giovedì 8 ottobre 2015

Schumpeter e la teoria dello sviluppo economico

Il fenomeno fondamentale dello sviluppo economico
Una lettura negriera SGA

Joseph Schumpeter> Il fenomeno fondamentale dello sviluppo economico. Due capitoli dalla Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung (1911), Mulino 

Risvolto
Il volume raccoglie due capitoli tratti dalla prima edizione della "Teoria dello sviluppo economico": la principale tra le opere di Schumpeter, nonché una delle più rilevanti del pensiero economico del Novecento. Pubblicata nel 1911, l'opera conobbe una seconda edizione, profondamente modificata, nel 1926. In essa, fu eliminato il settimo capitolo, mentre il secondo fu interamente riscritto. Sebbene dal punto di vista della "arida dottrina economica" poco mutasse, le differenze si rivelarono considerevoli quanto ai contenuti più propriamente sociologici. Il radicalismo elitistico fu alquanto attenuato, il profilo del soggetto imprenditore assunse tratti molto meno netti, decisamente meno ambizioso si rivelò essere il quadro generale e la "visione" sociologico-culturale d'insieme. Quali che fossero le ragioni che condussero a questi mutamenti, è indubbio che l'autore li considerasse almeno in parte imposti dalle circostanze e da vere e proprie interpretazioni infondate. La lettura dei due testi qui tradotti contribuisce perciò a una più completa comprensione dell'opera schumpeteriana. Non solo. Il loro esplicito legame permette di apprezzarne, ancor prima, la notevole originalità entro un contesto teorico ricchissimo: quello della grande Vienna. 


Ascetici perché «creativi»
Tempi presenti. L’innovazione è il vangelo del capitalismo. Non è così per Joseph Shumpeter, che la considera un fenomeno raro. Un sentiero di lettura a partire dal saggio «Il fenomeno fondamentale dello sviluppo economico» pubblicato dal Mulino 

Benedetto Vecchi Manifesto 7.10.2015, 0:30 

Un’operazione edi­to­riale ardita que­sta del Mulino che ha avuto la regia accorta, ma discreta di Ade­lino Zanini, filo­sofo, ma anche sto­rico del pen­siero eco­no­mico, avendo dedi­cato molta della sua atti­vità di ricerca teo­rica a Joseph A. Shum­pe­ter e Adam Smith, con felici incur­sioni nell’opera di John May­nard Key­nes e nel campo della cri­tica dell’economia poli­tica di Karl Marx. L’operazione con­si­ste nella pub­bli­ca­zione di due capi­toli scritti da Shum­pe­ter per la sua Teo­ria dello svi­luppo eco­no­mico e poi sop­pressi dallo stesso eco­no­mi­sta austriaco per­ché «devianti» rispetto al cor­pus cen­trale dell’opera. Nella sua intro­du­zione, Zanini ritiene, in maniera con­vin­cente, che invece sono testi rile­vanti, per­ché danno la misura del labo­ra­to­rio teo­rico di Shum­pe­ter e della messa a fuoco della figura car­dine del suo pen­siero eco­no­mico, cioè quella figura dell’imprenditore che ha, per Shum­pe­ter, la capa­cità di rom­pere l’equilibrio ine­rente l’agire eco­no­mico gra­zie alla sua capa­cità di pro­porre una nuova com­bi­na­zione di ele­menti noti – nelle tec­no­lo­gie, nel cre­dito, nel pro­cesso pro­dut­tivo e nella sfera della cir­co­la­zione, nella domanda di beni – tale da pro­durre una discon­ti­nuità nello svi­luppo economico. 
Ade­lino Zanini argo­menta, sem­pre nell’introduzione a Il feno­meno fon­da­men­tale dello svi­luppo eco­no­mico (Il Mulino, pp. 200, euro 18), la deci­sione della pub­bli­ca­zione di que­sti due capi­toli, archi­viati e mai più ripresi da Shum­pe­ter, non tanto per offrire allo stu­dioso mate­riali che vanno a com­porre, come tas­selli persi, il puzzle di un pen­siero eco­no­mico cen­trale tra gli anni Venti e Cin­quanta del Nove­cento, ma per­ché con­sen­tono, dato il loro carat­tere intro­dut­tivo e rias­sun­tivo – si tratta in ori­gine del 2 capi­tolo e del 6 capi­tolo della Teo­ria dello svi­luppo eco­no­mico – di evi­den­ziare la sua presa di distanza dall’economia neo­clas­sica allora domi­nante nelle uni­ver­sità, visti i non sono pochi rin­vii pro­prio alla cri­tica dell’economia poli­tica di Marx. Da que­sto punto di vista, Shum­pe­ter prende sul serio l’autore del Capi­tale e si potrebbe dire, al pari di un suo con­tem­po­ra­neo, Max Weber, che i suoi scritti sono una rispo­sta pro­prio a Marx, senza nes­suna demo­niz­za­zione, pro­vando a costruire un edi­fi­cio teo­rico più saldo di quello costruito dai neo­clas­sici di allora. Que­sti due capi­toli danno dun­que la misura delle dif­fi­coltà che Shum­pe­ter incon­tra, ma anche della scelta di cer­care una solu­zione che sal­va­guardi il capi­ta­li­smo dai suoi cri­tici, intro­du­cendo appunto la figura pro­me­teica dell’imprenditore. 

