domenica 18 ottobre 2015

Rottura del nomos, criminalizzazione della Germania e guerra di civiltà intraeuropea: Durkheim

immagine scheda libroÉmile Durkheim: La Germania al di sopra di  tutto, Aragno, pp.110, euro 12

Risvolto
La Grande Guerra fu grande in primo luogo per le sofferenze che impose al mondo. Questo truce motivo è attenuato dalla mitologia che spesso si accompagna alla memoria, costruendo singolari amnesie. Nei nomi che leggiamo sulle marmoree tavole dei nostri monumenti celebrativi della Grande Guerra devono essere restaurati gli uomini, i volti di più di seicentomila giovani che persero la vita anzitempo, lasciando scie di dolore in tutte le contrade d'Italia. Furono milioni nel mondo. La prima guerra mondiale fu una tragedia enorme superata solo dalla seconda guerra mondiale e fu un preludio degli eccidi di massa che costellano la modernità, anche quando suppostamente avanzata. Gli intellettuali, che pure avevano creduto nella repubblica europea delle idee, furono costretti a rientrare dentro i confini delle patrie-nazioni e parteciparono intensamente alla lotta. Con orientamenti e argomenti sui quali ancora oggi si discute. Ed è utile discutere. Questo è il caso di Émile Durkheim, autore del volumetto che qui si presenta e che pone sul banco degli imputati la Germania, i cui comportamenti derivano in realtà da una speciale concezione del mondo di lunga maturazione. Il lettore avrà modo di esercitare il suo pensiero critico; non potrà tuttavia non convenire che si tratta di una meditazione importante non solo in relazione alla prima guerra mondiale ma alla seconda. E forse anche ad alcune ambigue ricorrenze odierne. 

La Berlino narcisa che fece la guerra 

18 ott 2015  Libero
Durante la Grande Guerra gli intellettuali, che avevano creduto nella repubblica europea delle idee, furono costretti a rientrare dentro i confini delle patrie-nazioni e parteciparono alla lotta. Émile Durkheim, autore di La Germania al di sopra di tutto (Aragno, pp.110, euro 12) accusa la Germania, i cui comportamenti derivano da una speciale ed egoriferita concezione del mondo. Un cult riproposto in libreria. di materiale fissile si trova. Soprattutto tra le nuove potenze che ambiscono a ritagliarsi maggiori margini di manovra all’epoca del presunto scontro di civiltà


Un imperativo Stato di necessità 
Derive continentali. «La Germania al di sopra di tutto» di Émile Durkheim manifesta un’inedita attualità per capire come gli stereotipi sulle mentalità sono usati per condannare la volontà di potenza di una nazione. Ma anche, come afferma questo padre nobile della filosofia sociale, per nascondere le proprie politiche di espansione
Massimiliano Guareschi Manifesto 30.10.2015, 0:30 
La guerra non è mai stata al cen­tro degli inte­ressi scien­ti­fici di Max Weber ed Émile Dur­kheim, i due foun­ding fathers della socio­lo­gia, nono­stante abbia impattò pro­fon­da­mente le loro bio­gra­fie. Durante la Prima guerra mon­diale, Weber pre­stò ser­vi­zio come diret­tore ammi­ni­stra­tivo di un ospe­dale mili­tare e par­te­cipò atti­va­mente al dibat­tito sulla con­du­zione del con­flitto, in par­ti­co­lare in rela­zione alla scelta di sca­te­nare la guerra sot­to­ma­rina «raf­for­zata». Sull’altro fronte, Dur­kheim pagò un pedag­gio pesante al con­flitto. Sui campi di bat­ta­glia della Grande guerra perse non solo il figlio André ma anche molti dei migliori allievi e col­la­bo­ra­tori, fra cui Robert Hertz. Una volta ini­ziate le osti­lità, di cui non avrebbe visto la fine, Dur­kheim si era impe­gnato in prima per­sona nel soste­gno allo sforzo bel­lico del pro­prio paese per ragioni legate alla sua pro­fonda ade­sione ai valori ter­zo­re­pub­bli­cani e non solo all’esigenza di dis­si­pare le accuse di scarso patriot­ti­smo che ine­vi­ta­bil­mente, nell’atmosfera di quei tempi, gra­va­vano su un ebreo di ori­gini alsa­ziane dal cognome ine­qui­vo­ca­bil­mente germanofono. 
Tale impe­gno si con­cre­tizzò in Qui a voulu la guerre?, una ricerca di sto­ria diplo­ma­tica in tempo reale, con­dotta in col­la­bo­ra­zione con lo sto­rico Ernest Lavisse, sugli eventi che ave­vano con­dotto alla guerra e nella par­te­ci­pa­zione alle Let­tres à tous les fran­cais, una serie di mis­sive scritte da vari autori allo scopo di con­so­li­dare il fronte interno e la fidu­cia in una vit­to­ria sicura anche se non immi­nente, rac­colte in volume nel 1916. Fra que­ste due pub­bli­ca­zioni ne uscì una terza, La Ger­ma­nia al di sopra di tutto, scritta dal solo Dur­kheim, che imme­dia­ta­mente tra­dotta in ita­liano dall’editore Armand Colin viene oggi ripro­po­sta da Ara­gno (pp. 102, euro 12) con la pre­fa­zione di un auto­re­vole stu­dioso del socio­logi fran­cese, Mario Toscano. 

