martedì 27 ottobre 2015

Perché il Corriere ripubblica Pasolini?


Quali sono le affinità o le convergenze ideologiche di fondo che sollecitano questo reiterato interesse? [SGA].

Da oggi con il quotidiano le opere dell’intellettuale ucciso il 2 novembre 1975 A quarant’anni dalla morte, l’estrema attualità di un uomo estraneo alla società letteraria del suo tempo. E capace di fare della scrittura un suo secondo corpo. Come Leopardi 

L’esordio infinito di un sovversivo27 ott 2015  Corriere della Sera di Emanuele Trevi © RIPRODUZIONE RISERVATA
Anticipiamo un brano del testo intitolato «Ritratto di Pier Paolo Pasolini» che Emanuele Trevi ha scritto per il romanzo «Ragazzi di vita» pubblicato nella collana del «Corriere della Sera» 
Il talento è una frusta, diceva Truman Capote, e a nessuno meglio che a Pier Paolo Pasolini si addice questo giustissimo ammonimento. Di fronte ai titoli di una nuova collana delle sue opere, si rimane ancora oggi sbalorditi: le energie spese in tanta ricchezza, in tanta varietà di esperimenti, sembrano quelle di un’intera epoca della letteratura, e non di un singolo individuo. E quella che qui si presenta è una scelta, tra le tante altre che si potevano fare. Fin dal primo periodo friulano l’inquietudine, tratto fondamentale del suo carattere, induce Pasolini a crearsi delle nuove sfide, e ogni sfida lo porta lontano, in un terreno di assoluta originalità. Se per assurdo avesse finito la sua carriera con Ragazzi di vita e Una vita violenta, staremmo ancora a parlare di lui. E, invece, tutto doveva cominciare, e sarebbe ricominciato moltissime volte. Come se non si trattasse di costruire serenamente, libro dopo libro, un’ « opera completa», ma di esordire nuovamente a ogni svolta del cammino, e fino all’ultimo respiro. 

