15 ott 2015 Corriere della Sera Di Pierluigi Battista © RIPRODUZIONE RISERVATA
«Ho
cercato per tutta la vita di piacere agli altri. Ho cercato di farmi
voler bene anche da chi mi era contro. Era un limite, per il lavoro che
facevo» «Ho chiesto scusa per non essere riuscito a fare del tutto
quello che volevo, e ho lasciato. Certo, è una sconfitta che mi ha fatto
male. Ma l’ho superata»
Ètutta una vita che aspetti un momento come questo. Un’esistenza di ben
sessant’anni in cui non hai mai sentito dal vivo la sua voce, la voce di
Vittorio Veltroni, di tuo padre, del capo dei radiocronisti nei tempi
epici della Rai. Di tuo padre perduto quando avevi appena un anno, lo
stesso giorno, il 26 luglio del 1956, in cui affondò con il fianco
squarciato il leggendario transatlantico «Andrea Doria». Tuo padre di
cui sei costretto a dire da sempre: «non l’ho conosciuto»; «non ho
neppure una foto con lui»; «non so cosa immaginava per il mio futuro»;
«non mi ha mai rimproverato né fatto un elogio». Il padre che hai
cercato e di cui custodisci amorevolmente, come in un archivio
sentimentale, le registrazioni radiofoniche, le testimonianze delle
tante persone che hanno lavorato con lui durante un’Olimpiade, un Tour
de France, un Giro d’Italia, o inventando per Alberto Sordi il
personaggio mitico di Mario Pio, «il vostro divoto consigliere, il
vostro affezionato inconfidente» che risponde «senza inalcuna
inesitazione alle vostre chiamate tilefoniche». O le tantissime
fotografie che aveva conservato tua madre, a cui non avevi «mai chiesto
nulla della morte di papà». E che da sola ti ha tirato su con forza e
coraggio, assieme a tuo fratello Valerio.
Poi, un giorno, quel momento arriva. Compiuti i sessant’anni, tuo padre
sconosciuto che non avevi mai toccato e abbracciato e che non aveva mai
potuto stringerti la mano per proteggerti e guidarti, ti viene a trovare
in un sogno pieno di parole, di colori, di ricordi, di immagini. E te
lo trovi seduto sui gradini che portano a casa, con la brillantina sui
capelli e con i vestiti che si usavano negli anni Cinquanta, quando tu
sei nato e lui è morto. E gli chiedi perché è venuto da te proprio
adesso, perché proprio in questo momento e lui ti risponde: «Perché per
la prima volta mi sembri fragile, mi sembra tu abbia bisogno di me».
Adesso, a sessant’anni, quando tutti immaginano che tu sia più forte e
corazzato. Adesso, più di quando, bambino, toccavi i suoi abiti restati
in ordine nell’armadio, più di quando «in classe dicevano “Walter fu
Vittorio”», più di quando il tuo «compagno di banco faceva il resoconto
della domenica pomeriggio allo stadio con il papà». Adesso, a
sessant’anni, ti senti fragile, più debole, vulnerabile. Adesso, perché
quando tuo padre è morto aveva trentasette anni, «solo trentasette
anni», e tu puoi dire «oggi potrebbe essere mio figlio, mio padre».
Si intitola Ciao (Rizzoli) questa cerimonia degli addii, questa indagine
scrupolosa e tenera su un «ragazzo importante» che Walter Veltroni non
ha mai potuto chiamare papà e di cui restituisce in queste pagine un
ritratto vivido e appassionato. Non un santino, ma un mosaico emotivo da
ricostruire pezzo dopo pezzo, per riscoprire una persona nella sua
pienezza. E un destino incompiuto. Trattandosi di Veltroni, si potrebbe
dire che questo libro contiene uno scoop: la dichiarazione che la
politica è per lui un capitolo del passato, di cui andare orgoglioso ma
senza evitare di pronunciare, nel colloquio immaginario con il padre
ritrovato, una parola molto impegnativa: «sconfitta». «Ho alzato la
mano, ho chiesto scusa per non essere riuscito a fare del tutto quello
che volevo, e ho lasciato, Senza rancore, senza rumore. Certo, è una
sconfitta che mi ha fatto male. L’ho ritenuta ingiusta, ho sofferto. Ma
l’ho superata, perché la vita è di più: è sorpresa, è invenzione, è
fantasia». E si scorgono anche tracce di un’autoanalisi, di un commento
caratteriale e psicologico, nel confronto con il padre, a quello che in
passato è stato definito il «veltronismo»: «Credo di sapere che a lui
che c’era devo molte delle mie qualità e a lui che non c’era più i miei
difetti. Ho cercato per tutta la vita di piacere agli altri. Ho cercato
di farmi voler bene anche da chi mi era contro. Era un limite, per il
lavoro che facevo». Ci vuole un corpo a corpo con l’immagine del padre, e
anche questo c’è nel libro, per parlare così di se stessi.