Respon­sa­bi­lità imperiali 
Se il fine di Qui a voulu la guerre? era dimo­strare, docu­menti alla mano, la respon­sa­bi­lità esclu­siva degli imperi cen­trali nello sca­te­na­mento delle osti­lità, La Ger­ma­nia al di sopra di tutto si pro­pone di sca­vare più a fondo, oltre la con­tin­genze degli eventi, per cogliere il motore che ha reso neces­sa­rio quanto era solo pos­si­bile. A parere di Dur­kheim, tale fat­tore è una par­ti­co­lare forma di coscienza col­let­tiva, a suo parere pato­lo­gica, ossia la men­ta­lità tede­sca. Per coglierne i tratti Dur­kheim non si affida a inda­gini ad ampio rag­gio ma si con­cen­tra sull’opera o, meglio, su un’opera (Poli­tik) di Hein­rich Trei­tschke, figura che, met­tendo il pro­prio potente impeto reto­rico al ser­vi­zio di una pro­spet­tiva che coniu­gava spi­rito rea­zio­na­rio e volontà impe­ria­li­stica, aveva gua­da­gnato un ampio seguito presso l’opinione pub­blica e le élite poli­ti­che tede­sche negli ultimi decenni dell’Ottocento. 
A orien­tare Dur­kheim verso tale opzione non è una par­ti­co­lare stima per l’autore quanto l’idea che la sua opera si pre­senti come un distil­lato puro di quella men­ta­lità tede­sca di cui intende cogliere il segreto. In tal senso, Trei­tschke viene colto come una sorta di dispo­si­tivo col­let­tivo di enun­cia­zione, di ipo­stasi della coscienza col­let­tiva. Del suo pen­siero, infatti, viene detto che «è meno quello di un uomo che di una collettività». 
Al cen­tro della men­ta­lità tede­sca, a parere di Dur­kheim, si col­loca l’idea della sepa­ra­zione dello stato dalla società. Si tratta di uno schema tipi­ca­mente hege­liano sem­pli­fi­cato e irri­gi­dito da Trei­tschke, in cui la società civile (o, meglio, la «società bor­ghese») si pre­senta come il luogo di inte­ressi par­ti­co­lari e di una con­flit­tua­lità che solo la tra­scen­denza dell’unità sta­tale può por­tare a sin­tesi. Tale posi­zione non poteva che incon­trare il rigetto da parte dell’organicismo dur­khei­miano, incline a fare dello stato una fun­zione della società. Ma la que­stione non è solo teorica. 
L’attenzione di Dur­kheim, infatti, si indi­rizza nei con­fronti di quelle che ai suoi occhi appa­iono le con­se­guenze nefa­ste della scis­sione stato-società. Per Trei­tschke lo stato, per le fun­zioni che svolge e l’ambito in cui opera, si carat­te­riz­ze­rebbe per una morale com­ple­ta­mente diversa da quella asse­gna­bile agli indi­vi­dui. Poi­ché l’esistenza del popolo e della società dipende dallo stato, l’imperativo inde­ro­ga­bile che grava su quest’ultimo è quello dell’autoconservazione. Ma, nell’ambiente com­pe­ti­tivo dell’arena inter­na­zio­nale, l’unico modo che esso ha per con­se­guire tale obiet­tivo è la potenza, alla cui acqui­si­zione tutto deve essere subordinato. 