Già da queste considerazioni, si potrà facilmente intuire che Pasolini, pur così capace di lanciarsi in nuove imprese, è tutto il contrario di un dilettante («il dilettantismo», affermava senza esitare Marcel Proust, «non ha mai portato a nulla»). Da un capo all’altro della montagna di scritti che si è lasciato dietro, non c’è mai nulla, si può dire, di marginale, di fatto con la mano sinistra. Anche nel progetto mai portato a termine, nell’abbozzo dimenticato, nella versione abortita noi sentiamo sempre l’odore, inconfondibile, della necessità. E non c’è occasione che venga presa alla leggera. Perché a partire da ogni circostanza si può mirare all’essenziale, moltiplicando i punti di vista e mai dimenticando a che tipo di pubblico è destinata quella particolare forma, quel tipo di linguaggio che viene adottato. Da questo punto di vista, la collaborazione a giornali e riviste rivela molti aspetti del talento polimorfo di Pasolini. Un fatto assolutamente normale nella carriera di ogni scrittore, come la collaborazione a una testata prestigiosa, viene investito di significati inauditi. Così, quando Piero Ottone, agli inizi del 1973, invita Pasolini a collaborare al «Corriere della Sera», cerca una grande firma da aggiungere alle altre presenti sul giornale, e finisce per innescare un’avventura intellettuale che ancora oggi risulta, nelle pagine degli Scritti corsari e delle Lettere luterane, bruciante e provocante. Viene da chiedersi quanti altri articoli destinati a un quotidiano possiedano dopo quasi mezzo secolo la forza di provocazione e l’intelligenza poetica della realtà di quelli scritti da Pasolini negli ultimi anni della sua vita, quando sembra che il calore accumulato lungo tutto il cammino si trasformi in uno stato di perpetua incandescenza. 
Gli Scritti corsari, le Lettere luterane, gli altri articoli pubblicati postumi con il titolo (d’autore) Descrizioni di descrizioni, assieme a Petrolio ea Salò, sono i singoli e solidali tasselli di un’immagine del mondo che può scaturire solo dalla capacità di rimettersi in gioco, di non servirsi mai di quello che già è stato fatto per pregiudicare ciò che ancora resta da fare. Come tutti sappiamo, questa ultima immagine del mondo è condizionata da un profondo, irrimediabile pessimismo politico e antropologico. Quello che Pasolini vede intorno a sé non ha che l’aspetto esteriore del progresso. Ma è solo omologazione, pubblicità, dittatura dei consumi e del consenso. Non c’è un’altra parola che più di «genocidio» possa definire il contenuto di questa spietata diagnosi. È una parola grave, una parola-limite, e chi la pronuncia ne sente tutto il peso. Ma bisogna stare sempre attenti a non confondere Pasolini con quella figura del profeta di sventure che già ai suoi tempi è tutta interna all’industria culturale, abilissima a trasformare in merce ogni forma di protesta, destituendola alla fine di credibilità e autenticità. Il fatto è che in Pasolini il metodo della conoscenza non può essere mai separato dai suoi contenuti. Potremmo definire questo metodo erotico, non solo e non tanto alludendo alle abitudini sessuali, ma perché il corpo e la mente non vanno mai separati, procedono verso una verità che sfugge sempre alla sua cristallizzazione, e va interrogata, toccata con mano, giorno dopo giorno e notte dopo notte. Se volessimo trovare nella letteratura italiana un investimento così totale di sé nella propria ricerca, capace di fare della scrittura un secondo corpo, è solo il nome di Giacomo Leopardi che potremmo fare accanto a quello di Pasolini. E non sarà un caso che si tratti di due pecore nere, che puntano i piedi di fronte alle fedi più ardenti del loro tempo, che non ci cascano mai, che non condividono le sacre verità sociali specie se ammantate dalle insegne del progresso. 
Da questo atteggiamento fondamentale venne fuori, abbastanza precocemente, una figura di intellettuale del tutto sovversiva ed estranea alla società letteraria del suo tempo. Ma, a differenza di tanti suoi coetanei, a Pasolini non interessa semplicemente distruggere il ruolo. Semmai, intende completarlo. Dunque, come scrittore e intellettuale, come regista ed uomo di teatro, accetta con serietà le prerogative e le responsabilità della sua condizione. Lavoratore instancabile, conduce la vita dei suoi simili, li frequenta quotidianamente, non riconosce nessuna utilità in una pratica orgogliosa della solitudine. Tutto questo, nelle sue giornate, dura all’incirca fino all’ora di cena. A quel punto, però, si alza da tavola e sparisce nell’oscurità, nell’altra parte — là dove nessuno dei suoi simili intende seguirlo —. Questo sdoppiamento è l’origine della differenza del suo sguardo, e lungi dall’essere percepito come una colpa è rivendicato orgogliosamente fino all’intervista concessa a Furio Colombo che precede di poche ore la morte. Voi, dice in sostanza Pasolini per l’ultima volta, riferendosi agli intellettuali, agli scrittori, voi non vedete la società come la vedo io, non per un limite di intelligenza o di cultura, ma perché non conducete la vita che conduco io.  
Dunque, quando parliamo della realtà a cui sempre punta Pasolini, dobbiamo pensarla in relazione a una sensibilità che vive in un perenne stato di emergenza, che riunisce nella stessa persona il giorno e la notte, il potere rivelatore delle parole e il loro contrario. Questa concezione di sé si riflette ancora in Petrolio, l’ultima e la più ambiziosa impresa di Pasolini, iniziata nell’estate del 1972 e brutalmente interrotta dall’assassinio. Ma la sua presa di coscienza è molto più precoce. Suggerivo prima che non esistono scritti «minori» di Pasolini, perché in tutti si rivela la stessa inquietudine, la stessa capacità di portare fino alle estreme conseguenze un certo genere di scrittura, per poi passare ad altro.      


«Né icona né intoccabile» L’eredità di un maestro
Quattro autori sotto i quarant’anni raccontano la lezione del poeta Dalla ricerca sulla lingua al realismo: «Ha saputo guardare davvero altrove»Coraggioso «Ha insegnato a uscire dalla provincia, anche rischiando di lasciare i propri nodi narrativi» Innovatore «Ha portato nell’Italia di allora fascinazioni impensabili come l’etnografia»
27 ott 2015 Corriere della Sera Di Ida Bozzi © RIPRODUZIONE RISERVATA
Dell’eredità di Pasolini parlano spesso i suoi «contemporanei», o meglio intellettuali e autori che hanno condiviso con lui anche solo parzialmente un’epoca, tra gli anni Sessanta e i Settanta, e quindi hanno conosciuto l’atmosfera e il contesto in cui Pasolini, specie negli ultimi anni, ha lavorato e scritto. Ma raramente si ascolta la voce di chi quegli anni non li ha vissuti affatto, semplicemente perché è nato dopo, eppure si occupa proprio del lavoro letterario e intellettuale, poetico e culturale, in cui era impegnato Pasolini.
Così ci domandiamo: esiste ed è definibile un’attualità pasoliniana, se non addirittura una lezione pasoliniana, per gli autori che sono venuti dopo quel 2 novembre 1975, giorno della morte di Pasolini? E qual è? Le risposte, che qui riportiamo, sono complesse e anche molto articolate. Ma l’elemento comune di tutti gli scrittori con meno di 40 anni che ci hanno risposto è alquanto lineare: ed è l’insofferenza assoluta nei confronti di tutto ciò che è stato costruito intorno all’«icona» di Pasolini e la riscoperta invece dei testi, della lettera e della testimonianza personale, della ricerca linguistica, della scrittura di Pasolini, e anche del suo lavoro e del suo atteggiamento di intellettuale.
«Una delle eredità più grandi di Pasolini — ci spiega la scrittrice Antonella Lattanzi, classe 1979, due romanzi, Devozione e Prima che tu mi tradisca, editi da Einaudi Stile Libero) — è lo sguardo su qualcosa di veramente molto diverso da te, dai tuoi, dalla lingua di casa, dai quartieri conosciuti, dalla tua famiglia, dalla tua vita. Il guardare davvero altrove». E questa è una lezione di intellettuale e di narratore, spiega la Lattanzi: «È troppo poco ridurre ad esempio un romanzo come Ragazzi di vita (e Una vita violenta) a una semplice storia sulle borgate. Ti insegna la ricerca sulla lingua, cioè come si lavora sulla lingua di origine delle persone, e quindi dei personaggi, la capacità di guardare altrove, di uscire dal terreno conosciuto, questa eredità a te scrittore rimane nel tempo qualsiasi cosa tu voglia fare, in qualsiasi modo, qualsiasi sia la tua poetica. E al lettore offre un’altra lezione: gli dà un racconto senza però dargli le linee guida dell’interpretazione, gli lascia scegliere da che parte vuol stare».
Secondo la critica e scrittrice Chiara Valerio (classe 1978, il suo Almanacco del giorno prima è uscito per Einaudi), le eredità sono parecchie: «La cosa che mi ha lasciato Pasolini è che non esistono scrittori che scrivono e basta. E poi mi ha lasciato lo “spostarsi dalla provincia”, rischiando di abbandonare i propri nuclei narrativi, e andare da un’altra parte, anche da tutt’altra parte». Una provincia che è vera e concreta, il paesaggio friulano ad esempio, ma è anche metaforica. Mentre alla scrittrice non piace l’icona costruita, da altri, intorno al poeta: «Non mi piacciono i martiri, non mi piacciono i santi, quindi non mi piace quell’analisi post-pasoliniana che si interessa o vede solo la sua preveggenza sui comportamenti sociali e culturali. Nessuno parte dai libri di Pasolini, ma si sente parlare della morte di Pasolini, del corpo di Pasolini, eccetera...». E a proposito di testi dello scrittore, suggerisce di «rimettere in circolo L’odore dell’India », perché è interessante vedere come lo scrittore racconti luoghi esotici continuamente evocando invece Roma e i quartieri romani.
Non può e non deve trattarsi però di un coro di consensi unanime e indifferenziato, pena anche il tradimento dello stesso autore. Come ci illustra Mattia Signorini (1980, autore di libri come il recente Le fragili attese e La sinfonia del tempo breve per Marsilio), ognuno deve poter fare i distinguo che meglio crede.
«Non sento particolarmente vicino il Pasolini scrittore — precisa Signorini —, ma semplicemente perché i punti di riferimento del mio immaginario sono altri, ad esempio il realismo magico di Buzzati, o Fellini, e sto su una strada diversa dal suo realismo totale. Il suo cinema mi piace molto e riesce a toccare corde fortissime, però è legato secondo me al suo tempo. Invece, ecco, quell’aspetto di realismo magico che io vado cercando lui lo ha trovato nelle meravigliose interviste che ha realizzato per la Rai, e nel suo stare vicino agli ultimi, nel suo lavoro giornalistico, e ad esempio negli Scritti corsari. Ho letto ogni cosa di
Pasolini in quest’ambito, ed è proprio lì a mio parere che il suo realismo diventa un realismo magico».
Per questi autori delle generazioni post pasoliniane, qualcosa di molto importante sta anche nella sua figura — nel suo lavoro quotidiano però, nell’esempio, non nell’icona che spesso ne viene costruita. Illustra Alcide Pierantozzi (classe 1985, autore di L’uomo e il suo amore e Ivan il terribile, Rizzoli): «C’è qualcosa di molto attuale in Pasolini, che riguarda il suo modo di rapportarsi all’esperienziale». Per questo, il lavoro che Pierantozzi indica come il più significativo è Petrolio, quel «qualcosa di scritto » che è la più esperienziale delle sue opere.
«E poi Pasolini riesce — aggiunge Pierantozzi —, nell’Italia degli anni 50-60-70 (in cui la cultura italiana è succube di reazioni all’epoca precedente, eccetera), a individuare fascinazioni culturali come l’etnografia, l’indagine ideologica, veramente impensabili e inaudite in quegli anni. Rappresenta davvero un’eccezione. Quel che a me ha insegnato, infine, è la sicurezza. Credeva profondamente nelle proprie affermazioni, era sicuro di sé, e mi ha insegnato che la modestia, nel lavoro intellettuale, significa soltanto non volersi impegnare abbastanza».      


Il corsaro Pasolini e il «Corriere» Una felice relazione pericolosa 

Il polemista senza paura e il giornale della borghesia milanese Un binomio inscindibile fin dal primo articolo del 7 gennaio 1973 
2 nov 2015  Corriere della Sera di Paolo Di Stefano © RIPRODUZIONE RISERVATA 

Da pagina 1 Il caso Pasolini non si è mai chiuso, e probabilmente non si chiuderà. Vuoi per lo scandalo che fu la sua vita, per la sua omosessualità, per la sua morte violenta e per la conseguente questione giudiziaria, rimasta ancora oscura; vuoi per la potenza della visione del mondo che Pasolini ha espresso senza risparmio di energia nella sua multiforme e caotica attività creativa: poesia, narrativa, teatro, cinema, giornalismo. Guardando ai due anniversari di quest’anno, va riconosciuto, piaccia o no, che non c’è confronto possibile tra Calvino (morto nel 1985) e Pasolini (dieci anni prima). Tra lo scrittore illuminista della leggerezza e della velocità e lo scrittoreprofeta che ha buttato dentro la letteratura il suo corpo e la sua chiaroveggenza, senza dubbio la memoria collettiva ha preferito quest’ultimo, cui sono tributate celebrazioni innumerevoli. Mentre gli omaggi a Calvino sono rimasti nei limiti dell’ordinaria amministrazione, pur trattandosi di uno degli scrittori più giustamente amati, studiati e frequentati nella scuola. Due figure centrali del secondo Novecento, e due figure opposte: l’uno morì come (non) sappiamo la notte tra il 1° e il 2 novembre 1975 al Lido di Ostia, l’altro in ospedale in seguito a un ictus; l’uno vittima di un massacro, l’altro per un’implosione cerebrale; Calvino lavorò di sottrazione e di levigatezza, Pasolini lavorò per singulti e accumulazione, basta pensare all’ultima sua opera, incompiuta ma programmaticamente esorbitante e magmatica, Petrolio. Tutto ciò che riguarda Pasolini è esorbitante e magmatico, forse anche la sua ricezione. Per non dire che ogni volta il suo nome accende l’ipersensibilità dei complottisti e quella simmetrica (e spesso sbeffeggiante) dei non complottisti. Studio Pier Paolo Pasolini ritratto alla scrivania nella sua casa romana di via Eufrate, quartiere Eur, a metà degli anni Sessanta (foto Archivio Corsera). Lo scrittore acquistò l’appartamento, l’ultimo in cui abitò, nel 1963 
Certo Pasolini è ancora vivo e presente per il mistero che si porta dietro, ma anche per la passione e la sincerità con cui ci ha parlato. Soprattutto dalle colonne del «Corriere». Perché soprattutto? Perché l’incontro tra Pasolini e il «Corriere » è stato uno dei pochissimi incontri fatali passati alla storia del giornalismo come una sorta di identificazione reciproca e paritaria. È uno dei tanti paradossi pasoliniani. Un polemista che già da anni aveva avuto modo di esibire sui giornali la sua intrattabilità e la sua irriducibile scorrettezza politica (ben diversa da quella che impazza oggi), un polemista senza paura, ostracizzato e ampiamente perseguito dalla giustizia penale, che viene accolto tra le braccia del giornale della borghesia milanocentrica perbenista (di destra ma anche di sinistra), quella stessa borghesia verso la quale Pasolini aveva dichiarato «un odio patologico», del resto ricambiato. Si narra che le cose siano andate così: il vice direttore Gaspare Barbiellini Amidei propone la firma di PPP a Piero Ottone, che risponde «Va bene, proviamo», forse per una sua strategia politico-editoriale, forse per convinzione ideale, forse senza rendersene ben conto e sicuramente dopo aver consultato la proprietà. Fatto sta che quel matrimonio, avviato con il primo articolo del 7 gennaio 1973, è destinato a creare un binomio pressoché inscindibile fino alla fine: al punto — ed è questo il paradosso di cui si diceva — che l’immagine del «Corriere» anni 70 finirà per richiamare, quasi per riflesso automatico, quella del «corsaro» Pasolini. E diventa oziosa la domanda che sta dietro ogni matrimonio più d’interesse che d’amore: su chi dei due coniugi alla fine ne abbia ricavato maggiori vantaggi. Se cioè l’idea di liberalità e di apertura consegnata dal giornale di Ottone al pubblico inquieto di quegli anni, oltre che alla futura memoria storica, sia a conti fatti superiore all’incremento di ascolto (e di fama) che Pasolini ottenne dalla «generosa» ospitalità. Che si sia trattato di una relazione pericolosa ma felice, non c’è dubbio, anche se Pasolini e Ottone non si incontrarono mai. 

Sin dal primo intervento, sui giovani capelloni, l’eco fu enorme. E comunque quegli attacchi (da destra e da sinistra) non facevano altro che dare nuovi argomenti alla vis polemica pasoliniana. Se questo accadde per il discorso sui capelli («la loro libertà di portare i capelli come vogliono, non è difendibile, perché non è più libertà»), figurarsi che cosa succedeva ogni volta che Pasolini in prima pagina, nella Tribuna aperta (la testata di rubrica sotto cui veniva collocato ogni suo intervento, quasi a mitigare la responsabilità del giornale), prendeva la parola su temi politici. Un impolitico che parlava di politica. Contro il neocapitalismo, l’omologazione, il genocidio culturale, la Chiesa, la contiguità tra fascismo e Democrazia cristiana, le collusioni del potere con la mafia, contro le ambiguità opportunistiche del Pci e poi contro l’aborto. Spesso facendo nomi e cognomi. 
Militante — ha scritto Cesare Segre — di un partito che ha in lui il solo rappresentante: ma a cui viene dato un ascolto mostruoso. Attività polemica febbrile (e spesso fuori controllo) di un intellettuale che colpisce i suoi obiettivi senza calcoli, anzi mettendo in campo la propria disperazione individuale («disperazione» è una parola che ricorre di continuo nei suoi articoli). Come offrendo il proprio corpo in nome della difesa di valori culturali e civili che sente sulla pelle. Posseduto dalla propria idea e dal proprio sentirsene eroe e vittima sacrificale. Del resto, Pasolini è passato via via negli anni per un estremista di sinistra, un pressapochista, nostalgico e reazionario di destra, elegiaco e passatista, provocatore e martire, profeta geniale e impavido, unico autentico fustigatore del carattere italico. Tutto e il contrario di tutto. Il male e il bene, il peggio e il meglio. Un’altra differenza rispetto all’unicità di Calvino è che la sua unicità resta inimitabile, e la sua eredità senza eredi.

Un lucido arrembaggio alle coscienze Pasolini corsaro, l’avventura continua Gli autori Biondillo, Santarossa e Toffolo sul Pier Paolo polemista «I suoi temi erano legati a un’epoca ma il suo coraggio resta un esempio»10 nov 2015  Corriere della Sera di Ida Bozzi © RIPRODUZIONE RISERVATA
Il 7 gennaio 1973 iniziava la collaborazione di Pier Paolo Pasolini con il «Corriere della Sera», un contributo destinato a far discutere la società italiana non solo intellettuale e letteraria di allora, e a confluire almeno in parte in un volume uscito nel maggio 1975 per Garzanti, i celeberrimi Scritti corsari.
Nell’edizione riproposta dal «Corriere», in edicola da oggi, la prefazione inedita di Paolo Di Stefano racconta così la presenza pasoliniana sulle pagine del più importante quotidiano borghese d’Italia: «Era la tribuna più funzionale, per il prestigio e quindi per l’eco che ne sarebbe derivata, al suo impulso predicatorio e provocatorio». E si trattava, anche, di una scommessa inedita per il «Corriere» e per la stampa tutta, un «caso clamoroso — prosegue Di Stefano — di un autorevolissimo collaboratore programmaticamente dissonante dalla linea della testata». Con la sua volontà di «essere presente», Pasolini si collocò dunque su una tribuna del tutto inattesa dalla quale l’attacco alla società capitalistica non poteva che risuonare più forte e più sonoro, e «si avvalse — così ebbe a scriverne il critico Gianfranco Contini — degli stessi strumenti di cui essa gli faceva copia per fustigarla in piena faccia».
Proprio questo, il coraggio di rivestire il ruolo di interprete e fustigatore dei costumi, senza flessioni e da quel palcoscenico «borghese», risulta oggi essere uno degli aspetti più attuali nel lavoro del Pasolini «corsaro»: la pubblicità dei jeans Jesus contro cui si scagliò non esiste più, gli adolescenti non portano più i capelli lunghi sui quali il corsaro tuonava, ma l’importanza di quell’«essere presente» è sentita ancora fortemente da molti scrittori e intellettuali.
«Credo che si debba ricordare che sono passati 40 anni, certo bisogna saper storicizzare e capire che è cambiato tutto. Ma occorre capire anche che lui ci dà una chiave di lettura » , commenta lo scrittore Gianni Biondillo (il suo libro più recente è L’incanto delle sirene, Guanda), che ha partecipato alle iniziative di omaggio allo scrittore per il quarantennale sui siti letterari Doppiozero e Nazione Indiana scrivendo una lettera a Pasolini. «Lui non aveva mediazioni — prosegue Biondillo — ed è la modalità degli Scritti corsari a essere sicuramente attuale. Un autore di quella caratura che decide di scrivere sul “Corriere” e di essere “l’ospite ingrato”: è un fatto molto interessante, che tra l’altro va a onore di chi lo aveva chiamato». E conclude Biondillo: «Ne avremmo bisogno oggi: ma ovviamente non c’è nessuno che abbia quella potenza di fuoco». Tanto che nella sua lettera al «Caro Pier Paolo» apparsa online, Biondillo scrive: «Eri nel giusto anche quando sbagliavi».
«In questo periodo — commenta lo scrittore friulano Massimiliano Santarossa, autore di Metropoli (Baldini & Castoldi) e Il male (Hacca), che sta pensando di realizzare un docu-film proprio sul conterraneo Pasolini — lo si è ripetuto spesso: l’attualità degli Scritti corsari e di Pasolini in genere sta nel suo essere profetico. Così si sente dire molto spesso, in modo quasi ripetitivo. Ma sta anche nel suo sguardo. Ad esempio, per mostrarti l’omologazione lui scrive: se guardi dall’alto una piazza non riuscirai a distinguere i figli degli operai dai contadini e dai borghesi. L’intellettuale è questo, qualcuno che ti mostra una cosa conosciuta con una visione nuova, profonda, e nel suo caso, da regista, anche tridimensionale». Quanto all’eredità di Pasolini, secondo Santarossa non deve essere cercata necessariamente in una personalità, quanto in un percorso: «Un’eredità che si può cercare anche nell’illustrazione e nel fumetto, non solo nella letteratura o nel cinema».
Proprio un autore e illustratore come Davide Toffolo dell’autore si è occupato nella sua graphic novel Pasolini, da poco riproposta da Rizzoli Lizard, in cui riflette su molti temi pasoliniani, pure corsari («i maestri sono fatti per essere mangiati», «l’omologazione ha ormai distrutto l’Italia»). Anche questo autore insiste sulla distanza storica che non può essere negata, i 40 anni che ci separano da PPP, ma anche sull’attualità della sostanza pasoliniana, della sua fiducia che la scrittura potesse fare la differenza, evidente nell’idea stessa di scrivere per i media. «Si è occupato spesso di argomenti — spiega Toffolo — che, pur essendo legati alla cronaca e al costume, in realtà avevano a che fare spesso con la natura dell’uomo, con gli archetipi». Il suo terrore dell’umanità «senza radici», alienata dalla massificazione dei consumi, è un esempio. Ma c’è un’altra cosa che emerge proprio da quella «potenza di fuoco» che Pasolini riuscì a infondere nei suoi interventi, spiega Toffolo: «A me piace che secondo Pasolini uno scrittore debba rimanere puro, lontano dal potere. È stato un autore che ha avuto una fiducia estrema nella scrittura, nella parola, come strumento sia per capire il mondo sia per capire in fondo anche se stesso. E questa fiducia è bellissima, attuale e toccante».


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