giovedì 15 ottobre 2015

Siamo proprio sicuri che Veltroni faccia meno danni se rimane lontano dalla politica?

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il commento
Alessandro Gnocchi - il Giornale Ven, 16/10/2015

Recensori in ginocchio per celebrare l’ultimo libro di Veltroni 16 ott 2015  Libero ADRIANO SCIANCA
D’accordo, l’Africa l’avremo pure colonizzata, depredata, sfruttata. Ma in fondo poteva andar peggio. Potevano trovarsi davvero Walter Veltroni. L’ex sindaco di Roma nel Continente Nero non c’è mai andato, malgrado le promesse eque e solidali fatte un po’ avventatamente. In compenso, dopo la fine della sua carriera politica si è riscoperto intellettuale e scrittore. Il che sarebbe anche sopportabile, se solo a ogni nuovo libro di «Uolter» non ci toccasse il blitzkrieg del bel mondo culturale che fa quadrato attorno al nuovo Baricco.
Macché, al nuovo D’Annunzio. Esageriamo: forse si tratta addirittura del nuovo Dante. Se ne sarà accorto chi avrà comprato i giornali ieri, giorno d’uscita nelle librerie di Ciao, edito da Rizzoli (pp.252, euro 18,50). La trama del libro è intima e sofferta: Veltroni, che ha perso il padre all’età di un anno, immagina di incontrarlo oggi e di rivolgergli tutte le domande che non gli ha mai fatto.
Un tema delicato e doloroso, che suscita immediata empatia. Ma a tutto c’è un limite. E invece no. In vena lirica, Pierluigi Battista ha per esempio parlato, sul Corriere della Sera, di una «cerimonia degli addii», una «indagine scrupolosa e tenera», un «ritratto vivido e appassionato». Ugualmente ispirato Massimo Gramellini, che su La Stampa ha spiegato: «Il libro non è una risposta, ma una domanda infinita», una «ricerca intensa», scritta «sotto il linguaggio asciutto e a tratti percorso da una vena di timidezza».
Michele Serra ,su Repubblica, si lascia sfuggire che a scrivere il libro non è stato mica un tizio qualsiasi, bensì «uno dei più importanti leader dell’età repubblicana» (perché essere di manica così stretta, sotto la monarchia abbiamo forse avuto statisti migliori?).
Il tutto, ovviamente, in articoli lunghissimi, emotivissimi, personalissimi, tanto che non si capisce se sia solidarietà generazionale o castale. In entrambi i casi un po’ di dignità non guasterebbe. Del resto stroncare Veltroni non è mai stato considerato educato fra chi piace alla gente che piace.
L’opera d’esordio La scoperta dell’alba fu paragonata da Dacia Maraini a Pirandello e Conrad, con qualche «zoom elegante alla Tarkovskij». Giancarlo De Cataldo scomodò García Márquez e Borges.
Noi, altro romanzo, si guadagnò la copertina del Venerdì di Repubblica efu addirittura candidato al premio Strega. Per uno che si era fatto conoscere allegando le figurine Panini all’Unità da lui diretta è un bel salto di qualità.      



E Veltroni incontra il padre che non vide mai 
Nell’ultimo romanzo, l’ex leader del Pd parla con il genitore morto quando lui aveva un anno.“Siamo una società di orfani”Massimo Gramellini Stampa 15 10 2015

Tutto su mio padre Veltroni racconta l’Italia dei miracoliIn “Ciao”, il suo nuovo libro, l’autore si confronta col genitore scomparso.Rimasto giovane per sempreMICHELE SERRA Repubblica 15 ottobre 2015

Veltroni, il padre ritrovatoA sessant’anni il dialogo in sogno L’autore non esita a confessare una sensazione di fragilità e dà l’addio definitivo alla politica

15 ott 2015 Corriere della Sera Di Pierluigi Battista © RIPRODUZIONE RISERVATA
«Ho cercato per tutta la vita di piacere agli altri. Ho cercato di farmi voler bene anche da chi mi era contro. Era un limite, per il lavoro che facevo» «Ho chiesto scusa per non essere riuscito a fare del tutto quello che volevo, e ho lasciato. Certo, è una sconfitta che mi ha fatto male. Ma l’ho superata»
Ètutta una vita che aspetti un momento come questo. Un’esistenza di ben sessant’anni in cui non hai mai sentito dal vivo la sua voce, la voce di Vittorio Veltroni, di tuo padre, del capo dei radiocronisti nei tempi epici della Rai. Di tuo padre perduto quando avevi appena un anno, lo stesso giorno, il 26 luglio del 1956, in cui affondò con il fianco squarciato il leggendario transatlantico «Andrea Doria». Tuo padre di cui sei costretto a dire da sempre: «non l’ho conosciuto»; «non ho neppure una foto con lui»; «non so cosa immaginava per il mio futuro»; «non mi ha mai rimproverato né fatto un elogio». Il padre che hai cercato e di cui custodisci amorevolmente, come in un archivio sentimentale, le registrazioni radiofoniche, le testimonianze delle tante persone che hanno lavorato con lui durante un’Olimpiade, un Tour de France, un Giro d’Italia, o inventando per Alberto Sordi il personaggio mitico di Mario Pio, «il vostro divoto consigliere, il vostro affezionato inconfidente» che risponde «senza inalcuna inesitazione alle vostre chiamate tilefoniche». O le tantissime fotografie che aveva conservato tua madre, a cui non avevi «mai chiesto nulla della morte di papà». E che da sola ti ha tirato su con forza e coraggio, assieme a tuo fratello Valerio.
Poi, un giorno, quel momento arriva. Compiuti i sessant’anni, tuo padre sconosciuto che non avevi mai toccato e abbracciato e che non aveva mai potuto stringerti la mano per proteggerti e guidarti, ti viene a trovare in un sogno pieno di parole, di colori, di ricordi, di immagini. E te lo trovi seduto sui gradini che portano a casa, con la brillantina sui capelli e con i vestiti che si usavano negli anni Cinquanta, quando tu sei nato e lui è morto. E gli chiedi perché è venuto da te proprio adesso, perché proprio in questo momento e lui ti risponde: «Perché per la prima volta mi sembri fragile, mi sembra tu abbia bisogno di me». Adesso, a sessant’anni, quando tutti immaginano che tu sia più forte e corazzato. Adesso, più di quando, bambino, toccavi i suoi abiti restati in ordine nell’armadio, più di quando «in classe dicevano “Walter fu Vittorio”», più di quando il tuo «compagno di banco faceva il resoconto della domenica pomeriggio allo stadio con il papà». Adesso, a sessant’anni, ti senti fragile, più debole, vulnerabile. Adesso, perché quando tuo padre è morto aveva trentasette anni, «solo trentasette anni», e tu puoi dire «oggi potrebbe essere mio figlio, mio padre».
Si intitola Ciao (Rizzoli) questa cerimonia degli addii, questa indagine scrupolosa e tenera su un «ragazzo importante» che Walter Veltroni non ha mai potuto chiamare papà e di cui restituisce in queste pagine un ritratto vivido e appassionato. Non un santino, ma un mosaico emotivo da ricostruire pezzo dopo pezzo, per riscoprire una persona nella sua pienezza. E un destino incompiuto. Trattandosi di Veltroni, si potrebbe dire che questo libro contiene uno scoop: la dichiarazione che la politica è per lui un capitolo del passato, di cui andare orgoglioso ma senza evitare di pronunciare, nel colloquio immaginario con il padre ritrovato, una parola molto impegnativa: «sconfitta». «Ho alzato la mano, ho chiesto scusa per non essere riuscito a fare del tutto quello che volevo, e ho lasciato, Senza rancore, senza rumore. Certo, è una sconfitta che mi ha fatto male. L’ho ritenuta ingiusta, ho sofferto. Ma l’ho superata, perché la vita è di più: è sorpresa, è invenzione, è fantasia». E si scorgono anche tracce di un’autoanalisi, di un commento caratteriale e psicologico, nel confronto con il padre, a quello che in passato è stato definito il «veltronismo»: «Credo di sapere che a lui che c’era devo molte delle mie qualità e a lui che non c’era più i miei difetti. Ho cercato per tutta la vita di piacere agli altri. Ho cercato di farmi voler bene anche da chi mi era contro. Era un limite, per il lavoro che facevo». Ci vuole un corpo a corpo con l’immagine del padre, e anche questo c’è nel libro, per parlare così di se stessi.
Il momento della fragilità e della vulnerabilità, dunque. Il primo capitolo di Ciao rievoca una galleria di canzoni, di film, di grandi eventi sportivi, di libri che, tutti insieme, sono stati il romanzo di formazione di Walter Veltroni e della sua generazione, nel cuore degli anni Sessanta. Qualche decennio fa quegli stessi titoli, quei meravigliosi capitoli di una galleria tanto affollata di talenti e di passioni, erano lo sfondo dell’introduzione scritta da Veltroni per un libro a più voci sul Sogno degli anni Sessanta, edito da Savelli, la casa editrice di un’adolescenza lontana e che oggi non esiste più: l’adolescenza, ma anche la casa editrice. Confrontando i due testi, si percepisce quanto nel corso del tempo si sia appannato anche quel senso di sicurezza di sé che emanava da quelle pagine giovanili, quella certezza di tenere in mano il futuro e il destino, di avere il domani in pugno, anche la leggerezza di chi ha poco passato alle spalle e tutta una vita davanti a sé. Il padre mancava molto, al piccolo Walter Veltroni che passava i suoi pomeriggi al Parco dei Daini di Villa Borghese. Quell’assenza sanguinava, nutriva un senso di solitudine che rimane per sempre nel corso della vita, anche nei momenti belli, forse soprattutto nei momenti belli, quando si vorrebbe mostrare al padre l’orgoglio di una performance sportiva, la bellezza di un amore, la nascita di una nipote, un successo politico o professionale. Ma la fragilità dei sessant’anni rende ancora più acuta la ricerca del padre che non hai mai avuto. È in questo punto preciso che Walter Veltroni chiede a suo padre di dargli una mano.
«Non sono vecchio, ma il traguardo di arrivo mi sembra molto più vicino della linea di partenza. Mi accorgo che la vita, che mi ha sempre dato, comincia a togliermi». È un sentimento «spiazzante», così lo definisce Veltroni. Che ti spinge con più prepotenza a chiederti chi sei. Chi era tuo padre. Come parlare a quell’uomo vestito con gli abiti degli anni Cinquanta che hai conosciuto solo nelle foto, nelle registrazioni, nelle testimonianze degli amici e dei colleghi.
E per rispondere a questo interrogativo, «chi era mio padre?», Veltroni non ricorre alle armi facili dell’agiografia e della santificazione retorica. Suo padre non è un mito, ma un uomo. Con le sue debolezze e le sue contraddizioni, anche. Gli amici ricordano al figlio i suoi scherzi, il suo buonumore, la capacità di tenere in mano un microfono e trasmettere a chi ascoltava passioni ancora più potenti di quelle racchiuse nelle immagini: Beniamino Placido amava dire che la radio è il Vecchio Testamento, in cui la figura divina si nasconde, mentre la televisione è il Nuovo Testamento, dove il Figlio di Dio si mostra. Una cronaca in diretta alla radio eccita la fantasia, costringe a un esercizio continuo di immaginazione.
Vittorio Veltroni era bravo in questo mestiere. Ma il figlio Walter non vuole solo elogi postumi. Lo incalza, gli chiede conto dei suoi rapporti con il fascismo, della zona grigia in cui si collocavano tanti italiani che durante la Resistenza esitarono a fare una netta scelta di campo. E il padre sognato e immaginato risponde, non omette niente, non edulcora o abbellisce la sua biografia. È tornato su questa terra per poi continuare a «essere nell’aria», «un desiderio, un impulso, un’energia, un conforto, un rimpianto». E sapendo ora, finalmente, «dove trovarci».      

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