Bar­ba­rie collettive 
Qui, sta­rebbe, secondo Dur­kheim, la chiave per com­pren­dere come indi­vi­dui che presi sin­go­lar­mente pos­sono appa­rire civili e ragio­ne­voli pos­sano agire col­let­ti­va­mente in maniera bar­bara, come mostre­rebbe la deter­mi­na­zione nel volere la guerra, la vio­la­zione della neu­tra­lità del Bel­gio, l’irrisione dei trat­tati (pezzi di carta da strac­ciare, secondo l’ espres­sione del can­cel­liere Bethman-Holweg), i cri­mini di guerra (che, a onore del vero, durante la Prima guerra mon­diale non furono mono­po­lio esclu­sivo dei tedeschi). 
Ma a que­sto punto, anche tenendo per buona la ver­sione dei fatti for­nita, si potrebbe osser­vare come que­gli stessi com­por­ta­menti che Dur­kheim attri­bui­sce alla pato­lo­gia tede­sca carat­te­riz­zas­sero anche la sua parte, ossia la Fran­cia o l’Inghilterra, in quanto potenze colo­niali. Se la frat­tura fra stato e società gli appare al cen­tro della men­ta­lità tede­sca non si può non rile­vare come una diversa oppo­si­zione, geo­gra­fica, resti sot­tesa al testo dur­khei­miano. Ci rife­riamo alla distin­zione fra ambito della società inter­na­zio­nale, dove val­gono le leggi della «civiltà», e que­gli spazi al di là della linea dello ius publi­cum euro­paeum, per citare Carl Sch­mitt, dove vige una dif­fe­rente «morale» e le pra­ti­che stig­ma­tiz­zate nei tede­schi diven­gono lecite e legit­time. Le colo­nie non sono assenti nel testo di Dur­kheim, e tut­ta­via la loro evo­ca­zione, in un paio di pas­saggi, non sem­bra gene­rare i dubbi che sarebbe lecito atten­dersi nel discorso uni­ver­sa­li­sta di Durkheim. 

Ambi­zioni continentali 
Da oltre un secolo, più o meno ogni gene­ra­zione di euro­pei si è tro­vata, a un certo punto, a fare i conti con il pro­blema della Ger­ma­nia. Con uno stato troppo forte per essere uno stato come gli altri ma allo stesso inca­pace di eser­ci­tare una fun­zione ege­mo­nica se non in ter­mini bru­tali e distrut­tivi. Ovvia­mente, la sto­ria non si ripete pedis­se­qua­mente. Un conto erano le ambi­zioni alla Wel­po­li­tik del Reich gugliel­mino, ben altra cosa i pro­getti di geno­ci­dio del Terzo Reich. Su un regi­stro ancora diverso si muove il fana­ti­smo ordo­li­be­rale della Bun­de­sre­pu­blik di Mer­kel, Schäu­ble e Schultz. 
La chiave di let­tura for­nita da Dur­kheim per il «pro­blema Ger­ma­nia» del suo tempo, pur nella sua con­trad­dit­to­rietà, sem­bra get­tare luce su ulte­riori pas­saggi della sto­ria tede­sca, per esem­pio sul ter­ri­fi­cante zelo con cui buro­cra­zia ed eser­cito si impe­gna­rono durante il nazi­smo ad ese­guire qual­siasi ordine pro­ve­niente dall’autorità legit­tima. In ambito nazio­nal­so­cia­li­sta, tut­ta­via, lo stato già non ci appare al di sopra di tutto ma subor­di­nato ad altre istanze mobi­li­ta­trici e ordi­na­trici, segna­ta­mente la razza e il par­tito. E venendo al pre­sente, anche oggi il «pro­blema Ger­ma­nia» sem­bra avere a che fare con un «al di sopra di tutto», con un über alles che in que­sto caso assume le forme della tutela, costi quel che costi, di quell’ordine pro­prie­ta­rio a cui viene affi­data una fun­zione for­ma­trice, tra­mite la con­cor­renza, nei con­fronti delle rela­zioni non solo eco­no­mi­che ma anche sociali e poli­ti­che. Si tratta di quell’economia sociale di mer­cato su cui a lungo si è equi­vo­cato, cogliendo nel rife­ri­mento al sociale della for­mula un cor­ret­tivo del mer­cato anzi­ché una sua conseguenza.

Nessun commento: