali con una auto­noma pro­po­sta poli­tica e ana­lisi eco­no­mica sulle dina­mi­che che hanno por­tato a que­sto tipo di capi­ta­li­smo. È così infatti che si pos­sono indi­vi­duare delle solu­zioni e un supe­ra­mento di que­sto stato di cose, com­presa anche la difesa della privacy. 

In recenti inter­venti e inter­vi­ste lei ha affer­mato che i Big data dovreb­bero essere socia­liz­zati. Ci sono echi di poli­ti­che socia­li­ste di nazio­na­liz­za­zione in que­sta posi­zione. Vuol dire che lo spet­tro del comu­ni­smo si può aggi­rare nuo­va­mente nel mondo? 

Non sono inte­res­sato a discu­tere se il comu­ni­smo è morto o se sta risorgendo. 
Pongo solo il pro­blema di come resti­tuire le infor­ma­zioni per­so­nali che sono andate a costi­tuire i Big Data. Ho posto il pro­blema cioè della loro pro­prietà e della mer­ci­fi­ca­zione dei dati personali. 
Occorre cioè imma­gi­nare modelli di gestione alter­na­tivi al dogma domi­nante neo­li­be­rale. Que­sto sia a livello nazio­nale, ma anche sovra­na­zio­nale. È la par­tita attorno ai Big Data che occorre gio­care. E si deve andare in campo con la giu­sta pre­pa­ra­zione e un’adeguata strategia.

Ma un altro social è possibile? 
Geert Lovink. La rete di tutti è soltanto una bellissima favola a cui nessuno ormai crede più
“L’alternativa ai monopolisti del web che sfruttano il nostro desiderio di relazioni non può essere una romantica vita offline” Uno dei padri del mediattivismo ci anticipa la sua prossima battaglia. Si chiama “orgnet”
FRANCESCA DE BENEDETTI BOLOGNA Repubblica 18 10 2015
COMODI IN UN TECNO-INFERNO da cui faremmo meglio a fuggire: così ci vede Geert Lovink, il teorico olandese delle culture di rete che ha fatto scuola in tutto il mondo con saggi come Ossessioni collettive. Critica dei social media ( Egea 2012). Lovink è uno dei padri del mediattivismo; il suo Institute of Network Cultures è all’avanguardia e attrae ad Amsterdam studiosi, attivisti, artisti. La California avrà anche il potere di internet, ma l’Europa ha potere di critica, e Lovink non rinuncia a fare da Virgilio in quello che lui chiama «il Medioevo felice » dei social network. Sfogliamo in anteprima insieme a lui le bozze del suo Social Media Abyss (in libreria a maggio, in Italia per Egea). E con lui scendiamo giù, negli abissi infernali della sorveglianza e dei monopoli. Per poi risalire, verso “un altro social possibile”.
Ossessionati dal desiderio di esibire le nostre vite sui social: vite sotto controllo, trasformate in profitto. Così ci descrisse tre anni fa. E oggi?
«Ora il Dio internet è morto, l’ha ucciso Edward Snowden quando ci ha messi di fronte alla realtà. Il mito della rete libera e decentrata si è frantumato, tutti hanno visto che la rete è controllata e accentrata in mano a pochi. Ma il nostro “tecno-inconscio” collettivo fa finta di nulla, il paradosso è che usiamo Facebook&co. ancor più ossessivamente.
Desideriamo svelare dati, pratichiamo la “self-sorveglianza”. Facebook si nutre della nostra libidine esibizionistica e voyeuristica. Prima o poi il desiderio finirà, persino il selfie morirà di noia. Ma oggi viviamo nel “capitalismo della piattaforma”, che si basa sullo sfruttamento commerciale delle relazioni. Pochi giganti del web hanno il potere di dar forma alle interazioni sociali dell’intero Occidente».
Mister Facebook punta all’Africa, firma con Bono un manifesto per “connettere il mondo”.
«Zuckerberg vuole “evangelizzare” l’Africa. Ma internet.org , il suo programma per diffondere il web, fornirà a milioni di persone un internet falsato: per accedere servirà il log in a Facebook. L’azienda sovrintenderà a tutte le attività online e aumenterà il suo controllo totale ma invisibile. L’economia del “mi piace” non è nulla in confronto a questo “business dell’identità”, anzi anche un like assume più valore se ci sono più dati su di noi. Dopo le rivelazioni di Snowden, e oggi che anche i rifugiati sono tracciabili via smartphone, dovremmo interrogarci sui rischi. Chiederci quale sia il coinvolgimento dei governi e dell’Nsa in queste strategie di diffusione del web, di cui l’Onu parla da prima che Facebook nascesse. Con l’internet delle cose io credo che ci sarà da diffidare anche di un asciugacapelli ».
Eppure lei invita a non abbandonarsi al pessimismo. E al “pessimista” Jonathan Franzen dedica un capitolo del suo nuovo libro.
«Con la crisi finanziaria, le crepe nel sistema sono diventate evidenti. Di pari passo con il “momento Piketty”, anche il risentimento verso internet è diventato mainstream. Ma questo tecno-scontento pop, di cui Franzen è il simbolo, ha il vizio di non ragionare su un’alternativa. Perciò, diventa controproducente abbandonarci al nichilismo o al romanticismo dell’offline».
Cosa fare quindi?
«Prima, una critica vera. Poi, ricordarci che il tecnico oggi è politico: non aspettiamo che la risposta venga dagli ingegneri che hanno governato la rete finora consentendo tutto questo. Non aspettiamo Godot. Cominciamo dalla “strategia Varoufakis”».
Cioè? Qualcuno dirà che a Varoufakis non è andata poi tanto bene.
«Sì, al momento Yanis è politicamente ko. Siamo amici da quando insegnavo in Australia, l’ho visto da poco in vacanza, e quando dico che alla rete serve una “operazione V” intendo dire che Varoufakis è stato in grado di portare le contraddizioni del potere a galla, ha avviato un confronto. Anche con il web, il primo passo è far breccia nel muro di gomma della tech élite californiana. Questo potere si preserva ritraendosi ».
Un esempio di “operazione V” applicata al web?
«Il caso Uber: una resistenza visibile contro l’arroganza di un business. Servirebbe anche con Google o Facebook. L’utente è uno di noi: non gli spetta compassione ma dignità ».
Un altro web, un altro social, è quindi possibile? E come se lo immagina?
«Non sarà certo un nuovo pulsante, un “mi dispiace” o qualche altra opzione decisa dall’alto, a offrirci qualcosa di diverso da questa “realtà amministrata”, come la definirebbe Adorno (Zuckerberg di recente ha ipotizzato un pulsante “mi dispiace” per poi lanciare i sei nuovi bottoni emoji “Reactions”, ndr ). L’alternativa alla rete “accentrata” dei monopoli è una rete decentrata che consenta di costruire alleanze dal basso. Legami forti, invece che deboli. Una federazione di reti organizzate, dotate di crittografia di massa per escludere la sorveglianza di massa e le economie “vampire” di dati. Ned Rossiter e io la chiamiamo “orgnet”».
In rete è più facile mobilitare il dissenso, che farlo durare: è un’accusa frequente ai movimenti cresciuti con il web, come Occupy e primavere arabe.
Lei che teorizzò i “media tattici”, la protesta rapida per definizione, cosa ne pensa?
«Che è vero. Nel nuovo libro vado in cerca di un network capace di produrre conseguenze. Come trasformare le proteste in impegno a lungo termine? Le orgnets sono un’ipotesi.
Non cediamo all’effimero, e neppure alle nostalgie novecentesche. Chi spera che le energie delle masse vengano strutturate con gerarchie e ordine (famiglia, fabbrica, Chiesa, partito, sindacato) ignora che oggi il sociale è diffuso e frammentato. I social media hanno attecchito proprio per questo».
Non sarà un hashtag a cambiare il mondo, neppure quando schizza tra i trending topic mondiali come #Thisisacoup il 12 luglio, la notte dell’accordo sulla Grecia?
«Mentre i movimenti antiausterity twittavano, funzionari perlopiù non eletti gestivano la “crisi del debito”. Nella “post democrazia”, quando il potere sconfina dall’area democratica, poco si cura della pubblica opinione, di un hashtag o titolo di giornale. Il bersaglio degli attivisti non può più essere il simulacro chiamato “sfera pubblica”: ci distrae dal comprendere chi è coinvolto e come contrastarlo. Basti pensare alle banche, alla loro infrastruttura globale».
Trasformare il modello di business è una chiave per l’alternativa?
«Il tema dei modelli di ricavo di internet è cruciale, ne discuto nel mio libro. Il contante è destinato a finire, il denaro a essere ripensato. Se saranno solo le élite a governare il cambiamento, le cybervalute favoriranno solo l’uno per cento. Nell’epoca del “free”, quale gettito arriverà al 99 per cento e come?».
Farci pagare da Facebook, come propone Jaron Lanier, per redistribuire i profitti dei dati. O invece pagarlo noi, per “comprare” la nostra privacy come propone Zeynep Tufekci. Che cosa ne pensa?
«Mi fa piacere che Lanier e Tufekci mettano in discussione il dogma californiano della gratuità. Finora abbiamo assistito a un sistema di sfruttamento più che di condivisione, e servono nuovi modi di estrazione di valore. Ma nessuno dei due centra il punto: perché Facebook non tornerà all’età dell’innocenza, ai social oggi non basta una semplice “riparazione” ».

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