Le inu­tili profezie 
Nella Teo­ria della svi­luppo eco­no­mico i con­flitti degli inte­ressi, dun­que anche il con­flitto di classe, sono rite­nuti da Shum­pe­ter fat­tori esterni alla pro­du­zione della ric­chezza. Non pos­sono cioè scar­di­nare la «sta­tica» che carat­te­rizza l’economia. L’unico che può far deviare il «natu­rale» corso delle cose è, appunto, l’imprenditore. A que­sta pre­messa e con­clu­sione della sua ela­bo­ra­zione Shum­pe­ter rimarrà sem­pre fedele, anche se con ama­rezza scri­verà nell’opera della tarda matu­rità – Capi­ta­li­smo, socia­li­smo, demo­cra­zia – che il socia­li­smo ha più chance di garan­tire svi­luppo e inno­va­zione (ter­mine che l’economista austriaco usa con par­si­mo­nia, a dif­fe­renza dei suoi disce­poli) del sistema capi­ta­li­stico. La sto­ria non ha certo con­fer­mato que­sta pro­fe­zia di Shum­pe­ter, come testi­mo­nia il crollo rovi­noso del socia­li­smo reale. Que­sta però è un’altra sto­ria, che attende ancora di essere scritta, attin­gendo non alla cas­setta degli attrezzi for­nita dalla «tri­ste scienza», bensì a quella della cri­tica dell’economia marxiana. 
Vale dun­que la pena di tor­nare al volume in que­stione, per­ché tra le righe dei due capi­toli ci sono ele­menti impor­tanti per guar­dare all’innovazione non come un ele­mento pro­prio dell’economico, bensì come fat­tore di rap­porti sociali di pro­du­zione, che irrompe nella quo­ti­dia­nità e crea una situa­zione impre­vi­sta, non con­tem­plata. Che può deter­mi­nare il con­so­li­da­mento di una impresa sul mer­cato o la sua mar­gi­na­liz­za­zione; lo svi­luppo di un nuovo set­tore pro­dut­tivo e l’eclissi di un altro. Che modi­fica il pro­cesso pro­dut­tivo nella sua «tota­lità». Tutto ciò non ha nulla a che vedere con una «rivo­lu­zione», bensì con un con­cetto di svi­luppo che non può essere mai pen­sato come lineare, che pro­cede con lun­ghi periodi di stasi e brevi periodi che distrug­gono l’equilibrio acqui­sito per poi ripro­porne un altro. 
Il pla­smare creativo 
L’innovazione è dun­que un evento raro: ha però un potere desti­tuente che coin­volge tutto il sistema eco­no­mico. Sba­gliato dun­que pen­sare all’innovazione come una mac­china miglio­ra­tiva dell’esistente. L’innovazione pro­duce infatti discon­ti­nuità. Saranno i suoi disce­poli — Nathan Rosen­berg, David Mowery, Wil­liam Bau­moil, solo per citarne alcuni — a intro­durre una tas­so­no­mia — inno­va­zione incre­men­tale, per appren­di­mento, per uso di un sistema di mac­chine — per ridi­men­sio­nare il carat­tere dirom­pente dell’innovazione. L’imprenditore, per tor­nare al les­sico shum­pe­te­riano, com­bina in maniera ori­gi­nale e non con­sueta ele­menti noti. Que­sto vale sia per la tra­du­zione ope­ra­tiva di una ricerca scien­ti­fica, che per una nuova forma di cre­dito, o per il miglio­ra­mento delle forme di distri­bu­zione e ven­dita. Da qui, l’impossibile omo­lo­gia tra svi­luppo eco­no­mico e evo­lu­zione: per Shum­pe­ter, infatti, l’innovazione ha l’effetto dirom­pente di un’onda che distrugge equi­li­bri con­so­li­dati, per­ché l’imprenditore mette in campo una «distru­zione crea­tiva» che non lascia niente come era prima della sua irru­zione sulla scena. 
