mercoledì 28 ottobre 2015

Perché anche Repubblica si interessa di Pasolini?


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Questa lettera dattiloscritta è stata ritrovata tra le carte del periodo casarsese da Antonella Giordano che sta curando per Garzanti la nuova edizione dell’epistolario di Pasolini. È del maggio 1945, quando arriva la notizia ufficiale della morte di Guido, fratello di Pier Paolo. Ne pubblichiamo uno stralcio grazie a Graziella Chiarcossi

Le ceneri 

PIER PAOLO PASOLINI Repubblica 28 10 2015

Il dolore più straziante ci è nato quando abbiamo visto una tua fotografia di quando avevi quattordici anni; quel tuo viso che m’assomiglia, con gli occhi cerchiati e un’espressione patita di ragazzo robusto ma troppo entusiasta, ci ha gettato nel cuore un impeto, una rabbia di pianto, come se tutto il nostro passato comune ci avesse sommerso. Hai udito come la mamma gridava, chiamandoti? Ora essa è qui, seduta, che tace. Se tu la vedessi, come la riconosceresti! L’infinito dolore che le hai dato non l’ha segnata, è sempre la nostra giovinetta, col suo viso carissimo della mattina, quando non ha ancora fatto la toeletta, e sfaccenda e s’affatica per casa. È lì che tace, con uno di quei suoi fazzoletti chiari sul capo; tu la riconosceresti, perfettamente, non è mutata per nulla; ma forse ti riuscirebbe un po’ nuova, come a me, quella sua espressione, soprattutto della bocca, che è forse un atteggiamento di dolore, ma io m’illudo, mi sforzo a credere che sia una specie di sorriso. Non sono passati che due notti e un giorno da che abbiamo saputo della tua morte, e una sola notte da quando quella tua fotografia ci ha dato per un attimo la sensazione, la divinazione dell’immensità del nostro dolore. E quindi tu ti meraviglierai come io possa aver preso la penna in mano, e incominciato a scriverti; me ne sarei meravigliato anch’io, solo tre giorni fa, benché coi pensieri di questa specie mi sia da molti mesi approfondito. Ma a che serve la nostra meraviglia? Ecco una realtà: tu laggiù un giorno di questo inverno, morto su un prato, o chissà dove; ed ecco un’altra realtà: io che ora, in questa stanzetta di Versuta, che tu hai conosciuto quando non vi avevamo ancora trasportato i mobili, io che ora ti scrivo. Dobbiamo arrenderci. E la resa, si vede, è necessaria; viene dal nostro corpo medesimo, quello che tu non hai più, ed io ho. È necessario poiché scrivendoti non penso che tu sia morto, ma vivo, anche se immancabilmente diverso da quel ragazzo che fu mio fratello, e che ho visto perfettamente, carnalmente, fatalmente tale nella fotografia.


Il poeta. Pier Paolo Pasolini il vangelo eretico di un artista totale
VALERIO MAGRELLI Repubblica 28 10 2015
Malgrado la sua venerabile età, quello della cultura italiana è un cielo giovane, in cui molte stelle fisse sono apparse da poco. Nel teatro, nella poesia o nel romanzo, ma anche nella critica e ovviamente nel cinema, non pochi autori sono assurti alla gloria appena pochi anni fa. Quello di Pasolini tuttavia, è un caso a parte: in mezzo a tanti astri, la sua figura spicca come una costellazione vera e propria. Nessuno ha ottenuto risultati così notevoli in discipline altrettanto disparate. Nessuno ha tentato, è ed riu
scito, a imporsi come poeta e romanziere, critico e drammaturgo, regista,opinionista, maître à penser.
Anche la sua morte, atroce ed emblematica, lo ha proiettato sulla volta celeste del mito. Accadde quarant’anni fa, il 2 novembre del 1975: fu trovato ucciso all’Idroscalo di Ostia, il corpo martoriato, e tanti misteri non chiariti sugli autori materiali e sui mandanti. Ma con quella tragedia è andato incontro anche a ciò che i greci chiamavano “apoteosi”, ovvero a una sorta di deificazione: l’assunzione al Cielo di un mortale. Come Ercole o Pegaso, forse, nel firmamento culturale d’oggi, Pasolini è l’unica figura degna di tale consacrazione.
Ciò che colpisce di più è la sua portentosa duttilità. Solo un uomo dal genio rinascimentale, per certi aspetti addirittura leonardesco, poteva passare dalla solitudine del filologo e dello scrittore, a quell’autentico suk in cui consiste una ripresa cinematografica, lasciando il bianco silenzio della pagina per il forsennato caos di una troupe. Questo per dare un’idea, sia pure sommaria, delle inverosimili capacità metamorfiche del nostro autore. D’altronde la sua formazione riflette bene tale bulimia. Già in terza liceo Pasolini viene promosso con una media tanto alta da fargli saltare un anno. Iscrittosi appena diciassettenne alla facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, eccolo avventarsi su materie disparate come la filologia romanza o la storia dell’arte, il cui insegnamento era affidato a un maestro quale Roberto Longhi. Superfluo ricordare, a questo punto, i suoi primi dipinti, peraltro sostenuti da un altro grande storico dell’arte, Francesco Arcangeli. Certo, una simile fame di sapere, una simile urgenza conoscitiva acquistano un significato drammatico e premonitore alla luce della sua morte precoce, quasi che l’enfant prodige avesse avuto bisogno di bruciare le tappe per realizzare in tempo tutti i suoi progetti. Si spiegano così, per certi versi, la foga con cui lo studente ( che nel frattempo viene promosso capitano di calcio della facoltà di Lettere) divora la poesia di Montale e di Ungaretti, nonché le traduzioni di Quasimodo, mentre si imbatte in Freud e Marx, che rimarranno fra i punti fermi del suo pensiero: “eretico”, “corsaro”, in certi casi indubbiamente contraddittorio. Dopo Bologna, poi, è la volta di Casarsa, in provincia di Pordenone, città natale dell’adorata madre.
Qui avranno luogo due esperienze fondamentali: da un lato la scoperta della poesia dialettale, attraverso l’adozione della lingua friulana, dall’altro la realizzazione di un’omosessualità edenica, troppo presto trasformata in cacciata dal paradiso terrestre sotto forma di denuncia per corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico, espulsione dal partito comunista e revoca dell’incarico di docente. Senza più mezzi di sostentamento, e con la madre costretta a fare la donna delle pulizie, Pasolini si trasferisce a Roma, dove ben presto troverà, fra tante amicizie, quelle di Alberto Moravia e Bernardo Bertolucci. Poco dopo, la folgorante affermazione nel mondo letterario, giornalistico e cinematografico.
L’elenco delle sue opere è impressionante. In poesia si va dalle prove dialettali di La meglio gioventù (poi riscritto come La nuova gioventù) alle “romane” Ceneri di Gramsci, passando per La religione del mio tempo e Transumanar e organizzar . Nel romanzo, Ragazzi di vita e Una vita violenta , oltre al magmatico e incompiuto Petrolio . E mentre nel teatro spiccano testi quali
Affabulazione o Bestia da stile , tra i suoi film campeggiano capolavori come Accattone ,
Il Vangelo secondo Matteo ,
la trilogia della vita ( Il Decameron , I racconti di Canterbury , Il fiore delle Mille e una notte ) e il brutale, visionario Salò o le 120 giornate di Sodoma .
Grandi film, per un uomo la cui versatilità emerge bene dal rapporto con Federico Fellini. Il regista, che aveva fondato con Rizzoli una casa cinematografica, nel 1961 fu in trattative per produrre
Accattone . Viste le prove iniziali, però, si tirò indietro.
Oltre alle pellicole di finzione, altrettanto ricca fu inoltre la sua produzione di documentari, che spaziano dall’Emilia di Comizi d’amore all’Uganda di Appunti per una Orestiade africana, nel coraggioso e ingenuo tentativo di rinvenire il mito greco alle radici di culture preindustriali.
Occorre tuttavia illustrare ancora un passaggio di estremo interesse. A un certo punto, infatti, lo stesso uomo che, nella sua disperata nostalgia del passato agreste in cui viveva la provincia italiana, predicava il ritorno alle radici e il rifiuto della società capitalista, si trasformò in un viaggiatore indefesso, in un etnografo innamorato delle origini, pronto a cogliere ora “l’odore dell’India”, ora l’intatto fascino dell’antica architettura yemenita.
Proviamo dunque a tirare le somme. Abbiamo parlato di “costellazione Pasolini”, ad ogni modo, qualunque sia la similitudine che vogliamo adottare, ovunque vadano le nostre preferenze, una cosa è evidente: con l’autore di un film e opere teatrali, versi e romanzi, editoriali sull’omologazione e recensioni come quella su Mandel’stam quale caposcuola delle poesia russa, siamo di fronte a un talento così multiforme da meritare l’impiego del plurale. Se è vero tutto quanto detto finora, allora non dovremmo più dire: “Pasolini fu”, ma più semplicemente: “Pasolini furono”.
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Il corsaro. Un terzo occhio sul teorema del potere 
Pensatore pessimista e profetico, volle mostrare il vero volto, feroce e repressivo, dell’autorità. Nascosto sotto le spoglie dell’edonismo
GIOVANNI DE LUNA Repubblica 28 10 2015
L’Italia di oggi nacque con il boom economico, la grande trasformazione che ne riplasmò sentimenti, mode, abitudini, comportamenti politici, scelte di vita. Pier Paolo Pasolini ne fu protagonista e testimone e il suo lavoro si propone allo storico come una fonte indispensabile per avvicinarsi al senso profondo di quegli anni. Ma Pasolini ha anche egli stesso uno sguardo da storico, interessato al mutamento,alle brusche impennate della grande storia che rompono la crosta dell’immobilismo,
spezzano equilibri plurisecolari. Così, quando riflette sulla società italiana, lo fa con consapevolezza di chi si misura con una questione — quella della continuità/ rottura tra il fascismo e l’Italia repubblicana — che è tipicamente storiografica. Schierandosi decisamente per la “continuità”, il suo riferimento è a una Democrazia Cristiana che «sotto lo schermo di una democrazia formale e di un antifascismo verbale, ha perpetuato la stessa politica del fascismo», dando vita a un «regime poliziesco parlamentare ». Il blocco sociale su cui si fondava il consenso democristiano era lo stesso del fascismo mussoliniano: la piccola borghesia e i contadini uniti al grande capitale. Identico era anche il cemento ideologico fondato sul cattolicesimo e su valori quali la moralità, l’obbedienza, la disciplina, l’ordine, la patria, la famiglia.
La tesi della “continuità” era in gran parte condivisa dagli storici di allora. A marcarne l’originalità fu piuttosto il film su Salò o le 120 giornate di Sodoma , del 1975. In quel caso davvero si spinse in territori che la stessa storiografia ufficiale aveva fino ad allora complessivamente ignorato, restituendo al fascismo la sua essenza biopolitica, attribuendogli un Potere in cui si incarnava il Male assoluto. In quella Salò, il Potere consumava la sua ultima, parossistica orgia e lasciava affiorare, senza più mediazioni ed orpelli istituzionali, la volontà di impadronirsi — attraverso il sesso — dei corpi dei propri sudditi; una volontà di dominio che era la diretta conseguenza di quella “politicizzazione della vita” attraverso la quale, come avrebbe sottolineato Agamben, nelle esperienze del totalitarismo novecentesco il corpo dell’individuo diventava la posta in gioco delle strategie politiche, la politica si trasformava in biopolitica: la nuda vita, l’esistenza biologica degli individui, fino ad allora confinata in una terra di nessuno, veniva inserita nel circuito della statualità, con la vita e la morte che non erano più concetti scientifici ma politici, occasione per l’esercizio di un potere che si saziava umiliando e profanando i corpi delle vittime.
Ma Pasolini “storico” fu originale anche per altri aspetti. Fu tra i pochi, infatti, ad accorgersi di una “rottura” ben più profonda, avvenuta nell’inconsapevolezza di molti. «La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa — scriveva, nel 1974 — Non c’è più dunque differenza apprezzabile… tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente, e quel che più impressiona, fisicamente, interscambiabili... I giovani neofascisti che con le loro bombe hanno insanguinato l’Italia, non sono più fascisti... Se per un caso impossibile essi ripristinassero a suon di bombe il fascismo, non accetterebbero mai di ritornare ad una Italia scomoda e rustica, l’Italia senza televisione e senza benessere, l’Italia senza motociclette e giubbotti di cuoio, l’Italia con le donne chiuse in casa e semivelate. Essi sono pervasi come tutti gli altri dagli effetti del nuovo potere che li rende simili tra loro e profondamente diversi rispetto ai loro predecessori». Con le piazze arroventate da uno scontro ideologico ancora tutto novecentesco, queste considerazioni suscitarono un inevitabile scalpore. Pasolini argomentava il suo pessimismo segnalando due “rivoluzioni”, quella delle infrastrutture e quella del sistema di informazione, avvenute proprio negli anni del boom. Le distanze tra centro e periferia si erano notevolmente ridotte grazie alle nuove reti viarie e alla motorizzazione; ma era stata soprattutto la televisione a determinare in modo costrittivo e violento una forzata omologazione nazionale. Il nuovo Potere, nonostante le sue parvenze di tolleranza, di edonismo perfettamente autosufficiente, di modernità, nascondeva un volto feroce e repressivo. «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello reazionario e monumentale che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili ad uniformasi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a parole... Ora, invece, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e incondizionata ». Certo, erano giudizi eccessivi, disperati quasi. Pure oggi, alla luce di tutto quello che è successo dagli anni Ottanta, il pessimismo pasoliniano assume i tratti di una lucida profezia.©RIPRODUZIONE RISERVATA

Asor Rosa.Quando mi disse: “Sei l’uomo che mi ha fatto più male nella vita” 
Pier Paolo sapeva che rischiava di essere ammazzato E tutto ciò che scrive e fa negli ultimi due o tre anni va in quella direzione
SIMONETTA FIORI
«Vorrei dirlo proprio ai suoi più accaniti ammiratori: per carità non fatene un santino. Un destino che Pier Paolo non si merita». Cinquant’anni fa lo stroncò ferocemente in Scrittori e popolo come un piccolo-borghese piagnucoloso, romanziere fallito e refrattario all’avanguardia. Oggi rivede (ma solo in parte) le sue critiche e del polemista corsaro rimpiange la capacità profetica, seppure mossa da premesse reazionarie. Alberto Asor Rosa ripercorre il suo inquieto rapporto con Pasolini, mettendo in guardia dalla nuvola di incenso che rischia di neutralizzarne la carica dialettica.
Dallo “scandalo del contraddirsi” all’“icona pop” di oggi: il percorso di Pasolini risulta quasi paradossale. «Basta fare il raffronto con l’anniversario di Calvino, di cui ricorre il trentennale. Il clamore per Pasolini è enormemente più forte».
Come lo spiega?
«Calvino ha battuto una strada coerente con la sua natura di scrittore e intellettuale: il discorso razionale non intriso di passionalità e polemica. Pasolini evidentemente ha battuto la strada opposta. E la sua passionalità finisce per incontrarsi di più con gli strumenti della civiltà massmediatica».
Sta dunque dicendo che l’intellettuale che ci aveva messo in guardia dalla dittatura dei consumi rischia di essere il più consonante a questa civiltà?
«Entra di più nei suoi circuiti di comunicazione. La mia non vuole essere una critica postuma. La forza polemica di Pasolini consiste in una peculiarità: nell’atto di formulare giudizi e valori esibisce totalmente se stesso. Calvino fa l’operazione opposta: svolge la sua polemica politico-civile rifiutando di esibirsi. L’esibizione di se stessi è uno dei tratti fondamentali della nostra era massmediatica».
La corporeità di Pasolini è centrale in questo discorso.
«Mi viene in mente quella serie di fotografie che si fece scattare nel suo ritiro del Cimino mentre scrive nudo. Se lo immagina Calvino in mutande? Ma non è un giudizio di valore, è pura descrizione ».
Perché si preoccupa tanto di non apparire critico? Cinquant’anni fa lo fece a pezzetti.
«No, io rifiuto questa vulgata. La mise in giro il medesimo Pier Paolo, ma non era così».
Lui ci rimase molto male.
«Ci incontrammo in un’assemblea alla Sapienza, alcuni anni dopo l’uscita del libro. Io ero seduto in prima fila e lui, passandomi davanti, mi fulminò con lo sguardo a mirino: “Asor, l’uomo che mi ha fatto più male nella vita”».
Perché l’aveva stroncato?
«Io però vorrei correggere questo stereotipo. Nel saggio apparso su Scrittori e Popolo ci sono due Pasolini. Uno è quello che punta a scavarsi un posto di rilievo nella cultura contemporanea ammiccando alla linea progressista ufficiale: il verbo comunista. E di questa spinta sono il frutto i romanzi romani, che io trovo intollerabili proprio perché mescolano le sue pulsioni naturali con il quadro ideologico populista del canone ufficiale».
Ma i critici comunisti lo accolsero con sospetto.
«E lui reagì con stupore: ma come è possibile? Ho scritto quei romanzi proprio tenendo conto della vostra linea… » Questo Pasolini non le piaceva.
«E continua a non piacermi. Ma in quel mio saggio c’era anche un altro Pasolini, l’autore delle poesie e dei romanzi friulani, espressione autentica del suo rapporto elegiaco con il mondo popolare.
E c’era anche il Pasolini delle Ceneri di Gramsci , dove lui riflette criticamente e autocriticamente sul suo stare al mondo e sul suo rapporto con l’Italia contemporanea. Il mio giudizio era già allora articolato e lo sarebbe diventato ancor di più nei passati decenni».
Sì, certo, non fu solo stroncatura.
Ma nella parte critica non mancano passaggi molto aspri. Soprattutto quando lei lo rimprovera atteggiarsi a «povero martire che invoca grazia e pietà», che «pretende tregua e dunque confessa inferiorità», che in sostanza «chiede di essere amato anche dal nemico».
«Ma su questo non ho dubbi. Anche qui il parallelo con Calvino è utile: Calvino non ha alcun bisogno di essere amato perché la sua intellettualità e la sua natura sono autonome. Pasolini aveva un urgente bisogno di essere riconosciuto. Prima accennavo alla richiesta di comprensione e di aiuto che avanzò alla cultura progressista: comprensione e aiuto che i critici comunisti si guardarono bene dal concedergli. In sostanza il bisogno di riconoscimento gli venne negato non solo dal ceto dominante conservatore e democristiano, ma anche da quella cultura comunista che sarebbe dovuta essere la interlocutrice privilegiata. Questo accentua il suo conflitto con il mondo fino agli esiti tragici finali».
Gli negherebbe ancora il ruolo di sperimentatore? In “Scrittori e Popolo” lo ritrae come un letterato conservatore nemico dell’avanguardia.
«Negare oggi il ruolo di sperimentatore a Pasolini sarebbe francamente assurdo, però letterariamente la sua è una sperimentazione che si muove molto nei solchi della tradizione. E io all’epoca mi concentravo sulla sua opera letteraria».
E quell’accusa di piccolo-borghese? A sinistra suonava come un insulto.
«Sì, un’accusa che ci siamo rinfacciati a vicenda. È una terminologia di quegli anni e oggi non mi verrebbe in mente ritirarla fuori. Decisamente datata».
I vostri rapporti si interruppero?
«No, tra noi non c’erano mai stati rapporti personali. Quando uscì Scrittori e Popolo io avevo 32 anni ed ero uno sconosciuto, sideralmente lontano dalla società culturale romana che aveva una struttura monocratica e chiusa. Il gruppo Moravia-Pasolini-Betti-Siciliano viveva in una sua realtà impermeabile. E io ai salotti romani bene preferivo il volantinaggio in fabbrica».
Oggi rimpiange il Pasolini profetico.
«Sì, partendo da premesse totalmente sbagliate riuscì a cogliere meglio di chiunque altro le aberrazioni del progresso. Una forza di denuncia e di previsione impressionante».
Però allora a sinistra era considerato reazionario e antiprogressista.
«Lo era, indubitabilmente. Era assetato di passato. Rimpiangeva un mondo incontaminato senza cogliere gli elementi di progresso che pure tra gli anni Cinquanta e Sessanta segnarono la crescita del nostro Paese. Ma il prevalere di questo elemento primigenio ha finito per rendere la sua denuncia più violenta e profetica».
Crede che la sua morte fu dovuta a un complotto?
«No, non ci credo. La sua morte fu coerente allo stile di vita. Non voglio dire che cercasse di essere ammazzato, ma se uno fa la vita che faceva Pier Paolo non può non sapere che rischia di essere ammazzato. E tutto quello che scrive e fa negli ultimi due o tre anni muove in quella direzione».
Cosa le dà fastidio delle celebrazioni di oggi?
«Invece di capirlo e interpretarlo si tende a farne un santino spegnendone la carica critica pungente. Il profeta dell’omologazione rischia di essere consumato come un prodotto di massa ».
Walter Siti sostiene che intorno a Pasolini è tutto un pigolio, ma in realtà non ci sono eredi: nessuno si è confrontato davvero con la sua ricerca.
«Sì, ha ragione. L’unico è Saviano, che lo cita in Gomorra come oggetto di pellegrinaggio alla tomba di Casarsa e ne tiene un po’ conto nella descrizione della società camorristica. Per il resto non vedo eredi pasoliniani come non vedo né fortiniani né calviniani. Non ci sono eredi e basta».
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L’eros. Tra i demoni alla ricerca dell’Origine 
Le contraddizioni e le pulsioni vissute nella propria carne
MASSIMO RECALCATI
Sono diverse e note le contraddizioni che attraversano la vita e l’opera di Pasolini: individualista, testimonia con coraggio l’impegno civile e collettivo dell’intellettuale; anticlericale, si schiera risolutamente contro l’aborto; comunista militante entra in un conflitto aspro con il Pci; ateo, marxista, resta cristiano nello spirito; anticonformista, detesta l’anticonformismo; contestatore vigoroso del “sistema” si schiera contro i giovani contestatori del ’68; anti-paternalista, non si risparmia nel segnalare il rischio del tramonto del padre nel nostro tempo; sperimentatore della lingua, resta critico irriducibile di ogni avanguardismo; straordinario poeta civile, conduce pascolianamente la poesia verso i propri drammi più segreti e indicibili; pedagogo libertario, riconosce come insuperabile la figura del maestro; poeta sublime dei corpi e della loro esuberanza pulsionale, ne ha messo in scena il loro oltraggio e la loro devastazione; omosessuale e ribelle è un conservatore dei valori della tradizione. Ragione e passione, storia e natura, pensiero critico e pulsione non trovano mai in lui una conciliazione stabile, ma permangono in uno stato di perenne dissidio. La sua stessa psicologia individuale appare scissa tra gentilezza e attitudine alla provocazione, altruismo e rapacità pulsionale, divismo e umiltà, mondanità e solitudine. Libertario nei modi e nel pensiero, è preda di un fantasma che lo obbliga ad un godimento compulsivo simile a quello di cui è stato, paradossalmente, un feroce critico. È forse quest’ultima contraddizione quella che lo ha reso veggente, capace cioè di leggere nello sviluppo promosso dal capitalismo italiano del secondo dopoguerra, salutato come una redenzione, l’inizio di un’epoca di barbarie, un “nuovo fascismo”, il volto più prossimo dell’inferno. Pasolini ha potuto decifrare quell’inferno — l’inferno della mutazione antropologica dell’uomo in consumatore, ovvero della distruzione dell’uomo — perché lo viveva intimamente nella sua stessa carne?


Se ci chiediamo da dove scaturiscano tutte queste contraddizioni che così radicalmente lo dilaniano non possiamo non mettere in primo piano la sua spinta indomita ad attingere all’Origine, alla fonte prima, alla verità del Mito, ad un “essere” non ancora, come si esprimeva Artaud, tradito dal linguaggio. Non è forse questo fantasma ad orientare Pasolini e la sua opera? Pasolini-Rousseau? L’esordio dell’ Emilio del filosofo francese suona come una sintesi perfetta del fantasma pasoliniano: «Tutto è bene quando esce dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera nelle mani dell’uomo». Lo sviluppo è senza progresso perché ci allontana dalla verità dell’Origine, ci costringe a perdere contatto con la vita e con il suo fondamento sacro e mitologico. Nelle mani della ragione strumentale tutto non può che degenerare. Pasolini si muove allora verso Sud — come Nietzsche, Rimbaud, Van Gogh — per trovare il corpo nudo, incorrotto e immacolato del popolo (friulano, romano, africano) e della sua lingua. Il suo presupposto è anti-storico. Si può ridurre il suo genio ad un Edipo irrisolto? Se nel legame con la madre si gioca sempre il problema del nostro legame con la vita e con la sua Origine, le contraddizioni di Pasolini rivelano la sua difficoltà ad abbandonare non tanto la madre, ma l’idea nostalgica di una armonia ineffabile della vita che precede l’esistenza del linguaggio di cui la madre è solo il simbolo. È questo, a mio giudizio, il cuore inconscio dell’uomo e della sua opera. Preservando il mito della vita come assoluto Bene, egli non può che restare diviso tra la trascendenza del desiderio che lo sospinge in avanti e un rimpianto struggente nei confronti della perdita inevitabile dell’Origine che lo mantiene costantemente ripiegato all’indietro, preda della spinta conservatrice, come direbbe Freud, della pulsione e del suo godimento, il quale, se privato della trascendenza del desiderio, non può che rivelarsi distruttivo.


Alessandro Zaccuri Avvenire 29 ottobre 2015



“Le mie notti sveglia a casa ad aspettare Pasolini” 
Graziella Chiarcossi ricorda il cugino con cui ha vissuto “La sua morte?Un mistero.Ma non voglio leggerne niente”

SIMONETTA FIORI  REpubblica 20 10 2015

Graziella è cugina di Pier Paolo. Con lui ha vissuto per tredici anni, dal suo arrivo a Roma nel 1962 fino alla morte dello scrittore. Ne ha sposato un allievo prediletto, Vincenzo Cerami, che ora ci osserva con sguardo bonario da una parete della casa di Monte Mario. «Se ci fosse Vincenzo sarebbe tutto più facile », dice Graziella Chiarcossi, un viso scolpito in quella materia di cui sono fatti i sentimenti. Per lei gli anniversari pasoliniani sono un tormento. Ne detesta la retorica, la celebrazione futile, il tormentone complottista, la fiera delle vanità. Per questo non ha mai raccontato del Pier Paolo privato, del suo pudore sentimentale, degli scoppi di risa improvvisi,del rapporto giocoso con il cibo, della
sua frivolezza, della felicità per una cravatta nuova, dei rituali calcistici davanti alla tv. Come se avesse paura di svenderlo nel supermarket memoriale. Lei è anche una filologa, si è laureata con Aurelio Roncaglia, ha lavorato per tanti anni alla Sapienza, ha curato l’edizione di Petrolio , e di Pier Paolo è una sorta di esecutrice testamentaria. Ma ora nel soggiorno di casa, sedute sul divano in radica che proviene dal set di Salò , parliamo di un altro Pasolini. Famigliare, intimo, imprevedibile.
I primi ricordi di Pier Paolo?
«Cinema e cocomero. Io vivevo in Friuli e scendevo a Roma solo d’estate, nella casa in cui Pier Paolo viveva con i genitori. Nel 1952 avevo nove anni, una bambina. E lui, trentenne, si prendeva cura di me. Il cinema a San Lorenzo e scorpacciate d’anguria ».
Aveva una vocazione pedagogica.
«Era uno dei tratti principali. Durante la guerra lui e la zia Susanna avevano creato a Versuta, a pochi chilometri da Casarsa, una scuoletta privata gratuita dove Pier Paolo teneva lezioni per gli studenti che non potevano raggiungere Pordenone e Udine. E ha insegnato fino al 1949, quando il provveditorato ne revocò l’incarico dopo la denuncia per corruzione di minore».
Fu allora che lasciarono Casarsa per trasferirsi a Roma.