Il momento della fragilità e della vulnerabilità, dunque. Il primo
capitolo di Ciao rievoca una galleria di canzoni, di film, di grandi
eventi sportivi, di libri che, tutti insieme, sono stati il romanzo di
formazione di Walter Veltroni e della sua generazione, nel cuore degli
anni Sessanta. Qualche decennio fa quegli stessi titoli, quei
meravigliosi capitoli di una galleria tanto affollata di talenti e di
passioni, erano lo sfondo dell’introduzione scritta da Veltroni per un
libro a più voci sul Sogno degli anni Sessanta, edito da Savelli, la
casa editrice di un’adolescenza lontana e che oggi non esiste più:
l’adolescenza, ma anche la casa editrice. Confrontando i due testi, si
percepisce quanto nel corso del tempo si sia appannato anche quel senso
di sicurezza di sé che emanava da quelle pagine giovanili, quella
certezza di tenere in mano il futuro e il destino, di avere il domani in
pugno, anche la leggerezza di chi ha poco passato alle spalle e tutta
una vita davanti a sé. Il padre mancava molto, al piccolo Walter
Veltroni che passava i suoi pomeriggi al Parco dei Daini di Villa
Borghese. Quell’assenza sanguinava, nutriva un senso di solitudine che
rimane per sempre nel corso della vita, anche nei momenti belli, forse
soprattutto nei momenti belli, quando si vorrebbe mostrare al padre
l’orgoglio di una performance sportiva, la bellezza di un amore, la
nascita di una nipote, un successo politico o professionale. Ma la
fragilità dei sessant’anni rende ancora più acuta la ricerca del padre
che non hai mai avuto. È in questo punto preciso che Walter Veltroni
chiede a suo padre di dargli una mano.
«Non sono vecchio, ma il traguardo di arrivo mi sembra molto più
vicino della linea di partenza. Mi accorgo che la vita, che mi ha sempre
dato, comincia a togliermi». È un sentimento «spiazzante», così lo
definisce Veltroni. Che ti spinge con più prepotenza a chiederti chi
sei. Chi era tuo padre. Come parlare a quell’uomo vestito con gli abiti
degli anni Cinquanta che hai conosciuto solo nelle foto, nelle
registrazioni, nelle testimonianze degli amici e dei colleghi.
E per rispondere a questo interrogativo, «chi era mio padre?»,
Veltroni non ricorre alle armi facili dell’agiografia e della
santificazione retorica. Suo padre non è un mito, ma un uomo. Con le sue
debolezze e le sue contraddizioni, anche. Gli amici ricordano al figlio
i suoi scherzi, il suo buonumore, la capacità di tenere in mano un
microfono e trasmettere a chi ascoltava passioni ancora più potenti di
quelle racchiuse nelle immagini: Beniamino Placido amava dire che la
radio è il Vecchio Testamento, in cui la figura divina si nasconde,
mentre la televisione è il Nuovo Testamento, dove il Figlio di Dio si
mostra. Una cronaca in diretta alla radio eccita la fantasia, costringe a
un esercizio continuo di immaginazione.
Vittorio Veltroni era bravo in questo mestiere. Ma il figlio
Walter non vuole solo elogi postumi. Lo incalza, gli chiede conto dei
suoi rapporti con il fascismo, della zona grigia in cui si collocavano
tanti italiani che durante la Resistenza esitarono a fare una netta
scelta di campo. E il padre sognato e immaginato risponde, non omette
niente, non edulcora o abbellisce la sua biografia. È tornato su questa
terra per poi continuare a «essere nell’aria», «un desiderio, un
impulso, un’energia, un conforto, un rimpianto». E sapendo ora,
finalmente, «dove trovarci».
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