Più che un con­cen­trato di pen­siero eco­no­mico que­sti due capi­toli sono quindi da leg­gere come le pre­messe di una antro­po­lo­gia filo­so­fica dell’economico. Per Shum­pe­ter, infatti, l’economia è carat­te­riz­zata da un agire edo­ni­stico che punta al sod­di­sfa­ci­mento imme­diato di biso­gni sociali. È sostan­zial­mente «sta­tica», cioè sem­pre eguale a se stessa, fino a quando non irrompe sulla scena un «agire ener­gico» che pla­sma crea­ti­va­mente le con­di­zioni date. È in que­sto «pla­smare crea­tivo» che l’«agire ener­gico» dell’imprenditore può essere asso­ciato all’attività arti­stica. Per que­sto, pro­durre inno­va­zione, meglio pro­durre svi­luppo eco­no­mico ha, per Shum­pe­ter, molti punti in con­tatto con l’attività dello scrit­tore e del pit­tore che non con quella dell’artigiano, che è con­dan­nato alla ripe­ti­zione del sem­pre eguale, intro­du­cendo pic­coli e lievi miglio­ra­menti dei pro­pri pro­dotti che non met­tono mai in discus­sione l’equilibrio, la «sta­tica» dell’economia. 
Gli amanti delle tesi di Richard Sen­nett sull’artigiano come figura antica, ma nuo­va­mente cen­trale del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo non potranno che riflet­tere sulle loro radi­cate convinzioni. 
Quando passa a descri­vere le carat­te­ri­sti­che dell’imprenditore, Shum­pe­ter fa leva sulla forte per­so­na­lità, sulla rinun­cia al pia­cere imme­diato per la vision del futuro che ha. L’imprenditore non è un edo­ni­sta, bensì un indi­vi­duo che vuol dare forma a una idea matu­rata met­tendo in rela­zione ele­menti noti della realtà. Sacri­fica cioè il sod­di­sfa­ci­mento imme­diato in nome dell’«opera» che vuol pro­durre. C’è nella silhouette dell’imprenditore trat­teg­giata da Shum­pe­ter una asso­nanza con quanto Max Weber scri­veva sull’etica pro­te­stante del capi­ta­li­smo e sulle per­so­na­lità cari­sma­ti­che nell’azione poli­tica. La rinun­cia al sod­di­sfa­ci­mento edo­ni­stico dei pro­pri biso­gni, un certo asce­ti­smo cal­vi­ni­sta nel com­por­ta­menti in società, il cari­sma che rie­sce a mobi­li­tare attorno a sé com­pe­tenze e forze sociali per rag­giun­gere un obiet­tivo; l’esercizio del potere non per tor­na­conto per­so­nale ma per rag­giun­gere un obiet­tivo: se per Weber sono le «qua­lità» del lea­der, per Shum­pe­ter sono le carat­teri­sti­che dell’imprenditore. 
Non si tratta di sta­bi­lire filo­lo­gi­ca­mente le influenze di Weber su Shum­pe­ter, bensì di segna­lare come il pen­siero domi­nante dovesse fare i conti con la filo­so­fia della sto­ria mar­xiana e l’irruzione del movi­mento ope­raio sulla scena pub­blica: fat­tori che met­te­vano defi­ni­ti­va­mente in discus­sione la tesi che lo svi­luppo sociale e sto­rico fosse l’esito di grandi per­so­na­lità. Weber e Shum­pe­ter cer­cano cioè di sal­vare il sal­va­bile di que­sto indi­vi­dua­li­smo radi­cale e meto­do­lo­gico. Entrambi cam­bie­ranno idea nel corso del tempo. Weber quando farà i conti con la rivo­lu­zione del 1905 in Rus­sia, indi­vi­duando nel par­tito ope­raio di massa l’imprevisto dive­nuto realtà; Joseph A. Shum­pe­ter in Capi­ta­li­smo socia­li­smo, demo­cra­zia, quando scrive che l’innovazione è diven­tata una mac­china orga­niz­zata, pro­get­tata per fun­zio­nare indi­pen­den­te­mente dalle per­so­na­lità coin­volte nell’azione economica. 

Il potere del rentier 
Dun­que pro­dromi di una antro­po­lo­gia filo­so­fica dell’economico. Attuali, tut­ta­via, ora che l’innovazione è dive­nuto il van­gelo del capi­ta­li­smo. Vince chi è inno­va­tivo, perde chi si lascia tra­spor­tare dalla con­sueta sta­tica dell’attività eco­no­mica, recita il verbo. C’è però da dubi­tare che l’imprenditore sia coin­ci­dente con una sin­gola per­so­na­lità. Il capi­ta­li­smo ha ampia­mente dimo­strato che l’innovazione è un fat­tore esterno all’attività eco­no­mica. È un fatto sociale che nasce nel campo delle rela­zioni, nella capa­cità di poter com­bi­nare in maniera ori­gi­nale cono­scenze già note alla luce dagli scambi, la comu­ni­ca­zione, gli atti lin­gui­stici che scan­di­scono il sociale. Diven­tano fat­tori ine­renti lo svi­luppo eco­no­mico quando c’è cat­tura, appro­pria­zione privata. 
Steve Jobs per Apple o Jeff Bezos per Ama­zon si appro­priano di spe­ri­men­ta­zioni, di atti­tu­dini, di pro­dotti, di cono­scenza già note e le fanno diven­tare «onde» da pie­gare ai pro­pri fini. Sono cioè ren­tiers della coo­pe­ra­zione sociale. L’innovazione di pro­cesso e di pro­dotto è dun­que frutto sem­pre di una espro­pria­zione. Sarebbe inte­res­sante sta­bi­lire omo­lo­gie tra l’imprenditore shum­pe­te­riano e le reli­gioni taoi­ste, shin­toi­ste e bud­di­ste, cioè sulla ten­denza ad appro­priarsi di ciò che già c’è. Per il momento torna utile il sag­gio di una eco­no­mi­sta con­tem­po­ra­nea, Mariana Maz­zu­cato, che nel suo Lo stato impren­di­tore (Laterza) guarda pro­prio allo Stato la fonte pri­ma­ria dove attin­gere cono­scenze, com­pe­tenze, ma anche come il «luogo» che defi­ni­sce il dispo­si­tivo per ren­dere effi­ciente la mac­china dell’innovazione. Die­tro l’innovazione c’è sem­pre un atto vio­lento di espro­pria­zione del «comune» che innerva la coo­pe­ra­zione sociale. Un fatto che Shum­pe­ter aveva intra­vi­sto agli inizi del Nove­cento e che ha occul­tato in nome di un modello astratto di atti­vità eco­no­mica che reg­gesse l’urto dell’ospite inat­teso, cioè quel lavoro vivo che è la fonte della ric­chezza e dell’innovazione.

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