«Sì, vennero giù lui e la madre, aiutati dallo zio Gino Colussi, che faceva l’antiquario. Zio Gino gli procurò una stanza a Portico d’Ottavia. Nel 1951 li avrebbe raggiunti il padre Carlo Alberto, che trovò la casa di Ponte Mammolo».
Si percepiva il rapporto privilegiato tra Pier Paolo e la mamma?
«Sì, molto forte. Non era una relazione sdolcinata perché entrambi avevano pudore dei propri sentimenti. In Pier Paolo c’era un fondo di timidezza che lo tratteneva dall’esibire affettività. La sua manifestazione più espansiva era una carezza: muta, profonda, di chi partecipa del tuo dolore».
Senza troppe parole.
«No, mai. “Ehi Ninata cosa c’è?”, mi chiedeva quando mi vedeva assorta. Nina in friulano vuol dire bambina. Poi quel gesto lento sui capelli, senza chiedere oltre. Captava da lontano gli umori, specie se malinconici. E quando ebbi problemi amorosi, per distrarmi mi fece lavorare in Medea».
La mamma ne aveva accettato l’omosessualità.
«Sì, anche se tra loro rimase un argomento tabù. Come se fossero legati da un patto complice – io so e tu sai che io so, ma è meglio non parlarne ».
Per il padre fu più complicato.
«Lei pensi: un ufficiale di fanteria, fascista, reduce dalla prigionia in Africa si ritrova un figlio ucciso dai partigiani comunisti a Porzûs e l’altro figlio dalla sessualità irregolare. Io per zio Pasolini – lo chiamavo così, essendo cugina dal lato materno Colussi – ho sempre avuto uno straordinario rispetto ».
Lei Graziella percepiva il tormento sessuale di Pier Paolo?
«No, per niente. A me l’avrebbe detto Vincenzo, che conobbi quando mi trasferii a Roma per iscrivermi all’università. Avevo diciannove anni e fino a quel momento non mi ero accorta di nulla. Una cosa incredibile. I miei non mi avevano detto nulla».
Come reagì?
«Sorpresa e forse un po’ a disagio per non averlo capito. Allora chiesi a Vincenzo, che era stato allievo di Pier Paolo: ma tu hai avuto un rapporto privilegiato con il professore o c’è stato qualcos’altro? E Vincenzo mi rispose con una cosa che mi è rimasta impressa: Pier Paolo sapeva con quali persone poteva avere un rapporto. Capiva dalla sensibilità o dalla psicologia che non era il caso».
Ma lei ne parlò mai con Pier Paolo?
«No, assecondavo il patto di silenziosa complicità. E difendevo la zia da scandali e denunce. Solo una volta ebbi il coraggio di rimproverarlo perché aveva lasciato aperto sul tavolo un giornale che diceva cose sgradevoli: perché creare inutili sofferenze? Lui mi assecondò senza dire niente».
Ma lui portava a casa i suoi amori?
«Ninetto Davoli sì, veniva spesso a pranzo. Una straordinaria carica di vitalità e allegria. Susanna stava sulle sue, ma si capiva che gli voleva bene. Ninetto rappresentò un oggetto d’amore idealizzato. E quando decise di sposarsi con Patrizia, Pier Paolo ne soffrì orribilmente. Fu Elsa Morante, grandissima amica, a farlo tornare alla realtà».
Comunque la famiglia non osteggiava le sue amicizie maschili?
«Gli affetti di Pier Paolo erano accolti con calore, mentre la sua vita sessuale affidata agli incontri casuali veniva tenuta rigorosamente fuori di casa».
Lei era preoccupata?
«Sì. Nei primi anni romani era stata Susanna a restare sveglia la notte in attesa del figlio. Poi cominciai io a non dormire finché sentivo i passi di Pier Paolo all’ingresso. Però negli ultimi anni – ed è paradossale – mi ero come acquietata. Lui non faceva più le ore piccole, e io ne traevo motivo di conforto ».
È vero che aveva paura di invecchiare?
«Sì, questo sì. Negli ultimi tempi lo vedevo più cupo ma era come se si sentisse addosso la mutazione antropologica degli italiani.
Era diventata un’ossessione che si è poi rivelata profetica. Al fondo c’era una disperazione. Ma non vorrei appiattire il ricordo sulle immagini più sofferte ».
Quali sono i ricordi allegri?
«Le improvvise risate: da solo, seduto in poltrona, mentre leggeva qualcosa. Aveva un forte senso
dell’umorismo e ci teneva anche che venisse fuori dai suoi libri, penso in particolare a Petrolio . Ricordo la sua felicità quando prendeva in mano le seicento pagine del dattiloscritto, come se lì avesse riversato tutta la forza della sua creatività. Un’immagine che stride con la lettura luttuosa che è stata fatta di quel suo lavoro».
Era conviviale?
«Moltissimo. La zia sapeva cucinare molto bene: gnocchi alla romana, pasta con la ricotta, il ragù bolognese, le creme, la torta margherita. E a Pier Paolo piaceva invitare gli amici, soprattutto quando abitava a Monteverde Vecchio. Ma ricordo un Natale molto festoso anche nella casa dell’Eur con Moravia, Dacia Maraini e Laura Betti. Veniva spesso anche Elsa. C’era Elsa quando dissi a Pier Paolo che mi ero innamorata di Vincenzo: lei reagì con un’allegria amorevole, mentre Pier Paolo ci scrutava divertito ».
C’era in lui un fondo di frivolezza.
«Sì, amava circondarsi di cose belle. Si vestiva anche con grande accuratezza: giubbetti di pelle, giacche con i revers di velluto, calcolate geometrie di righine. Aveva un debole per le scarpe, che portava con qualche centimetro di tacco per essere più alto. Frequentava un bellissimo negozio di piazza di Spagna, Ottantaquattro, mentre per noi comprava abiti raffinati da Ritz Saddler, lì vicino. Le sue cravatte le ho volute conservare».
Mi racconta la notte tra l’uno e il 2 novembre del 1975?
«Ero sveglia quando bussarono due agenti della polizia: cercavano Pier Paolo, mi dissero che avevano trovato la sua auto in via Tiburtina. Aspettai sveglia fino al mattino e poi andai a chiedere notizie dai carabinieri dell’Eur: silenzio totale. Allora da una cabina telefonica chiamai Ninetto, che però farfugliava. Mi misi a urlare, sentivo la sua voce che si sovrapponeva a quella di Patrizia. Alla fine me lo dissero».
E la madre Susanna come reagì?
«Tornai a casa ma non riuscii a darle la notizia. Per lei era la seconda volta, il secondo figlio ammazzato, non avevo la forza per farmene carico. Così glielo disse la Betti, affiancata da un medico. Un incidente, le raccontarono. Ma lei non capì, o forse non volle recepirlo rintanandosi nella demenza senile che aveva dato timidi segnali. La malattia fu la sua salvezza».
Lei crede nella tesi del complotto?
«Mah, tendo a non credere a niente. Sono circolate troppe leggende metropolitane. Non credo al furto delle pizze di Salò come trovo risibile il giallo del capitolo rubato di Petrolio. Non credo che c’entrasse la banda della Magliana come non credo all’incidente di percorso nell’ambito delle sue relazioni omosessuali. Per me è rimasto un grande punto interrogativo. Con un’unica certezza: l’assassino non era da solo. E ora non voglio leggere o vedere film sulla sua morte: perché devo farmi del male? ».

Il corpo mai sepolto 
Per lui era la misura delle cose,la sua ossessione, la sua dannazione.A quarant’anni esatti dalla morte di P.P.P. la lezione di Fabrizio Gifuni sul poeta che ha scelto di mettere la fisicità al centro della scena
FABRIZIO GIFUNI Repubblica 2 11 2015
NON C’È un altro poeta del ‘900 italiano che abbia messo con maggior decisione il corpo al centro della scena. Con la grazia e la scandalosa, feroce mitezza che faceva unica la sua voce, Pasolini lo ha trasformato nel più potente ordigno metafisico mai depositato sul suolo della letteratura contemporanea, in grado di propagare le sue onde magnetiche sulla sua vita, sull’opera e sulla sua stessa morte.
ultimi quindici anni. Il mio lavoro è questo. Prendo le parole degli altri. Attraverso la memoria, qualche volta solo con gli occhi, me le metto addosso. Le peso. Poi le condivido con gli altri e non smetto più di farlo. Fine. Con Pasolini l’agone – il complesso dei giochi – confina spesso con un’agonia. Ma il piacere è vertiginoso. Molto potenti le sue parole.
Negli ultimi quarant’anni di storia italiana ci sono due corpi diversamente insepolti, sulla cui ombra lunghissima la società italiana continua ad inciampare. Quello di Pasolini e quello di Aldo Moro. Entrambi con un portato simbolico immensamente più forte di tutte le trame possibili e immaginabili. Due corpi che non esauriranno mai la loro carica anche se una verità giudiziaria, certa e definitiva, o i loro stessi fantasmi, venissero un giorno a raccontarci una volta per tutte come andarono davvero le cose. Il che non significa affatto lasciarsi distrarre rinunciando a cercare quella verità con tenacia e lucidità ma solo tener conto di quali effetti quei corpi continuino a produrre, a prescindere, su un altro terreno di non minore portata. Corpi ombra che si allungano o si accorciano ma non scolorano mai.
Per questo quando Giuseppe Bertolucci mi propose di cambiare il titolo del nostro primo lavoro teatrale dedicato a Pasolini da ‘Danza di Narciso’ in ‘Na specie de cadavere lunghissimo’ – da un verso in romanesco del grande poeta milanese Giorgio Somalvico – trovai subito perfetta la sintesi che quell’endecasillabo era in grado di produrre.
Ed è sicuramente dall’ombra vitale di quel corpo che partirei se dovessi raccontare a un ragazzo, come a volte mi accade, cosa mi ha portato negli anni a frequentare le parole di Pasolini. Ragionerei con lui su cosa abbiano a che fare quelle parole/corpo con la nostra vita, quarant’anni dopo la sua morte. Da questo partirei, se dovessi parlare a un ragazzo nato già nella nuova epoca – quella della Rete - successiva ma distante anni luce da quella in cui sono nato io – quella della televisione - che Pasolini era solito chiamare icasticamente il nuovo Fascismo , per differenziarlo dal vecchio.
Il corpo era per lui la misura delle cose. La sua ossessione. La sua dannazione certo, impossibile non pensarlo ora. Quando parlava con i suoi pochi amici e interlocutori non mancava mai di avvertirli. C’è una differenza fra voi e me, sempre gli diceva. Non c’è nulla di quanto scrivo che non passi attraverso un’esperienza fisica ed è questa solo a contare davvero. Per voi è diverso. Non dico affatto che sia meglio o peggio, perché infiniti sono i labirinti della scrittura, ma forse solo in questo risiede la mia diversità. Si può essere grandi scrittori senza dover vivere tutto fisicamente, è vero, ma si fa molta più fatica a comprendere la società e i suoi meccanismi senza conoscere i corpi. Questo solo dovete ammettere, gli diceva.
«Con questa vita io pago un prezzo. E’ come uno che scende all’inferno. Ma quando torno, se torno, ho visto altre cose, più cose di voi» - fa in tempo a dire a Furio Colombo poche ore prima di sparire nella notte.
E poi: «Io lo so, caro Calvino, com’è la vita di un intellettuale, lo so perché in parte è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente perbene. Ma io come il Signor Hyde ho un’altra vita», scrive al suo amico nel luglio del ’74 in una lettera aperta su Paese Sera . Osservava le interiora della società come gli antichi aruspici facevano con quelle degli animali, leggeva i segni, si improvvisava semiologo: la nuova urbanistica, la differenza fra un ghigno e un sorriso in un ragazzo, gli oggetti e i nuovi mezzi di comunicazione. I corpi, sempre.
Conosceva la metafisica non dualistica dei grandi Sapienti, Pasolini. «Io sono nero di amore, né fanciullo né usignolo, tutto intero come un fiore. Desiderio senza desiderio», sono i versi bellissimi di un Pasolini ventenne quando si aprivano le
Danze di Narciso .
«Io sono un prete e un uomo libero, due scuse per non vivere». Come per Eraclito anche per lui il mondo non era altro che un tessuto illusorio di contrari: padre e figlio, natura e opera d’arte, vittima e carnefice. Ma anche il buio e la luce, la violenza e la mitezza, Paolo di Tarso e Paolo di Casarsa. Carlo di Polis e Carlo di Tetis, protagonisti del suo romanzo postumo. Dottor Jekyll e Mister Hyde.
Conosceva bene la Grecia Pasolini, la tragedia e i suoi misteri. Occorre prima aver filmato Edipo Re e Medea , averne connotato i volti, per immaginare di poter bere il ciceone, la bevanda iniziatica dei Misteri di Eleusi, viatico di quel suo ultimo strabiliante romanzo. Perché è solo dopo averlo bevuto che si può iniziare a pronunciare e ad ascoltare il Romanzo, non importa più di quale strage, in una saletta del Quirinale dove l’Italia trema e trama.
Indagava la sostanza profonda del rito, Pasolini. Prima di Cristo e dopo Cristo. Conosceva a fondo la storia del Messia, la sua insostenibile concretezza, ed è per questo che nessuno ha mai fatto un film così bello e così vero come Il Vangelo secondo Matteo , direi a quel ragazzo. Colpa, peccato, sacrificio, redenzione erano il pane che maneggiava ogni giorno, accarezzando la bestemmia.
Inizia molto presto a scrivere versi sulla sua morte, per prenderci confidenza. E lo fa nella lingua madre.
Il dì de la mi muart – il giorno della mia morte - è il titolo di una poesia giovanile scritta tra il ’43 e il ’49 e inserita nella raccolta La meglio gioventù . Ma quando torna a riscriverne le varianti buie a pochi mesi dalla sua morte, non più poetica, non esita ad aggiungere in epigrafe un versetto di Giovanni che dice: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non morirà, rimarrà solo, ma se morirà darà molto frutto…».
Nessun altro poeta che io sappia, racconterei senz’altro a quel ragazzo, è riuscito a immaginare più di dieci anni prima (1964) la morte del suo corpo disegnando una poesia come fosse una rosa. «Sono come un gatto bruciato vivo/pestato dal copertone di un autotreno/impiccato da ragazzi a un fico/ma con ancora almeno sei delle sue sette vite/ Come un serpe ridotto a poltiglia di sangue/un’anguilla mezza mangiata/ Le guance cave sotto gli occhi abbattuti/i capelli orrendamente diradati sul cranio/un gatto che non crepa…». Nessun altro regista, forse gli direi, è riuscito a filmare sua madre ai piedi della croce.
Qualcuno ipotizza e ipnotizza l’eresia impronunciabile. Che persino lo spazio fisico della sua morte – Ostia – porterebbe nel nome quell’indicazione cifrata. Come a dire: ora che il mio corpo è caduto, morto nella polvere, forse potrete mangiare il mio nome con qualche frutto, anziché continuare a rimasticarlo sconciamente nelle vostre sale da pranzo all’ora del telegiornale, dopo averlo degradato nei vostri cinegiornali di regime o nelle aule dei tribunali italiani (Pasolini subì una ventina di processi penali oltre ad un numero imprecisato di denunce, segnalerei a quel ragazzo).
E persino il tempo - nel buio di una notte che separa il giorno dei santi da quello dei morti- si impiglierebbe in questa oscura cabala che qualsiasi mente razionale, certo, non può che allontanare. Quel che è difficilmente allontanabile anche per chi è abituato a camminare con scarpe robuste solo nella parte visibile del mondo, è che Pasolini si occupò incessantemente della vita e della morte dei corpi, a partire dal suo, in egual misura, da quando iniziò ad essere un poeta. E anche con questo ci ha obbligato a fare i conti.
Della vita soprattutto, certo. Su questo insistono con ragione e con affetto sincero i suoi amici, per scongiurare il rischio di un’estetica della morte legata al suo nome. E di vita ribollono senz’altro la sua grande poesia, i suoi romanzi, i suoi film più belli, il suo implacabile, amatissimo e odiatissimo, impegno civile. Non solo il Riccetto e gli altri Ragazzi di vita ne sono pieni, non solo Accattone e Mamma Roma ma persino Salo’ o le centoventi giornate di Sodoma ,
sì, anche il film più disturbante del cinema italiano, in fondo cos’altro è se non la prova estrema di un attaccamento alla vita visto attraverso la lente dei suoi carnefici? Essere costretti a fare i conti con la morte non vuol dire affatto escludere bellezza e vita ma solo rispettare l’interezza del suo corpus poetico. C’è davvero ancora bisogno di ripeterlo?
Eccoci invece pronti a riascoltare che alla fine di ottobre Pasolini aveva ancora mille progetti da realizzare e nessunissima voglia di morire o che invece no, non è vero, perché da qualche parte neppure tanto segreta desiderava da tempo non essere più corpo vivo.
Meno male che un attimo prima di sparire nella notte aveva fatto in tempo a dirci: «Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me questa sembra un’altra delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando scaffali».

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